Non sono un esperto del gioco del lotto, pertanto
ciò che vado a scrivere va preso con beneficio d’inventario.
Un numero singolo, tipo quello citato nel titolo,
puntato da solo si dice “ambata”; è da quando ho saputo dell’esistenza di
questa fregatura venduta come “gioco” che mi chiedo perché un numero solitario
sia definito ambata, divenendo “ambo” quando al single si aggiunge un compagno.
Dopodiché tutto procede con la sequenza progressiva
della buona aritmetica: terno, quaterna, cinquina; che è il top della giocata,
soprattutto se si vince.
Il mio primo incontro con questo “sport” risale a un
accadimento drammatico avvenuto dalle parti di Cuneo (tra l’altro una città a
me molto cara) molti, ma veramente molti, anni fa.
Non deve stupire che i numeri da giocare nascano il
più delle volte da fatti tragici, avvenimenti eccezionali o da sogni, di solito
con defunti che si materializzano “dando i numeri”, non nel senso metaforico
della pazzia improvvisa ma fornendo direttamente quei segnetti, che dell’arabo
sono l’unica cosa che conosciamo (a parte la Bonino che, non paga dei numeri
noti ai comuni mortali, è andata sul loro posto natìo per imparare qualche
parola alternativa al politichese nostrano imperante, a malapena oscurato dal
parlare forbito di recenti neonati movimenti).
I numeri su quanto successo in quell’occasione non
li avevo elaborati di persona (allora ne capivo una beneamata cippa di ‘ste
cose, adesso invece… pure); li avevo ricevuti da un’esperta, che mi aveva
garantito la vincita, purché li avessi giocati per almeno tre volte.
Detto-fatto, mi ero presentato in ricevitoria (un
bugigattolo, poco più che un sottoscala, fiocamente illuminato, una specie di
antro, con uno stretto banconcino dietro il quale stazionava una befana, con
naso adunco e occhi grifagni; da allora, pensando o parlando di Fisco, ne
abbìno l’ipotetica sua figura a quella di questa megera, in ciò confortato da
tutte le caricature satiriche che ancora meglio lo descrivono), avevo esposto i
miei numeri, la ‘personcina’ li aveva scritti a mano su una sottile
strisciolina di carta verdognola…
“Su
quale ruota?”.
“Cuneo”.
“Non
esiste una ruota su Cuneo”.
Allora non ero sboccato come adesso (lo sono un
pochino oggi, per adeguarmi al parlare quotidiano), ma sono certo che avrò
pensato “Cazzo!”, come rafforzativo al disappunto per una notizia inattesa, di
quelle che tagliano da subito le gambe a una prospettiva di gioco vincente.
Che allora sarebbe pure stata espressione originale,
visto che i vocabolari del tempo non la
riportavano; a malapena questi, e neanche tutti, citavano “Pene”, senza
allargarsi più di tanto: organo di riproduzione maschile. Punto.
Una breve ricerca su alcuni di quelli in mio
possesso, mi porta a scoprire che in uno del 1936 e in un altro del 1965, quel
termine non compare. Figuriamoci “cazzo”…
Per curiosità, cercando il suo contrapposto fisico,
alla voce “Vagìna” ho trovato, su quello del ’36: “in anat. Vagìna si usa a significare il canale che conduce all’Utero”; quello del ’65 è più esplicito: “Guaìna, fodero; tegumento (citando poi, di Dante: “la vagina delle membra sue”, riferito allo spellamento di Marsia
da parte di Apollo). Punto, anche qui.
Provate a immaginare, in tempi più attuali, un De
Falco che urla (incazzatissimo) a Schettino: “Torni subito a bordo, pene!”.
Peraltro, se mai mi fosse sfuggito di bocca, ho il dubbio
che la strega, certamente più esperta di me in quel campo specifico, più che
esserne scandalizzata, mi avrebbe annunciato che:
“No,
neanche la ruota sul Cazzo esiste… le ruote sono dieci, le vede lì appese al
muro, su quale di quelle metto ‘sti numeri?”.
Un po’ scornacchiato, non ricordo su quale di quelle
esposte li avevo puntati.
Come buon inizio di incoraggiamento non avevo vinto,
in uscita manco un numero.
E sono certissimo che se ci fosse stata la ruota di
Cuneo qualche soldino lo avrei portato a casa.
Va da sé che le altre due giocate non le avevo più
fatte.
All'epoca le estrazioni avvenivano in ciascuna delle dieci città onorate del titolo di "ruota", e ricordo che venivano trasmesse in diretta televisiva, con affollamenti esterni in attesa fuori dalle singole sedi cittadine, con il ragazzino/ragazzina con gli occhi bendati che estraeva la pallina dall'urna a rete, ovalizzante ellittica, seguita dal passamano della biglia tra i funzionari schierati dietro il tavolone, fino alla fatidica esposizione del numero estratto, con l'urlo di gioia o delusione degli (a)spettatori.
Adesso i “giochi”, tutti quelli di questo genere,
sono diventati in molti casi l’ultima
ratio, talvolta troppo sovente prima di un suicidio.
Laddove l’articolo 1 della Costituzione ormai si
basa su tutto meno che sul lavoro, una “Repubblica fondata sul gioco
(d’azzardo)” farebbe la sua sporca bella figura.
Non avevo pensato di fare un post esplicito sul
gioco del lotto, ma un fatterello ha stuzzicato il parto, consentendomi di
porgere a quanti interessati un altro numerino da abbinare al già citato 44.
Da giocare per tre volte consecutive, su una ruota a
piacere.
Questo è il post vero: 32 da giocare
Credo che tutti, chi più chi meno, più volte nella
vita abbiamo avuto a che fare con la burocrazia.
(S)parlarne è come sparare sulla benemerita Croce
Rossa.
Questa fantomatica signora esiste in almeno due
versioni: quella plateale, fatta di muri e di paletti che ostacolano lo
sviluppo di ogni settore della vita, bloccando nei suoi iter farraginosi un procedere lineare e sereno; di per sé già
notoriamente stupida e incomprensibile, i burocratizzati ci mettono del proprio
per renderla più personalizzata.
Esiste poi una burocrazia becera, sviluppata di
solito a livello locale, ciliegina su una torta fatta di citazioni e
riferimenti che fanno comodo solo a chi vuole che la semplicità sia
ulteriormente nascosta o manipolata.
Di quest’ultima forma qui vado a raccontare.
Trentadue, trentadue anni…
Da quando mi sono trasferito qui, dove tutt’ora
abito, sono passati trentadue anni.
Da allora, stesso mare, che guardo ogni mattina
sorseggiando il primo caffè della giornata; stesso cielo; stesso giardino,
variegato dai colori stagionali…
Stessa casa: qui hanno chiuso gli occhi sia mio
suocero prima che mia suocera poi, quando la loro residenza è stata trasferita
definitivamente nei mini alloggi comunali, recintati e rallegrati da piccoli vasetti
di fiori e, la notte, da tante lucine tremolanti.
La mia famigliola ed io sono trentadue anni che
abbiano qui la residenza; non abbiamo casa al mare poiché già ci siamo, non
l’abbiamo ai monti accontentandoci del precollinare su cui la casa è costruita.
Luce, gas, acqua, allacci fognari, recapiti postali…
tutto a posto, da appena arrivati qui.
Isi (la madre primaria di una vituperata tassa),
Ici, Imu: tutto in regola, arrotondati al centesimo.
Fiscalmente siamo in una botte di ferro.
Ricevo una lettera (gialla) dal Comune: datata
03/05/2013, busta timbrata in posta il 16 di questo mese, infilata nella mia
cassetta il 25, sempre di questo maggio.
Una tale celerità mi ha fatto subito pensare a qualche
comunicazione importante e sicuramente sgradevole.
Infatti.
Cito, letteralmente, rispettando le maiuscole, le
espressioni e la punteggiatura:
«Oggetto: censimento 2011
Se
non vi presentate a chiarire la vostra posizione, sarete cancellati per
irreperibilità.
(Ari-ri-omissis),
03/05/2013
L’Ufficiale d’Anagrafe»
Bene, à la
guerre comme à la guerre.
Pertanto mi sono armato (di tutte le carte del
censimento citato, comprensive di ricevuta dell’inoltro e di una lettera di un’aiutatrice alla compilazione, nella
quale dichiarava di essersi recata al mio domicilio per aiutarmi, appunto,
nella compilazione dei fascicoli censuari; mai vista) e sono andato in Comune.
Sportello, stranamente libero da code (forse uno dei
motivi per cui non smette di piovere e ogni tanto tempesta pure):
“Ho ricevuto questa lettera…”.
“Mimma, c’è un
signore per il censimento…”.
Mimma (forse Domenica, anche se era lunedì, capa del
dipartimento), da un ufficio all’interno:
“Venga di qua”.
Per l’ufficio, a sinistra, prima porta a destra.
Faccio vedere la lettera, e mi appresto a sciorinare
la lenzuolata delle dichiarazioni a suo tempo rilasciate per essere
regolarmente censito…
“No, non è
necessario, è sufficiente che mi faccia una dichiarazione, in foglio di carta
semplice, in cui dichiara di essere residente in questo Comune”.
Avrei voluto mettere in mostra un’espressione
intelligente, quella di uno che ha capito al volo; credo invece che mi sia
uscita una faccia da piciu, da scemo,
poiché ha ritenuto di ripetermi una seconda volta il messaggio.
A casa ho battuto su Word la dicitura richiesta (il
sottoscritto, nome, cognome, data e luogo di nascita, codice fiscale “dichiara
di essere residente in questo Comune”, via, numero civico e, mi son voluto
rovinare, ho aggiunto anche i distinti saluti, che l’Ufficio Anagrafe aveva
trascurato) e son tornato a portare questa solenne pomposa dichiarazione.
L’avesse letta, avesse dato almeno uno sguardo per
vedere se corrispondeva a quanto da lei desiato, sarei uscito da quel manicomio
parzialmente appagato.
Manco pù cazz,
neanche quello.
“Ah, bene,
finisco qui (al computer, giurerei che si stava facendo un solitario di
carte) e metto a posto”.
La burocrazia, se non ci fosse bisognerebbe
inventarla, tanto è divertente.
E se, con questi chiari di luna, finisce il
divertimento, significa che siamo prossimi alla fine.
Lo so, lo so, ci siamo lo stesso, ma farlo
sghignazzando colora d’arcobaleno questo periodo, che oltre al grigio offre
soltanto il nero.
Nota finale: il numero 44 suggerito non corrisponde
in cabala alla burocrazia, ma alla voce Assurdità; credo sia il minimo
dovuto.