giovedì 27 gennaio 2011

Ricordare

Ho 'rubato' la vignetta di Giannelli
sul Corriere della Sera di oggi,
GIORNO DELLA MEMORIA:
le parole, talvolta, si perdono
nel vissuto quotidiano,
una vignetta secca
si imprime meglio nella mente,
per ricordare,
per non dimenticare.

martedì 18 gennaio 2011

domenica 16 gennaio 2011

"L'ubriaco", di Leonardo Maltoni




L'imbarìgh

Da quand ch’ho vèst che i’an i ciàpa via,
che mor i dè senza un po’ ’d rimissiòn,
ho mes da un chént la mi reputaziòn
e am so zarchè e mi post in ‘t l’ustarìa.

D’in sdài in ‘t’la scaràna ad lègn e ‘d paja,
la nòta la’s strabìga pièn pianìn,
un zìgar, un sbadài, un pér ‘d quartìn,
do ciàcri, e ac-sé… a m’ingòz fin a la scaja.

E cun la testa pèrsa in ‘t un élt mond
cun la chitàra a bagàt una canzòn
par zarché and chilzè via che magòn,
ch’l’ha ardòt la mi vita a un mér ad piomb.

L’ingarbòj ad tot i dè, d’incùa e ad ììr
par un pér d’ori ài las in ‘t’un cantòn
e vers e zìl a soffi un’uraziòn
ch’im lassa sté pr’un po’ i mi pansìr.

Pu a m’imbarìgh pien pien, cun discreziòn,
a stagh so e a m’invèj longh a la stréda,
a trabàl cùme un scàf a l’ingulfèda
fin che a mardùs in péta a e mi purtòn…

… E a lè a m’afèrum, e quési cun rispét
a guérd cun i guzlùn in ti oc cla stéla
che a guardèva, agrapé a cla burdèla
che un dè la m’ha vlù ben. E am vagh a lét.

Leonardo Maltoni – 1979
in 'Gamël 'd guàzza'
©️ 1984 R. Battaglini - Parma


L’ubriaco

Da quando ho visto che gli anni scappano,
che muoiono i giorni senza pietà,
ho messo da parte la mia reputazione
e mi sono cercato un posto all’osteria.

Seduto su un sedia di legno e di paglia,
la notte si trascina pian pianino,
un sigaro, uno sbadiglio, un paio di quartini,
due chiacchiere, e così bevo fino alla sbornia.

E con la testa perduta in un altro mondo
con la chitarra rovino una canzone
per cercare di calciare via quel magone,
che ha ridotto la mia vita a un mare di piombo.

Le delusioni della vita, di oggi e di ieri
per un paio d’ore le lascio in un angolo
e verso il cielo soffio una preghiera
affinché per un po’ i miei pensieri mi lascino in pace.

Poi mi ubriaco pian piano, con discrezione,
mi alzo e mi avvio lungo la strada,
vacillo come una barca nella tempesta
finché mi trascino di fronte al mio portone…

… E lì mi fermo, e quasi con rispetto
guardo con le lacrime agli occhi quella stella
che guardavo, abbracciato a quella ragazza
che un giorno mi ha voluto bene. E vado a letto.


martedì 4 gennaio 2011

Fiori e opere di bene

Quella mattina non ero stato in negozio.

Sarò stato al lavoro, quello mio ufficiale, oppure in giro per chiacchere, dal giornalaio o dal barbitonsore.

Al rientro, verso l’ora di pranzo, col negozio in fase di chiusura, la moglie mi aveva accennato i movimenti in uscita della mattinata.

Tra le varie piccole vendite, mi raccontava della cessione di un ficus benjamin, una pianta bellissima che da un po’ di tempo riempiva tutto un lato della vetrina verso la piazza.

L’aveva venduta a un signore (‘un bel ragazzo’; che era già un ottimo motivo per averlo da subito in uggia. Lei i confronti sui bei ragazzi li faceva, forse, su di me, quindi andava sempre sul velluto: come confrontare un meraviglioso gatto, magari nero, con un rospo; e il rospo, nei confronti, potevo essere solo io), che però, al momento di pagare, si era accorto di non avere soldi a sufficienza.

Oltre che bello, il giovanotto doveva avere anche un cervello sopraffino, poiché, in un lampo di genio, aveva subito trovato la soluzione al problema.

Come detto in altri episodi, adiacente il nostro negozio, c’era un tabaccaio che, oltre a rifornirmi del veleno per i polmoni, era anche un amico e, alla bisogna, era pronto ad aiutare nella lavorazione o il trasporto dei prodotti del negozio stesso.

Ricambiato, soprattutto il mercoledì, che era il giorno di prelievo dal deposito degli scatoloni di sigarette.

Il ‘bel ragazzo’ era andato in tabaccheria, aveva comprato una cambiale in bianco e l’aveva regolarmente bollata; tornato da noi l’aveva compilata per l’importo richiesto per quella pianta, con i suoi dati, firma e data di scadenza per la messa all’incasso… dopo una quindicina di giorni.

(Qui è d’obbligo un inciso: io sono contrarissimo alla pena di morte, per qualsiasi motivo e in qualsiasi modo essa venga applicata; tra questi modi trovo che il più odioso e aberrante sia la lapidazione, anche perché, guarda caso, il più delle volte vittime sono donne. Però come tutte le più ferme convinzioni, anche questa ha perlomeno un’eccezione: ad esempio, una commerciante che si fa abbindolare da un ‘bel ragazzo’ commette un reato di macroingenuità; e questo è un reato da lapidazione. Magari con palline di argilla espansa o di polistirolo, ovvero, per essere più drastici e incisivi, con palline da ping-pong , ma quando ci vuole ci vuole. Fine dell’inciso).

Già a sentire la voce ‘cambiale’ avevo iniziato il suo smembramento verbale; vista la scadenza, l’avevo fatta a pezzi; visto l’indirizzo di destinazione, l’avevo infilata direttamente nel tritacarne, che mi avrebbe dato polpette almeno fino alla fine dell’anno.

Avrei dovuto portare la pianta nella parte vecchia della città, tutta vicoli e senza possibilità di parcheggio. E non è che una ‘farfalla’ fosse in grado di farmi superare i sicuri ostacoli che avrei trovato…

Cessati i tuoni e i fulmini, la seconda immediata reazione era stata: ‘non la porto’; quando l’individuo fosse venuto a reclamare gli avrei raccontato, per esempio, che non avevo trovato il destinatario, e che se nel frattempo avesse portato i contanti avrei provato a cercare meglio.

La moglie, nel frattempo ormai tritata, era stata abbacinata dal ‘bel ragazzo’; io ero stato colpito dalla calligrafia del documento: una scrittura veramente bella, nitida senza apparire infantile.

L’indirizzo sulla busta destinava il dono ‘X cognome Adele’, abitante, come detto, nella parte vecchia della città; il bigliettino di accompagno diceva ‘Perdonami Claudio’; il tutto nella stessa bella calligrafia della cambiale.

Mi ero detto (tra me e me, senza dirlo alla moglie, che ne avrebbe tratto motivo per chiedere di essere perdonata) che un tipo che scriveva così bene non poteva essere un fregatore, e magari avrebbe fatto onore al suo ‘pagherò’, smentendo le mie nere previsioni.

Anche se il pensiero che questo tizio riconquistasse la ragazza con l’invio di una pianta e soprattutto con la firma di una cambiale, mi lasciava ampiamente perplesso.

E comunque, fossi stato in negozio, lo avrei indirizzato a qualcosa di fiorito; che so, un bel ramo di cympidium ben confezionato, che oltre alla bella figura gli avrebbe consentito di pagare in contanti con quello che aveva in tasca.

Accantonati i dubbi, all’indomani: preparazione della pianta, una lucidatina a tutte le foglie, eliminazione di qualche piccolo ingiallimento, coprivaso, nastro d’ornamento, pinzatura del biglietto da allegare al dono, cellophane, e partenza.

Come già mi era noto, avevo dovuto lasciare la macchina in un parcheggio fuori dalla zona, e mi ero incamminato verso la via indicata dal bell’amanuense, con la pianta, alta circa un metro e mezzo, ma ingombrante, fra le braccia.

Tenendola dal vaso, dovevo continuamente spostarla da una parte all’altra per evitare scontri con i passanti e con i pali della segnaletica.

Era un palazzone vecchio, che mai sarebbe diventato antico, poiché dava l’impressione di un crollo imminente.

L’entrata era costituita da un grande arco, senza cancello, che introduceva in un cortile, da cui dipartivano quattro scalcinati scaloni.

Entrando nel cortile, per non smentire il mio animo floreale, avevo pensato che, comunque, la pianta non avrebbe avuto vita lunga: era chiuso dagli alti muri del caseggiato, e quel cortile sembrava sapere dell’esistenza del sole o per sentito dire o per una sbirciata alle riviste che spuntavano da una specie di cassonetto per i rifiuti.

Niente citofoni, niente buche per le lettere, non un’anima in giro a cui chiedere informazioni.

Da un piccolo terrazzino al secondo piano si era affacciata una signora in camicia da notte, per stendere qualcosa, e le avevo chiesto notizie della destinataria della pianta.

Mi pare di ricordare che avesse la sigaretta tra le labbra, e aveva pure l’aria già scocciata in pieno mattino; si era limitata a indicarmi lo scalone di destra e con quattro dita di una mano a indicarmi il piano.

Nel prosieguo del mio lavoro, avevo messo insieme le chiavi per tutti i tipi di ascensore; e una buona quantità di monete da dieci lire per i condomìni taccagni che avevano piazzato la macchinetta mangiasoldi per salire e per scendere.

Niente ascensore, ovviamente.

Alla fine dell’arrampicata, un pianerottolo con tre porte di altrettanti alloggi.

Avrei giurato che non ci fossero i nomi neanche qui, ma mi sbagliavo, e c’era pure un campanello funzionante.

Plin-plon plin-plon…

Silenzio assoluto.

Plin-plon plin-plon plin-plon plin-plon, più per delusione rabbiosa che per convinzione di avere risposta.

Avevo però ottenuto l’attenzione di una vicina, che silenziosamente aveva socchiuso la porta, fermata dalla catenella di sicurezza.

Nonostante fossimo, la pianta ed io, chiaramente impalati davanti alla porta fronte la sua, mi aveva chiesto chi cercassi.

“Ah, la Lina, non c’è, è in ospedale, poverina…”.

Il ‘poverina’ escludeva che potesse trattarsi di un’infermiera o di una portantina; poverina poteva essere solo una persona in stato di ricovero.

“Guardi, io devo solo lasciare questa pianta, non c’è niente da pagare…”.

“E’ proprio bella… chi la manda?”.

(E’ d’uopo precisare che la privacy di allora aveva maglie molto larghe, per cui sapere e comunicare chi fosse il mittente non era ancora considerato reato).

“Un certo Claudio…”.

“Ah, sì, è il figlio; un birichino, è anche colpa sua se la Lina va e viene dall’ospedale; ogni tanto vengono anche i carabinieri a cercarlo qui, ma lui non abita più con la madre…”.

D’immediato mi era passato per la mente un insulto, che avevo subito rimosso poiché offensivo per questa madre (che appariva come una santa donna) e assolutamente indifferente per questo Claudio, cui l’essere figlio di … non poteva purtroppo essere imputato.

La gentile vecchietta aveva detto ‘birichino’: evidentemente il suo vocabolario non le consentiva termini come mascalzone farabutto delinquente, ma almeno ‘briccone’ poteva farselo scappare, non mi sarei scandalizzato.

E, visto che il ‘birichino’ mi aveva probabilmente fatto fesso, quella specie di vezzeggiativo mi era sembrato proprio fuori luogo.

La signora mi aveva rassicurato in merito alla pianta, l’avrebbe curata lei fino al ritorno della Lina, di lasciarla, ché tanto lì nessuno andava a rubare.

Su quest’ultimo punto non avevo il minimo dubbio.

Non so se capita ad altri, a me succede: in un decimo di secondo di pensare ’mi ha fregato’e ‘me la riporto’, cui si era sovrapposto un più articolato ‘ma un briccone che manda una pianta alla mamma malata forse è davvero soltanto un birichino’.

Insomma, la pianta era rimasta lì, nonostante vedessi la ‘farfalla’ allontanarsi, spernacchiante.

Al rientro ho finito il massacro della moglie, pur accarezzando la vaga possibilità che il ‘pagherò’ mantenesse la sua promessa.

Alla scadenza, deposito in banca della gentil farfalletta, e dopo una decina di giorni rientro, con aggravio delle spese di mancato incasso.

Conclusione: ci avevamo rimesso un incasso ma non eravamo andati in rovina per questo; la moglie, ancora oggi, come sente la parola ‘cambiale’ sbianca e chiede pietà.

Rimane la speranza che quel ‘biricone’ abbia messo la testa a posto, e sia rimasto soltanto un allegro birichino.