lunedì 27 settembre 2010

Sinistri due


Tra l’incidente con l’auto del dentista e il cambio vettura con la Fulvia, avevo fatto un altro piccolo sinistro, ancora con la 500.
Non gravissimo, ma la mia reputazione di coglione ne era riuscita ampiamente rafforzata.
Dovevo andare a una cena con amici, alcuni pure compagni, cui partecipava anche Prospero, il titolare della scuola guida.
All’andata era venuto con la macchina dell’autoscuola, che la moglie aveva portato via, per faccende sue; tanto il rientro era assicurato dalla mia macchinetta.
Cena regolare, con i limiti delle bevande allora consentiti, passata tra chiacchiere e allegria (la buona ortografia mi piace, senza esserne fanatico: avevo battuto chiacchere che mi suonava meglio; me lo son trovato sottolineato in rosso, quindi ho aggiunto la “i” e il rosso è sparito. Si vede che è giusto così).
Era dopo mezzanotte, scambio di saluti… e arrivederci.
La guida del bolide, ovviamente era a carico mio, con la voglia di dimostrare che, nonostante l’esame disastroso, i concetti di massima li avevo assimilati.
Guida quasi perfetta fino a un incrocio.
Era un incrocio tra due corsi importanti, regolato da un semaforo, funzionante nonostante l’ora tarda.
Non c’era un’anima in giro, né umana né meccanica; in qualche androne si intravvedeva qualche lucciola, ma più perché si sapeva che c’erano piuttosto che per visione certa.
Nonostante fossero importanti i due corsi, quanto a illuminazione lasciavano a desiderare: uno, fiancheggiato da viali alberati che attenuavano la luce dei lampioni, l’altro proprio per luce scarsa, emessa da lampioni antichi e malandati.
Velocità contenuta, semaforo verde, leggera accelerata per beccarlo, viene il giallo.
Ancora fresco degli insegnamenti ricevuti, freno, e vado a fermarmi nel bel mezzo delle strisce pedonali.
Che per il codice della strada appena studiato non era cosa bella.
(Se fosse sfuggito, non un’anima in giro; avrei potuto aspettare il prossimo verde, continuando a chiacchierare con Prospero).
Ma era Prospero, il mio istruttore, e non potevo dargli l’impressione di impipparmi dei suoi insegnamenti.
Quindi, appena fermo, innesto la retromarcia (e con la 500, se non eri ben fermo, col cavolo che riuscivi a metterla; la doppietta valeva per le marce in avanti, non per la retromarcia), e avanti tutta, anzi indietro…
Dietro non “avrebbe” dovuto esserci nessuno.
Invece c’era.
Lo specchietto interno, con visione limitata, non mi aveva evidenziato un macchinone nero, che mi si era attaccato al didietro, silenzioso come tutti i macchinoni.
O, forse, manco avevo guardato.
Un leggero “sbamm!” mi aveva avvisato dell’ostacolo colpito.
A Prospero era sfuggito, più o meno, un “che cazzo fai!”, che nel tempo sarebbe diventato quasi un mio logo personale.
Scendiamo entrambi per vedere i danni: il macchinone proprio niente, tant’è che il tizio aveva aggirato il mio scatolino e se ne era andato, seminando per strada strane giaculatorie.
(Già un macchinone, silenzioso all’animaccia sua, in giro a quell’ora era sospetto; il fatto di aver lasciato perdere lo scambio dei dati; conoscendo la zona, come detto bene illuminata da lucciole, mi ha spinto a pensare che si trattasse di uno di quelli che hanno sempre fame, di un pappone.
Ma tant’è, il mondo ne è pieno, uno a me poteva pure essere capitato).
Le 500, chi le ha avute lo sa bene, erano dei muletti, con una robustezza incredibile rapportata alla loro mole.
Inoltre, a parte il tettuccio e i sedili, abbondavano in metallo.
E, infatti, anche il mio macchinino aveva riportato una piccolissima ammaccatura al paraurti.
Passato lo spavento, con Prospero che mi faceva i complimenti… non per la mia precisione (come mi sarei aspettato e meritato), ma per la mia coglionaggine, ripartiamo.
La prima era entrata benino, ma dopo l’avvio la macchina aveva cominciato a camminare singhiozzando.
Lasciato Prospero a casa sua, mi ero avviato, sempre singhiozzante, verso la mia abitazione.
Non ero ancora sposato, perlomeno la rottura di palle da parte di una moglie l’avevo evitata.
Mattina, officina: uno stronzo mi ha toccato da dietro, e la macchina viaggia a strattoni. Non abbiamo neanche fatto l’assicurazione, perché sembrava non ci fossero danni.
Meccanico: bravo, coglione, quella bottarella ha spinto in avanti i bracci di sostegno del motore, e adesso il danno te lo paghi tu.
Potevo dirgli che, comunque, il danno l’avrei dovuto pagare io?
La scena degli insulti, diretti a quel bastardo che mi aveva tamponato, la risparmio poiché troppo tragica.
Prospero, compagno e amico, non me lo aveva detto esplicitamente, ma credo lo abbia pensato:
“Per favore, non dire in giro che hai preso la patente da me. Qualcuno potrebbe pensare che faccio avere la patente a cani e porci, e la reputazione dell’autoscuola andrebbe a farsi benedire…”.

domenica 26 settembre 2010

Dedicato a...


A ciascuno, la propria papera sembra un cigno!
Questo è la nostra cigna... muta.
Muta, ma che fa un casino del campidoglio.
La metto in blog, dedicata espressamente a...
Per dimostrare che la bellezza non è solo dark,
Con un pizzico di fantasia anche la punk non è male!

venerdì 24 settembre 2010

SINISTRI

Non sinistri come gente di sinistra, e neanche come gente torva tipo i bravi (cfr Manzoni).

“Sinistri” come incidenti con l’auto.
Ho già raccontato della presa della patente.
In base al racconto, in un simpatico commento, sono stato invitato ad avvisare quando mi muovo in macchina; per mettersi in salvo.
Tipo: gatto al volante, pericolo costante.
Non ho fatto molti incidenti, quindi non distoglierò più di tanto dalla lettura di altri blog, molto più interessanti.
Senza ironia.
Ne racconterò uno e mezzo, per non suscitare timori in chi guida.
Il primo, indimenticabile come il primo amore, otto mesi circa dopo il patentamento.
Avevo comprato una fiat 500 di seconda mano, decapottabile, indietro fino sopra il motore.
Novembre inoltrato, circa le nove di sera, già buio, una nebbiolina che si posava sulla strada rendendola un po’ viscida.
Uscivo dal lavoro, e, dopo una per niente faticosa giornata, niente di meglio, avviando la macchina, che accendere una sigaretta.
A quei quattro o cinque poveretti che ancora fumano, almeno una volta nella vita sarà capitato quello che quella sera è capitato a me: sigaretta accesa tra le labbra, mani sul volante come da scuola guida, velocità ridotta sia per la nebbiolina sia perché non avevo fretta.
Non sono Bogart che per tutto un film teneva la sigaretta pendula, con le mani libere di cincischiare le sue bellocce; un paio di tirate, poi, salda una mano sul volante, con l’altra ero sono andato a toglierla, per far respirare lei e respirare io.
Succede che le tre tirate avevano attaccato la sigaretta alle labbra; prendendola, tra indice e medio, non si era mossa. In cambio mi ero bruciacchiato, e subito dopo la sigaretta era caduta a terra, sotto il sedile.
Primo pensiero: la macchina va a fuoco; secondo pensiero: recuperare la possibile fonte dell’incendio.
Così, senza abbandonare il volante come da scuola guida, ho cercato la cicca. Che, forse, era finita sotto il sedile lato passeggero.
Dico forse, perché non l’ho trovata; con gli occhi occupati a cercarla, la testa sotto il cruscotto, mano sempre sul volante, che invece della strada seguiva le mie manovre.
Sbadabam!
Un dentista aveva parcheggiato dove non avrebbe dovuto, cioè sulla mia strada.
Una bottarella alla capoccia, il davanti della mia 500 nettamente accorciato, il macchinone del dentista con un po’ di fanaleria posteriore sfasciata.
Prima sulla strada non c’era un’anima; dopo il botto i soliti guardoni.
Salta su uno: vattinne, che nessuno ha visto niente…
‘Forse’ non lo avrei fatto comunque, ma come potevo vattinnare con la batteria davanti completamente sfasciata…
Assicurato Sai, socio Aci, officina a duecento metri. Che culo, ragazzi!

Il secondo non era stato un vero incidente, direi piuttosto un attentato.
Avevo iniziato ad uscire con una ragazza; solite cosucce iniziali, ancora senza impegno; ero in un periodo di cernita, per cui saltellavo qua e là, evitando accuratamente posti comuni che potessero fare incontrare tra loro le figliole.
Questa ragazza aveva un’amica, Enrica, abbastanza disinvolta, ma soprattutto ficcanaso.
Premessa: nel frattempo dalla 500 ero passato a una Fulvia coupé, sempre seconda mano, gialla.
Poiché dal lavoro uscivo sempre un po’ tardino, avevo fornito la ragazza delle chiavi della macchina; a una certa ora prendeva il tram e veniva ad aspettarmi all’interno della vettura (fornita di radio e mangiadischi, mica balle).
Una di quelle sere, era venuta con l’amica Enrica ad aspettarmi.
Appena avviata la macchina, l’amica aveva cominciato a dire di sentire strani rumori, le sembrava che la macchina non fosse stabile… insomma a mettermi in allarme.
Non avendo rilevato a orecchio alcunché di anomalo, avevo proseguito verso una nota gelateria, avevamo preso una bella coppona ciascuno, e prima di ripartire, per sicurezza avevo fatto un giro intorno alla macchina.
Gomma posteriore destra quasi completamente a terra.
Basso, quindi maligno, avevo intuito subito che c’era qualcosa di strano.
Beh, subito… due giorni dopo.
Enrica aveva confidato alla ragazza di avermi visto in compagnia di un’altra, in un certo posto.
Tanto per farmi capire che non voleva interferenze, mi aveva sgonfiato la gomma per darmi un segnale.
All’epoca non c’era ancora la sindrome Bobbit, però un eventuale coltello in mano a una che ti sgonfia le gomme per un sentito dire, poteva diventare pericoloso.
All’epoca, a parte la macchina, avevo solo due gioielli: la gola e i pendenti.
Quando voglio so essere drastico, al limite della cattiveria.
Quindi fine immediata della relazione, grazie tante per quello che mi aveva dato, ma basta così. Addio per sempre.
E quando un gatto dice basta è un basta definitivo.
Forse  il ‘sempre’ e il ‘definitivo’ erano un po’ elastici, visto che due anni dopo l’ho sposata.


SEGUE… sempre forse


 

giovedì 23 settembre 2010

Bidonville

Case di latta
intonacate di ruggine
verniciate dalla muffa del. tempo
Ventate di freddo
s'insinuano dalle cento finestre
e tremula
la fiamma di arbusti.
Tre bimbi scalzi
mordono pane stantio e muco.
Occhi impauriti
macerati dallo spavento.
Gote bianche di fame
gote bianche di freddo.
Pendono dal tetto
stalattiti di ghiaccio
come lampadari di miseria.
Muore un cero fumoso
ed è buio.
Buio
d'intorno e dentro
nero
come il cuore
di chi non vede.

Angelo Roberto Campiselli (senza data)

mercoledì 22 settembre 2010

B come patente

Sei mesi fa ho compiuto quarantacinque anni.

Il tempo che passa porta ai ricordi; talvolta basta un profumo, un caseggiato, una piazza, l’incontro con una persona non vista da tempo, una lapide al cimitero…

O una nipote che si iscrive a scuola guida per la patente.

E il pensiero corre all’indietro, quando scuola guida per la patente l’ho “fatta” io.

E penso a quello che, con quella patente in tasca, mi è successo, di bello e di meno bello.

Non posso ricordare tutto delle migliaia di chilometri percorsi, ma gli incidenti, i “sinistri”, li ricordo tutti…

E il primo approccio col sesso, in una cinquecento decapottabile, con una “nave scuola” con un fisico doppio il mio.

Parto dall’esame.

Programma per quella mattina : intanto avevo lavorato fino a mezzanotte; alle 8,30 circa esame teoria e guida; subito dopo era previsto un viaggio in treno per il matrimonio di un amico, in una città a un centinaio di chilometri.

L’esame: come da copione, partenza col freno a mano (in seguito detto di stazionamento) tirato; non che fosse importante, visto che era bruciato, ma all’ingegnere già la partenza non era piaciuta.

“Svolti a destra”, fatto.

“Se hanno messo la freccia anche per la destra, forse è per essere messa, non le pare?”.

Freccia messa.

“Ma adesso siamo in rettilineo, se mette la freccia è per accostare. Deve accostare?”.

Non dovevo accostare, via la freccia.

Incrocio; fatto cento volte a scuola guida, sapevo di avere la precedenza: ho tirato dritto senza tentennamenti, e forse questa è stata l’unica mossa che mi ha salvato dalla bocciatura.

“Accosti a destra”.

Non c’era marciapiede, c’era il muro di un caseggiato; accosto in maniera perfetta, lasciando tra la vettura e il muro lo spazio esatto per aprire a malapena lo sportello.

“Ma i pedoni devono andare sulla carreggiata o sul marciapiede?”.

“Ma il marciapiede non c’è…”.

“Scenda, buona giornata”.

Eravamo in zona scuola guida, ho firmato l’avvenuto esame e sono andato a prendere il treno.

Naturalmente allora gli ingegneri non si sbottonavano sull’esito delle prove, quindi ero partito col dubbio: ce l’avrò fatta?

Nel bel mezzo del matrimonio, ho cercato un telefono e ho chiamato il titolare, Prospero, per avere il responso.

“Cazzate ne hai fatte, perfino sufficienti a far bocciare anche quelli che hanno fatto l’esame dopo di te… Comunque è andata!”.

Promosso, al primo colpo!

Io, sinceramente, non mi sarei promosso; ma evidentemente quelli che a me erano sembrati errori gravi, per l’ingegnere erano errorucci, bagatelle di gioventù, perdonabili.

Non voglio pensare che sulla promozione abbia pesato il fatto che con Prospero ci conoscessimo da una vita, o che con lui avevo anche una comunanza politica; diciamo che non eravamo fratelli e neanche amici.

Eravamo compagni.

Che, allora, molto allora, aveva un significato…



Segue… forse.

venerdì 17 settembre 2010

LATITANTE

Peregrino se ne va,
nel deserto di città,
ramingo e disperato,
solitario e ricercato.

Guarda a destra,
e c’è un plotone,
di corvi affamati,
sulla sinistra
un altro plotone,
di jene ridenti…

che cercano lui.

Tutto per colpa
di una cassata,
nata dal nulla
e poi svirgolata.
Tutti lo cercano,
nessuno lo vuole,
soltanto perché,
seguendo la cronaca,
ha scoperto un amore.

Che amore non era,
e neanche un calesse:
era solo un miraggio,
seppure palese.
Lo hanno fregato
nella sua ingenuità,
ed ora è in viaggio.

Un viaggio di fuga,
la Legge lo insegue,
chissà quando mai
quei torvi avvocati
vedranno in che guai
si vanno a cacciare.

Lui nella Legge
ha poca fiducia,
ancora di meno
nell’avvocatura.

Ha i suoi legali,
già sull’avviso,
non sono “dottori”,
di Legge non sanno,
ma legge san fare,
e battono bene,
laddove un gattino
vien pesto di gusto.

Uno fa il cuoco,
l’altro è insegnante,
l’altro è buon mastro
di muratura,
e un altro intercetta
rompendo i contatti
tra chi lo ricerca
per fargli la festa.

E’ un misero gatto,
e oltre che nero,
è pure granata,
che è come dire
“che bella giornata!”.

Chi vuol la sua pelle
per farne zerbino
è bene che sappia
che pur latitante,
(gatto vagante),
ricerca la pace,
la cerca ogn’istante.

E quando sul ponte
vedrà sventolare
bandiera bianca,
o una colomba
con foglia di fico,
che copra in silenzio
un amore cortese,
che altro non era
che una grande cassata
ed un picciol calesse,
sarà segno di fine
della sua latitanza.

.


E, comunque, abbasso giulio!



martedì 14 settembre 2010

Andando...

Andando

               dall’altro ieri lontano

Andando

              dall’ieri passato

Andando

             dall’oggi vissuto

Andando

             a cercare il domani

Andando

             verso l’eternità.

Andando!

                                                                      Angelo Roberto Campiselli (2008)

martedì 7 settembre 2010

Eterna poesia

(Avevo postato una cosina, e mi è successo come nel “Che cazzo fai!” di qualche tempo fa. Anteprima regolare, al ‘visualizza post’ mi sono trovato un testo da “ridi, pagliaccio!”: maiuscole disseminate come papaveri in un campo di grano, capoversi saltati, frasi a capocchia, parole neanche pensate, insomma tutto meno che un post. Dopo il vano tentativo di rimetterlo in ordine, ho rinunciato e l’ho eliminato. Ciononostante il titolo è passato in giudicato nei blog amici, facendomi passare per l’ennesima volta come leggermente squilibrato. Chiedo venia, anche se non è stata colpa mia).


Non so scrivere poesie.
Ma non so neanche ‘fare’ l’acqua.
A malapena ne ricordo la formula.
Nonostante ciò, quando la bevo mi ristora.
E ristora sia l’ignorante, come me, che il sapiente.
Gli umani, la fauna e la flora, di tutta la terra.
La poesia, nel mare di scienza che ci circonda, è come una goccia d’acqua.
Che ha una caratteristica unica: mentre tutte le altre scienze sono soggette a modifiche continue, ad aggiornamenti dovuti a nuove scoperte o a nuovi eventi, la poesia, come la goccia d’acqua è eterna.
I suoi messaggi erano validi nel passato, lo sono nel presente e lo saranno nel futuro.
Un esempio della sua perenne attualità lo avevo avuto, tra altre poesie, con quella di Francesco Zaffuto, che in un commento aveva riportato la poesia sul Belice del 1968, che calzava a pennello L’Aquila 2009.
Stamattina, su Italians di Severgnini ho trovato una poesia che mi ha colpito, e che vi offro, sperando di non incorrere in qualcosa di illegale.
La poesia è titolata SONETTO 66, di William Shakespeare, postata su Italians da Anna Paola Tantucci, tradotta da Pino Colizzi.
Quella di Zaffuto ha coperto, per ora, una dozzina d’anni, questa di Shakespeare ci arriva da 400 e passa anni addietro.
Forse è già abbondantemente conosciuta; io l’ho scoperta solo oggi, e per me è come se Shakespeare l’avesse scritta ieri.

                                         SONETTO 66 di William Shakespeare
             (da Italians di Beppe Severgnini, postato da Anna Paola Tantucci, traduzione di Pino Colizzi)

Stanco, alla morte domando la pace.
Vedo il merito viver mendico,
e sguazzare nel lusso l’incapace,
e rinnegare il più fedele amico,
e grandi onori ai disonesti dare,
e vergine virtù prostituita,
e artigiani perfetti diffamare,
e forza, da impotenti sminuita,
e arte dal potere silenziata,
e stupidi dettar legge all’ingegno,
e ogni verità manipolata,
e il degno servitore dell’indegno.
Ecco, è per questo che vorrei morire,
ma lascerei il mio amor solo a soffrire.

Cento anni dopo la ‘scoperta’ dell’America.
Sono cambiate un mucchio di cose da allora.
Per la poesia, per questa poesia, cosa è cambiato?

sabato 4 settembre 2010

Ancora una goccia, poi basta

(Per chi volesse soffrire di più, le gocce precedenti sono del 31 luglio e del 27 novembre).

Le prime due parti di questo raccontino le avevo animalizzate per renderle più commestibili.
Quest'ultimo lotto parla di cose serie, quindi lo umanizzo: i pollastri tornano a essere colleghi; il pollaio, ristoranti e albergo restano invariati.
Oltre l'aggiornamento della diaria e i rimborsi chilometrici, un altro punto importantissimo era la scelta del ristorante per la cena. La mensa era aperta fino a tardi, ma la sera il distacco totale dall'ambiente era obbligatorio.
Il mandato della ricerca del locale più adatto era, logicamente, affidato ai colleghi indigeni, o comunque bazzicanti in zona.
Di solito tra una riunione e l'altra passavano otto/dieci mesi, quindi avevano tutto il tempo per cercare, provare, promuovere o bocciare.
Trovare il meglio era per loro un punto d'onore.
E, di solito, ricevevano il plauso del gruppo: come colleghi di lavoro non si potevano dare giudizi, sia perché non c'erano collegamenti diretti, sia perché la cosa non ce ne poteva fregare meno; il compito di queste valutazioni spettava alla chioccia.
Al branco interessava che fossero buongustai e basta.
Durante queste cenette, essendo il gruppo formato esclusivamente da maschi, gli argomenti di accompagno al cibo e alle bevande vertevano quasi esclusivamente a questioni di interesse comune e generale.
Così si parlava di fi...dejussioni, di fi...lantropia, di fi...renze, di fi...gurine, di fi...lologia, di fi...libusta, di fi..latelia, di fi...ori, ecc. ecc.
Per una strana coincidenza, erano tutti argomenti che avevano inizio con la fi...
Come nella vita.
Ogni tanto, per non sfiancare la lingua a vuoto, ci si scambiavano aneddoti sulle rispettive zone.
Una di queste cene non aveva avuto il solito esito glorioso.
Per apprezzare il cibo, eravamo stati costretti a rivolgere un pensiero ai poveretti che vivono con una ciotola di riso, quando va bene, se non addirittura non muoiono di fame.
Quando il cibo non risulta all'altezza, l'unica è annegarlo; e il vino, per fortuna era risultato decente.
Dopo la cena, il caffé e il pussacaffé, l'ora si era fatta piccola, e ci eravamo avviati, a gruppetti sparsi, verso l'albergo, continuando le chiacchiere, divisi a macchia di leopardo.
Preciso che eravamo tutti a piedi, precursori di un comportamento che anni e anni dopo sarebbe diventato obbligatorio per legge.
Diciamo che come liquidi, senza essere proprio brilli, stavamo bene.
(Sosta momentanea: alcuni mesi prima era stata rapita una bambina, a scopo di riscatto.
All'epoca aveva fatto un giusto scalpore, era ed è un crimine odioso. Peraltro, alla luce di quello che è successo negli anni successivi, con rapimenti a scopo pedofilo, sovente con l'uccisione delle piccole vittime dopo l'oltraggio, quel rapimento può essere visto come una normale transazione commerciale o finanziaria, un più o meno normale
do ut des; sempre rispettando il dolore della famiglia in quell'occasione e le paure della piccola rapita.
L'Italia ha una superficie di oltre 300 mila kmq; questa bimba aveva tutto lo spazio che voleva per farsi rapire... altrove.
No, nella zona mia era avvenuto il sequestro...
Non ricordo il nome della bambina, e se anche lo ricordassi non ve lo direi: maghi come siete, non finireste neanche di leggere questo pezzo, per individuare il posto.
All'epoca, dicevo, aveva fatto scalpore immediato; titoli a nove colonne sui giornali, notizia in apertura nei telegiornali, appelli da tutte le parti per la sua liberazione.
Nei giorni successivi, i titoli erano scesi gradualmente, fino a ridursi a un pistolotto che segnalava il proseguire delle indagini. Gli inquirenti avevano chiesto un 'silenzio stampa', già in atto per disinteresse dei media per una notizia surclassata da altre incombenti.
Questo silenzio stampa veniva ogni tanto interrotto dagli appelli della madre, e da quelli dei legali della famiglia, che già allora cercavano visibilità, soprattutto nei mezzi televisivi.
Nel periodo del dopo cena di cui parlavo, il silenzio stampa era in atto, assordante).

Eravamo in cammino verso l'albergo.
Nel gruppo c'era un collega "a proposito".
Spiego: mettiamo che si parli di Egitto, piramidi, Il Cairo (la capitale, non il presidente di una gloriosa e infelice squadra, che comunque all'epoca aveva appena smesso di gattonare); se uno salta su e dice: "A proposito, sapete che a Torino c'è il museo egizio più fornito dopo quello del Cairo?".
L'a proposito ci sarebbe stato tutto.
Ma se, parlando sempre di piramidi, un collega salta su e dice: "A proposito, sai qualcosa di quella bambina che hanno rapito?".
Mi pare chiaro che questo a proposito ci stesse come i cazzi a colazione.
La domanda era buttata nel mucchio, ma non era necessario essere particolarmente perspicaci per intuire a chi era rivolta.
Ora, le possibili risposte ad un 'a proposito' detto a sproposito, erano due:
a) "non ne so nulla, c'è pure il silenzio stampa"; che avrebbe provocato nell'astuto una considerazione tipo: 'ma come, sei in zona, ci vivi, e non sai quello che succede?'.
Come stupidità sarebbe stata alla pari con 'a proposito';
b) "siamo a buon punto, questione di poco e sarà liberata".
Se al posto di 'siamo' mi fosse scappato 'sono' sarebbe stato meno coinvolgente, ma avrebbe suscitato lo stesso dubbio: sono/siamo era inteso di qua della legge o di là?
Qualunque persona con un po' di buon senso avrebbe scelto la prima risposta, ma, nella certezza che non avrebbe dato soddisfazione agli uditori, avevo scelto la seconda, ritenendola comunque innocua...
Comunque la risposta era stata accolta come, giustamente, meritava: una battuta.
(E' un fatto, credo, psicologico: i piccolotti hanno due modi di esprimere il loro complesso altimetrico: c'è chi mette i tacchi di rialzo, e finisce nelle vignette satiriche vita sua natural durante; c'è chi, ufficialmente, della sua altezza se ne frega, ma, inconsciamente, appena può si 'solleva' metaforicamente, magari con risposte stronze a domande ancora più stronze).Notte, tutti a nanna.
Mattina successiva: barba, abluzioni rituali, vestimenta adeguate alla riunione, e scendo a fare colazione.
L'entrata della saletta adibita all'uopo era divisa da due porte scorrevoli, con vetri opacizzati, e con sensori di apertura automatica.
Mi avvicino, la porta si apre su un pianerottolo e una breve scalinata a scendere.
I colleghi erano già tutti presenti, ma non avevo problemi, visto che per la colazione non era previsto un conclave.
Appena oltre la porta vetrata, prima uno, poi con una specie di passaparola, i colleghi guardano verso di me.
In silenzio.
Non mi sentivo l'incarnazione della Wanda Osiris, quindi mi sono bloccato, cercando, come si dice, di fare mente locale, e facendo un rapido controllo mnemonico: pantaloni, c'erano; non ho pagato la quota della cena, pagata; odio le cravatte, poteva essere al rovescio, no a posto anche quella.
A silenzio si può rispondere solo col silenzio: sostituito da un leggero scotimento della testa, destra-sinistra sinistra-destra, come quando si chiede, senza parlare "che è successo?".
Nel frattempo avevo un piede rivolto in avanti per scendere, e l'altro rivolto indietro, pronto alla fuga: da un branco ci si può aspettare di tutto.
Sembravano tranquilli, e una volta sceso al piano, mi aprono il giornale del mattino.
Titolone: "BAMBINA LIBERATA".
Uno sguardo all'occhiello e al sommario: "Bene, meno male, sono contento...".
Commenti da parte dei colleghi, pochi e molto discreti.
Riferiti alla frase della notte, vagamente insinuanti; per tutto il giorno mi sono sentito sotto osservazione.
Credo che tentassero di capire se quel "siamo", detto tra l'altro non in un perfetto stato di grazia, avesse un fondamento; e, se lo aveva, sorgeva il dilemma: di qua o di là?
Vi giuro sulla testa di Giorgio* che non sono, e non sono mai stato, né di qua né di là.
(Per non finire così tronco: se il collega "a proposito" avesse avuto un po' di fantasia, vista la situazione, avrebbe organizzato una processione, in fila indiana; il capofila, io sempre sulla scala anche per darmi un po' di altezza, mi avrebbe preso la mano, e, a seconda della tendenza politica mano destra o sinistra, avrebbe dovuto mormorare con rispetto "bacio la mano a vossìa". In risposta a questo segno di devozione, avrei pensato a un termine in codice, che manco i servizi segreti sarebbero stati in grado di interpretare, tipo "vaffanculo". Ripetuto a ogni baciamano, in segno di fratellanza assoluta tra pollastri, comunque destinati alla pentola).Fine.
Spero che la commozione non spinga qualcuno al suicidio.
Mi sentirei in colpa... con vossìa.

* Giorgio è il rospo che frequenta il mio giardino. Per i suoi colleghi e per gli animalisti, è vivo e vegeto, a conferma che il giuramento è andato a buon fine.

giovedì 2 settembre 2010

Coda in posta

Stamattina sono andato in posta per fare i versamenti dell'iscrizione di Roby a scuola guida.

Come ormai sapete non ho nulla contro la burocrazia, è un settore che dà lavoro a un sacco di persone e non conosce crisi.
Anzi ogni governo che sale al potere rende più fitta la tela, con leggi leggine codicilli ddl regolamenti di attuazione ecc., per cui ogni minima comunicazione al cittadino da parte del potere costituito, a qualunque livello, è composta da tre facciate di "visto l'art. xxx e modifiche", e alla fine di tutto uno striminzito "si può fare".
Così mi trovo con tre moduli di conto corrente, due dei quali destinati al Dipartimento Trasporti Terrestri, imposta di bollo: identici in tutto, importo e destinazione, codice di versamento; l'altro, sempre stesso destinatario, ma "diritti L. 14 - 67", 0,38 centesimi in più.
Per la coda in posta non cambierebbe nulla, ma un modulo unico che in pratica dica: vuoi la patente? Fa tot,tot euro, unico versamento, visto che quei soldini vanno nella stessa direzione.
Vabbé, così è e così sarà nei secoli dei secoli.

Il mio ufficio postale è piccolo, lo spazio destinato al pubblico sarà di una decina di metri quadri.
Quattro persone in attesa fanno già folla; una ventina e oltre fanno pensare all'affollamento delle carceri, di cui ogni tanto si parla.
Dell'affollamento negli uffici postali si accenna, velocemente, solo quando qualche vecchierello in attesa della pensione si sente male.
Pur di non farlo passare avanti nella coda, si preferisce chiamare il 118; lo portano via, e la coda avanza di un posto.
Quando "devo" andare in posta, da lontano cerco di capire la situazione.
Se fuori c'è un gruppetto, i casi sono due: sono tutti fumatori o dentro è pieno.
Stamattina, nessuno fuori, buon segno.
Infatti, aprendo la porta d'entrata, quasi ci resto in mezzo: un pulcino nell'uovo ha più spazio vitale.
Non ci sono i numerini, per cui si chiede: "Chi è l'ultimo?".
Questo ex ultimo si gira un attimo per dire "sono io", e poi continua a puntare i fari verso gli sportelli, per seguire l'andamento delle operazioni.
Per cui si è costretti a prendere bene le misure della schiena, il vestiario, qualunque indizio che non ti faccia perdere il contatto visivo con chi ti precede.
Anche perché le code, in questi piccoli uffici, non sono in verticale ma in orizzontale: se trascuri la memorizzazione di quella schiena sei fregato.
Uno stuolo di avvoltoi aspetta solo l'occasione per passare sul tuo cadavere e avanzare di un posto.
Dopo di me entra un ragazzo.
"Chi è l'ultimo?", chiede.
Tento la battuta: "Lei!", con la certezza di una semina fuori campo.
Invece la giornata mi s'illumina: sorride, facendo capire di avere raccolto l'ironia, e prende atto che l'ultimo deficente davanti a lui ero io.
I dati di schiena e nuca del mio precedente erano completati da un apparecchietto acustico, appoggiato dietro l'orecchio sinistro.
Era un elemento importante, nel caso, improbabile, avesse deciso di cambiarsi la camicia.
Tenendo d'occhio solo lui, non avevo notato l'infiltrarsi di una signora, anzianotta, al mio fianco.
Il semiudente me la fa notare, è sua moglie.
Mi spiega che, essendo venuta dopo, anziché farla aspettare in coda, lui le cede il suo posto davanti a me, e lui trasferisce la sua precedenza dietro di me.
Mi spiega questa manovra in mezzo dialetto, per cui non ne capisco molto.
Tanto da dirgli, papale papale: "Non ho capito, ma va bene lo stesso...".
Mi ha fissato, come si fissa, appunto, un deficente; non era turbato dal mio "ma va bene lo stesso", quanto dal fatto che non avessi capito.
In cambio aveva capito bene un tizio due posti dietro di me.
Che ha spiegato al semiudente che lui, lasciando il posto alla moglie, non dietro a me doveva piazzarsi, ma più indietro di tre posti.
Concludendo, anche lui, che non aveva nessuna importanza, che passassero insieme, e pace in terra...
Due sportelli operativi, più uno vacante.
Più che vacante, vagabondo.
Ogni tanto c'era l'apparizione di un'impiegata, che il tempo di vederla ed era già sparita.
Uno sportello occupato da un tizio, impegnato in firme, documenti, carta postamat, pin che non prendeva...
Una mezz'ora con lo sportello solo per lui.
Per dire, i "tagliatori di teste", tipo Gelmini e Marchionne, in mezz'ora taglierebbero una foresta dell'Amazzonia.
Ogni tanto qualche fiammata: c'ero prima io, no guardi io ero dietro a quel signore, ma tanto faccio subito (i 'tanto faccio subito', sono i più pericolosi, non si schiodano dallo sportello manco a prenderli a calci).
La signora moglie è passata avanti, per sentirsi dire allo sportello che per la sua pensione si dovrà presentare fra tre giorni.
Il semiudente è passato subito di lei.
Così, in allegria, è passata la mattinata.