sabato 31 marzo 2018

Dignità e onore

C'era una volta il samuraji, una specie di cavaliere senza macchia e senza paura. 
Il suo agire, in caso di manchevolezza, di errore, di tradimento al giuramento di fedeltà a un signore o una comunità, aveva una sola conclusione, che è ancora oggetto di ammirazione, di mitizzazione epica.
Ignorato fino a che riusciva a tenere un modo di operare limpido, alla minima macchia, al minimo dubbio sulla sua integrità morale, non ci pensava due volte e faceva harakiri: l'implicita richiesta di perdono consisteva in una lama infilata da sé nella propria pancia, gesto che chiudeva ogni polemica sul suo (anche solo ventilato) errore.
Da reprobo, con quel gesto si autosantificava.

C'era una volta il comandante delle navi, di qualunque genere o stazza: su queste era il solo, unico, responsabile e 'padrone' su qualunque evento avesse a verificarsi sui suoi ponti. 
In plancia di comando solo Dio era al di sopra del comandante. 
Ma non risulta che il padreterno sia mai intervenuto a smentire o comunque mettere in discussione o correggere errori o salvare natanti. 
Da ciò a dedurre che il comandante era unico dio sulla sua nave il passo è breve.
Come dio umano, con la faccenda del libero arbitrio, poteva anche sbagliare.
La nave, nel momento che veniva affidata al comando di un ufficiale, con questo diveniva un tutt'uno, indissolubile.
Una legge antica, forse mai scritta, ma da (quasi) tutti rispettata, si è tramandata nei secoli: la legge del mare.
Che prevedeva che il comandante di una nave la quale, per i motivi più vari, fosse destinata a "colare a picco", ne seguisse il destino affondando con essa. 
Era un matrimonio senza possibilità di separazione, tanto meno di divorzio.
In versioni più recenti, quella stessa legge era stata ammorbidita: imponendo a qualsiasi comandante di mezzo marino di essere l'ultimo ad abbandonare il naviglio, una volta accertato il salvataggio di tutti i naviganti a lui affidati.
E provvedendo di persona al ripescaggio di quanti fossero stati vittime della sua imperizia. Pur se questa fosse dovuta a fatti non prevedibili e/o casuali.

Era il 13 di gennaio del 2012, nei pressi dell'isola del Giglio: una manovra stupidamente azzardata di una nave passeggeri ha provocato 32 morti.
Il comandante, più che di imperizia, è stato accusato dal sentire comune di assoluta imbecillità.
Dal processo sono emersi comportamenti che hanno evidenziato incompetenza, vigliaccheria, supponenza, in ogni grado di giudizio. 
In aule della nostra giustizia, che quanto a manica larga non ha rivali.
Ci sono voluti circa sei anni per affibbiarne 16 di carcere. forse non tanto per l'errore quanto per un arrampicamento indecoroso sugli specchi, nel tentativo di scaricare su altri ogni responsabilità per quanto accaduto.
Altrove avrebbe ricevuto 16 anni per ogni morto a causa sua; 512 anni.
Non l'ergastolo, che pare sia una condanna a morte procrastinata; e neanche i trent'anni in totale che si danno per crimini efferati.
Da noi meno di sei mesi per ciascun cadavere recuperato.
Che, come da prassi, non sconterebbe per intiero: buona condotta, motivi di salute, incompatibilità col regime carcerario, inumanità del far crescere una figlia senza il padre e una moglie senza un marito (pur se notoriamente fedifrago)... in poco tempo sarebbe libero e, probabilmente, nuovamente al comando di un naviglio. Foss'anche solo un vaporetto nei canali veneziani.
Nel frattempo una colorita interiezione, a lui personalmente indirizzata, ha portato allo scranno parlamentare colui che, in un momento a dir poco concitato, l'ha proferita. Se a chiunque sfuggisse, per svariati motivi, il sostantivo che ha accompagnato l'invito, fosse data questa possibilità, avremmo un popolo di onorevoli e alle elezioni andremmo a votare i pochi (probi) cittadini rimasti.
Che poi un tentativo di suicidio, magari simulato (con tutte le dovute cautele che non giungesse a 'buon' fine) avrebbe lavato un pochino la sua colpa. O avrebbe magari portato a una assoluzione piena per evidente incapacità di intendere e volere al momento del fatto, secondo la formula che mette tutti d'accordo.
Invece no, ricorre alla corte di Strasburgo.

(ANSA) - Una vicenda processuale che presenta ''sintomi di iniquità''. Caratterizzata da una campagna mediatica che avrebbe condizionato il processo, soprattutto quello di primo grado, dalla deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito (con l'assegnazione del giudizio di appello a una sezione della Corte scelta ''ad hoc'') e da una sostanziale iniquità dell'intero procedimento. Sono i punti salienti del ricorso alla Corte europea di Strasburgo presentato dai legali di Francesco Schettino, che sta scontando una condanna a 16 anni di reclusione per il naufragio della Costa Concordia. I motivi dell'istanza presentati alla Corte europea dei diritti dell'uomo, e che nei giorni scorsi ha superato un primo filtro di ammissibilità, sono stati illustrati dagli avvocati Saverio Senese, Pasquale De Sena, Paola Astarita, Irene Lepre e Donato Staino. In caso di accoglimento del ricorso, come hanno spiegato i legali, si aprirebbe la strada a una revisione del processo in Italia.

TG5 di qualche giorno fa: "Francesco Schettino ha superato il primo scoglio, la Corte di Strasburgo ha dichiarato ammissibile il ricorso..." ecc.; ma molto poco eccetera, visto che la notizia era stringata al massimo.
Si dice: non parlare mai di corda in casa dell'impiccato. Al TG5 fu vera gaffe, fu umorismo nero o fu ignoranza voluta del fatto che il primo scoglio fu centrato da Schettino, provocando 32 morti, feriti e danni a non finire?
Da scarse notizie successive sui media stampati si apprende che le sentenze, in tutti i gradi di giudizio, sarebbero state condizionate da una pressione mediatica non giustificata, che avrebbe provocato a priori la condanna, al fine di appagare gli umori del popolino che a gran voce la richiedeva.
Mi chiedo: a quando un pool di studi legali che promuova una class action a favore di tutti i condannati con destinazione 41bis? I Riina buonanima, i Provenzano, domani (o mai) un Messina-Denaro, si rivolteranno, chi nella tomba e chi in cella, esigendo di brutto una riduzione di pena commisurata alla maggiore pressione mediatica che li ha danneggiati nel corso dei processi...
Annamaria Franzoni, Rosa e Olindo Romano, Sabrina e Cosima Misseri, e molti altri, accusati e poi condannati, avrebbero diritto di essere beneficiari di un ricorsino alla stessa Corte, visto che anche i giudizi su di loro furono "influenzati" da pressioni mediatiche superiori a quelle che si applicano, che so, al furto di una melanzana o di una mela per fame?

Dignità e onore, vergogna e pudore... dove siete? 
A puttane, con sconto comitiva!

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