venerdì 28 dicembre 2012

Uno, dieci, centomila...

Buona l'ultima cifra.
Ci sono notizie che sono insulto non solo alla miseria, quella vera, ma all'umanità intera.
Credo che a questo punto sia superflua la spiegazione di questo post, ma infierire mi riempie di gioia goduriosa.
Il signor silviO berlusconI verserà alla signora veronicA lariO

100.000 euro
 al giorno

ossia

3.000.000 di euro
al mese

sotto la voce di alimenti, e a consolazione al dolore a lei arrecato per la separazione ottenuta, importi limitati per la presa d'atto che silviO venne circuito (provocato come dice un santo reverendo), da procaci donzelle di facili (peraltro pochi) costumi.
Passo la notizia per come l'ho trovata e vado a cercare una lanterna per cercare, con il mio coetaneo Diogene, non l'uomo ma sua sorella, madama la vergogna.

(Le maiuscole finali non sono un errore di battitura, bensì l'indicazione di uno scrittore che oggi va per la maggiore, che suggerisce questo sistema per indicare il disprezzo, nello specifico alle due parti in causa)

lunedì 24 dicembre 2012

Auguri felini


AUGURI...

... quelli tradizionali che, 
passata la festa gabbatu lu santu, 
    se ne parlerà l'anno venturo

... a chi è in sofferenza nel fisico, 
con la speranza che 
almeno in questi giorni
    il dolore si attenui

... a quelli che sperano in un'occupazione, 
che dia dignità al loro vivere 
    e consenta di guardare al futuro 
con minore preoccupazione

... a coloro che, licenziati esodati cassintegrati, 
guardano al nuovo anno
 portando sulle spalle lo zaino 
  disperato di quello vecchio

... a tutti gli amici ed amiche
che in tutti i loro blog fanno 
pensare sorridere commuovere,
tanto da essere ormai
una famiglia virtualmente allargata

... a tutti i politici, a tutti i livelli,
auguro (censurato), ed auguro pure
(censurato), e visto che gli auguri
non bastano mai, più ce n'é meglio è, 
aggiungo anche (censurato),
nella (falsa?) convinzione che, 
se questi auguri non sono
quelli soliti tradizionali
buona parte del "merito" sia loro.

  
           

giovedì 13 dicembre 2012

Non è come sembra...

Tornando in blog, visti i commenti, temo ci sia stato quello che si dice un qui-quo-qua, di cui chiedo perdono, e vado a rimediare.
Per non dare in prima persona una notizia spiacevole, come troppe ne avevo date, avevo demandato al pc il compito di avvisare che LUI sarebbe andato in clinica, che aveva avuto un paio di giorni di prognosi salvo complicanze, che lui stesso era il rudere di cui parlava, necessitante di revisione, visto che ad ogni accensione ansimava come un treno a vapore; peraltro senza ancora fumare. I postumi della botta erano quelli del fulmine che lo aveva steso qualche tempo fa.
Mai fidarsi del tutto degli aggeggi robotizzati, ha dato l'impressione che il rudere malandato da revisionare fossi io in prima persona.
Per cui, indegnamente, ho ricevuto auguri di pronta ripresa che non meritavo.
Di cui ringrazio comunque.
Come salute sto bene, solo un po' spellato a furia di grattarmi dopo ogni commento beneaugurante.
Come dire, parafrasando al'inverso una frase famosa, la carne è forte, lo spirito un po' meno.
Per farmi perdonare, ho trovato questa poesia, che mi ha particolarmente colpito, e che vi offro col solito calore e tanta simpatia.

DOPO

Dopo l'ansa del fiume
vi sarà un altro fiume.
Sassi tondi,
spruzzi d'acqua cristallina.
Altro verde.
Ma io non lo vedo.

Dopo l'orizzonte del mare
vi sarà altro mare.
Onde lunghe,
passi di vento impetuoso.
Altre terre.
Ma io non le vedo.

Dopo la cima del monte
vi saranno altri monti.
Prati verdi,
letti intrecciati di fili d'erba.
Altre balze.
Ma io non le vedo. 

Dopo la brevità della mia vita
vi saranno altre vite.
Domani infiniti,
riccioli biondi di bimbi.
Altri futuri.
Ma io non li vedrò.

Dietro di me
è il breve, lungo,
istante del passato,
e galoppa già il domani,
e nel fugace attimo
che lo imprimo nel pensiero
d'un balzo, felino,
feroce, spietato,
è già passato.
Ma io l'ho veduto?

di Angelo Roberto Campiselli  (19 ottobre 1966)
da "Con antico stupore" editato da R. Battaglini



martedì 11 dicembre 2012

Umberto

Un nome a caso: Umberto

Un nome pescato nel calderone dei ricordi, per dare un titolo a questo racconto.

Se vado a cercare gli Umberto conosciuti ne trovo una sfilza, perloppiù gente importante: un re (minuscolo, per come è passato alla storia), un oncologo, un poeta, uno scrittore, un politico (Terracini, per esempio), un cantante, un attore… e via andare, su questi livelli.
La fantasia mi consente di sentire, come uno stormir di fronde, sulla destra, lontana, una voce stentoreamente gentile, che mette i puntini sulle “i”, anche se in quell'Umberto queste non sono presenti:
“Uhe, bauscia, de Umbert ghe n’è dumà v’un,  tuc i-alter sun nisciun. Pirla!”.

Da un qualcosa sulla sinistra, che non si capisce se sia una quercia, un ulivo o un tappeto di papaveri, quasi a far da contrappeso, un delicato ammonimento, una specie di cartellino giallo:
“Se in questo post ti azzardi a parlare di quell’Umberto mi fermo qui, ritiro gli ambasciatori e ti faccio arrosto. Ho smesso di mangiare i bambini, ma un gatto con patatine al forno non è scritto da nessuna parte che non me lo posso fare. Gatto avvisato…”.

No, non voglio parlare di quell’Umbertochetuttiglialtrisonnessuno. Che, tra l'altro, all'epoca del racconto aveva ancora i calzoni alla zuava ed era studente modello... dicono le biografie.
E non vado a parlare del più noto "Umberto D" di De Sica.
Il mio Umberto è quella che per antonomasia si dice 'una persona comune'.
Un po’ fuori dal comune, a dire il vero; per questo lo voglio qui raccontare in modo più specifico, dopo averne accennato in un vecchissimo post.
Vado ai tempi del periodo lavorativo, con colleghi che erano tutti macchiette, che la lunga frequentazione ha stampigliato indelebili nella memoria.
Con una precisazione, forse ignorata da ciascuno nella propria singolarità, che vede macchiette tutti gli altri e quasi mai se stesso: eravamo tutti macchiette.
Sarebbe bello sapere, per esempio, che ricordi hanno gli ex colleghi, di quel capo reparto che a suo tempo sovente faceva loro girare le palline e li fustigava spesso sulla schiena con un righello metallico largo cinque centimetri per quaranta di lunghezza (ma battendo solo di piatto). Senza mai ricevere denunce o proteste, neanche da parte dei sindacalisti, pur essendo questi solitamente rompiglioni. Una leggera punta di sadismo che bene si sposava con un diffuso masochismo, forse accentuato da un vago senso di colpa, visto che per buona parte erano dei lavativi.
Simpatici come singole persone, lavativucci assai sul verbo lavorare.
(Bei tempi; passati; remoti).
L’Umberto mio era…

(Inciso: vado a raccontare con l’indicativo passato prossimo non perché questo Umberto sia scomparso; in realtà non so se lo sia o meno, ma proprio per non defungerlo con un passato remoto, pur se questo in realtà, come detto, remoto è. “Ei fu…” è già stato immortalato, e si riferiva, appunto, a un personaggio noto appena defunto; non voglio rischiare di dare il mio Umberto per morto, quando magari è più vivo e vegeto di me).

Dicevo, questo Umberto era nato in una città che, per la legge sulla privacy, evito di citare; vuoi mai che mi scappi qualcosa ritenuto negativo per l’immagine di quel comprensorio, e mi vengano chiesti miliardi di euro di risarcimento all’ipotetico danno morale arrecato.
Però posso dire, senza tema di offendere chicchessia, che il suo logo preferito è condensato in tre parole:
“Turùn, Turàs, Tetàs”
che mi pare sia già un indizio che dice tutto, senza colpo ferire.

Vado a descrivere brevemente il soggetto, sia per la parte fisica che per quella comportamentale, più o meno collegate l’una all'altra.
Una delle sue caratteristiche era il fatto di essere un leghista ante litteram, quando le uniche leghe conosciute allora riguardavano soltanto gli sponsali tra metalli, tipo il piombo con l'antimonio.
Citando la sua città, per descrivere come fosse ormai invasa da elementi estranei, la loggava come
“Terùn, Turàs, Tetàs”
quando i negher, i mandarini, gli albanesi, i marocchini, erano ancora lontani a venire.

Quando era di cattivo umore, ovvero quando qualcuno del capoluogo della sua regione lo ‘urtava’, anche questo qualcuno era dumà ‘n terùn, magari centrando il bersaglio, visto che il peso demografico anche in quella città pendeva da tempo a favore degli “stranei”.
In merito amava raccontare di una battaglia nella sua città, relativa all’aggregazione di una quarta T alle tre esistenti. La scelta pare fosse orientata verso un personaggio che dava lustro alla città, senza bisogno di chiedere poltrone in cambio.
Pur essendo ancora in vita, il candidato indigeno più indicato era Tognazzi. Ugo Tognazzi.
Ma il peso degli “stranieri” era stato tale che il progetto era stato accantonato, per evitare lo scorrere del sangue per le vie cittadine.
Infatti, motivando le proposte con la necessità di sprovincializzare, i-alter  avevano messo in campo le candidature chi di Totò, altri ancora di Trilussa.
Secondo l'Umberto mio, el Tugnass sarebbe andato benissimo, ma sarebbe stato la quinta T, dopo quella dei Terun, aggiuntiva anziché sostitutiva ai Turun.
Questa quarta T, ormai invadente come e più dell’erba gramigna, sarebbe stata da eliminare; nel migliore dei casi da allontanare, possibilmente con le buone.
Sembrava una boutade, allora...

Il fisico, guarda le combinazioni della vita, sosteneva adeguatamente questa sua missione di protoleghista.
Era alto un metro e un cazzo (come direbbe l'Alighieri) di calibro medio, anche se l’altezza di una persona è sempre una forma di calcolo relativamente soggettiva.
Per dire, se confrontata con quella di un  baskettista, (circa due metri, senza tacchi) preso a caso da un elenco telefonico, la sua era abbondantemente inferiore.
Se confrontata con quella di un noto politico di destra, preso a caso dal solito elenco telefonico (un metro e un cazzo, ma di calibro minuto, forse con i tacchi), sarebbe risultato alto come un corazziere (memento Rascel nel film omonimo).
Più che rotondetto, lo ricordo quadrato.
Come un comodino.
Capelli crespi di un riccioluto cortissimo, fittissimi, nerissimi, tanto che i negher arrivati successivamente lo avrebbero preso come modello ideale per le loro acconciature.
Tra le sue varie caratteristiche spiccava quella della discrezione.
Ogni giorno (che ci fosse il sole, la neve, la pioggia, la nebbia, un tempo così-così…) aveva un problema nuovo da esporre, un’esperienza da raccontare, un consiglio da richiedere, un’indicazione da valutare.
E tutto questo lo dedicava a una persona soltanto.
Per volta.
Tanti eravamo presenti, e, uno alla volta, venivamo a conoscenza del suo dilemma quotidiano.
Data la sua discrezione, alla fine di ogni “confessione” singola, la raccomandazione costante a ciascuno era:“Me racumandi, al dis a lu, che è persona per bene, ma non ne parli ad altri, non credo che capirebbero...”.
Per  raggiungere le ‘vittime’ delle sue confidenze aveva una tattica particolare. Aspettava che un collega, qualunque, fosse prossimo alla macchinetta del caffè, o all’uscita dallo spogliatoio, o dal bagno, che fosse intento a valutazioni private, purché solitarie, dei propri problemi: mollava tutto e si lanciava in fretta e furia a braccarlo.
Iniziava l’esposizione del suo guaio contingente e non lasciava andar via il malcapitato se questi non aveva sorbito fino all’ultima goccia di contenuto del suo calice. 
Solitamente amaro.
Se si avvicinava un terzo, interrompeva il monologo e si allontanava, promettendone la ripresa a quanto prima possibile.

A me aveva riservato un rapporto privilegiato: ero di solito tra i primi a cui si confidava, nonostante questo rapporto fosse stato, dal primo momento, una sottilmente formale presa per i fondelli.
Forse reciproca.
Intanto, su una trentina di colleghi di contatto quotidiano, era l’unico con cui dall’inizio alla fine della colleganza lavorativa il “lei” era rimasto invariato. E pure la chiamata col cognome...
Reciproci pure questi.
Inoltre, come introduzione all'esposizione dei suoi problemi, se a questi era previsto seguisse un consiglio o un parere da elargire, la sua frase di approccio era sistematica:
“Senta, mi è capitato questo e questo; secondo il suo modesto parere…”, ecc.
La prima volta che avevo sentito del peso dato a priori a un mio eventuale (peraltro giustamente modesto) consiglio, avevo accettato che fosse, come detto prima, una birichina presa per il sedere, scherzosa, e avevo ignorato, senza reagire.
La seconda volta (o forse anche la terza o quarta) che la ‘modestia’ dei miei pareri era ormai consolidata, incassavo questo suo incipit, adeguando le risposte.
Se il consiglio richiesto dava la possibilità di scelta tra una ipotetica linea A e una linea B, in netto contrasto tra loro, gli offrivo quella che (sempre a mio modesto parere) era la più negativa, la meno probabile, la assolutamente impossibile andasse a buon fine.
Credendo ogni volta di avere così risolto perlomeno il problema della rottura di marroni; avendolo indirizzato malamente alla soluzione del suo, di problema, con il logico tracollo della fiducia nei miei ‘modesti’ pareri.
Troppo semplice.
Si dice: il vino buono sta nelle botti piccole.
Anche la malignità, se è per quello. Ve lo dice uno che in merito la sa lunga, per esperienza diretta... 
E Umberto di quella straboccava.
Regolarmente, tempo dopo, veniva a raccontarmi di avere risolto il problema allora esposto, proprio seguendo il mio (sempre modesto) parere elargitogli.
Avevo l’impressione che fosse un adepto del sub-flippismo(*) più raffinato.
E mi sentivo ogni volta, e sempre più, preso per i fondelli, ed era un'impressione che ormai saliva fino quasi a punzecchiarmi le tonsille.
Un episodio, da lui raccontato a tutti nel solito modo discreto, mi è rimasto impresso e, in verità, inizialmente era stato un ulteriore, leggero, colpo alla già scarsa immagine che mi ero fatta del suo quoziente di intelligenza.

Una sera, molto sul tardi, dopo avere portato un botolo suo simile a fare i bisognini corporei in un prato adiacente la ferrovia, rientrava verso casa con l'obbrobrio di cane al guinzaglio.
Era una sera nebbiosissima, che i lampioni a lato della strada rendevano spettrale.
Nel suo incedere prudente e solitario (a parte il cagnetto), in un rettilineo aveva percepito, ovattato dalla nebbia, uno strano cigolio; avanzando ancora, aveva notato, tra le auto parcheggiate in fila indiana una appresso l'altra, che una di queste aveva sobbalzi anomali, tipo quando si tenta di avviare una vettura con la marcia inserita.
Con movimenti sussultori, con alternanze ondulatorie. 
Da pensare più a un mini terremoto che ad altro…
Curioso più d’un gatto, non si era allarmato, anzi si era avvicinato, scostando la nebbia come fosse la tenda di una finestra.
Accostandosi, aveva intuito che quella vettura nascondeva un’alcova.
“Ostia, chi ciùlen!”, aveva esclamato tra sé e sé, continuando con falsa indifferenza il suo cammino.

(Inciso: Ostia, lo sanno tutti, è Roma Marittima, da tempi antichissimi, non è cosa nuova. Come non è nuova la pratica cui lui aveva pensato e poi apertamente citato; pare sia antichissima pure quella, tanto da non richiedere traduzione: si riferisce chiaramente ad un’attività che tutte le casalinghe, ma anche le suore, conoscono bene e che, di solito, salvo strani malesseri occasionali, svolgono con ardore e amore [quest'ultimo non indispensabile]. Ed è una di quelle poche mansioni cui partecipano volentieri i partner, ma anche i frati, senza brontolare).

Lui e il suo botolo avrebbero forse proseguito, magari fischiettando (lui) per evidenziare la sua indifferenza al probabile spettacolo hard, ma lo spostamento improvviso della nebbia gli aveva fatto prendere un colpo.
Quella macchina era la sua, e i cigolii e gli squassamenti erano provocati da qualcuno che al suo interno faceva goga-mi-goga.
Quasi incredulo per la profanazione della sua vettura, si era accostato quel tanto sufficiente a sbirciare all’interno, per vedere…
Quello che nessun padre vorrebbe mai vedere.
Sua figlia che, forse per ripararsi dal freddo, si era coperta con un tizio, presumibilmente un uomo, a lui, Umberto, sconosciuto. Aveva specificato che visto dal 'cu' (con la u francese) , il vero sesso della copertura non era visibile; intuibile sì.

Qui torno a quello che prima ho definito un colpo all’immagine che mi ero fatta del suo quoziente intellettivo: aveva proseguito, con l’indifferenza messa a dura prova dal cuore che batteva a mille.
Per come lo conoscevo, avrei giurato che si sarebbe fermato, facendo un macello, perlomeno verbale.
Invece no; e, così facendo aveva leggermente ritoccato la mia valutazione del suo QI.
In meglio, sì, ma questa era talmente bassa che anche col ritocco restava ampiamente sotto la linea di pareggio.
Peraltro raccontando l’episodio all’urbe, all’orbe e ai sordi tutti, era prontamente rientrato nei parametri già noti.
Forse aveva richiesto esplicitamente un 'modesto' consiglio in merito a quanto avvenuto; se lo ha fatto, sicuramente avrà domandato se non fosse il caso di cambiare macchina (A), visto il cigolio lamentoso che questa esprimeva, oppure portarla semplicemente a grafitare (B).
Avevo consigliato la A, pensando gli potesse portare disagio usarla dopo la profanazione.
Sub-flippiscaniamente l'aveva forse fatta grafitare, e la teneva, a pensarci bene, come una reliquia, come il fuori onda che segue spiega con dovizia di particolari.
Peccato che all'epoca non fossi ancora sufficientemente maligno, altrimenti in vece della grafite avrei suggerito l'uso della vaselina, che allora andava alla grande; per lubrificare gli stantuffi delle sospensioni, senza macchiare più di tanto i tessuti limitrofi, era la trovata del secolo.
   
Fuori onda.
Dopo un post che trasuda buonismo dalla prima all’ultima virgola, il lettore avrà, forse, la curiosità di sapere il finale dell'episodio. 
In verità non lo so, ma la simpatia verso il soggetto mi fa ipotizzare una (piccola) cattiveria.
Rientrando in casa, il buon Umberto, calciato il botolo sotto il tavolo, calmata l’aritmia per lo choc appena subìto, avrà convocato la moglie che, incidentalmente, era una sua copia clonata, e le avrà comunicato quanto scoperto in quella terribile serata nebbiosa:
“Ohi, mijé, t’el set, la tusa el ciula com tuc i-alter donn!”.
Una notizia che per qualunque mamma (pur sapendo che quello è un sentiero da percorrere per quasi tutte le figlie, anche se fattesi suore) sarebbe stato motivo di collassi, pianti, crisi isteriche e stridore di denti, alla moglie era apparsa come la liberazione da un incubo.
La figlia, in effetti, era un incrocio multiplo tra la Mariangela di Fantozzi, il padre, la madre e il botolo.
E visto che, con tutta la buona volontà, quattro comodini non fanno un armadio, il sospiro di sollievo della mamma nel sapere che anche questo suo mobiletto, legno del suo legno, aveva imparato a fare le pulizie di casa era più che giustificato.
Si vedeva all’orizzonte la possibilità che andasse a ripararsi dal freddo lontano dalla loro abitazione; un’ipotesi mai presa in seria considerazione, prima di questo evento straordinario. La coperta aveva un'importanza relativa; mi piace pensare che si trattasse di qualcuno facente parte della quarta T del logo cittadino.
Credo che sant'Omobono (nomen omen), patrono della TurùnTuràsTetàsTerùnTugnass, avrà ricevuto fiori e opere di bene come mai da nessun altro.

sabato 8 dicembre 2012

Bannato

Sembrano margherite, ma sono crisantemi
In questa notte buia e tempestosa sono stato bannato.
O almeno credo.
Se qualcuno che legge è esperto in bannamenti, baggianaggini, bannubilamenti, annessi, connessi, dismessi, mi faccia sapere se di bannamento si tratta o se è solo un frutto della mia fervida, perfida, mefistofelica, fantasia. Grazie.
Vado a descrivere l'evento.
In settimana, o settimana scorsa non importa, in un blog che seguo puntualmente, era apparso un post che (vado a memoria, visto che quel blog è scomparso dal mio blogroll) presentava un'immagine con due personaggi noti, anzi notissimi, dirò di più, ai posti massimi di questo nostro povero Paese.
L'illustrazione li presentava solo di viso, abbruttiti e butterati, con una specie di ghigno che già da solo appariva come una una presa per il culo.
Quel post, nel titolo (sempre a memoria), come a supporto di quella immagine, chiedeva:
"Vi piacerebbe invecchiare come questi due?".
Leggermente provocatoria, direi.
Sensibile a tutto ciò che riguarda la vecchiaia, essendone parte in causa diretta, l'ho ritenuta un invito equivalente al lombrico infilato in un amo.
E, sventurato me, ho abboccato.
In un Paese in cui ormai anziani non si diventa più, ma neanche adulti, ma neanche bambini, poiché tutti i passaggi della vita, di riffa o di raffa, vengono tranciati al fiorire di ogni passaggio, mi sono permesso, sicuramente primo in Italia, di commentare, in francese per aggirare la censura, con "vaffanculo a tutti e due".
Ritenendolo uno scherzo all'estensore del post, mi sono permesso di aggiungere (questo lo ricordo bene) "e affanculo a te che con questo post mi prendi per il culo", sempre pensando all'inizio di questo capoverso.
Poco dopo, come risposta, asciutta e sintetica, "fatti tuoi, il culo è tuo".
Chiuso il periodo.
Girando a ritroso, qualche giorno dopo, ero andato a vedere eventuali ulteriori commenti, con la speranza magari che qualcun altro si fosse unito al mio invito, non al bloggaiolo ma ai due in figura, e avevo trovato "Nessun commento" al post.
Felinamente curioso, ho chiesto al titolare il perché della censura, specificando che il 'vaffa' ai due figuri non pensavo di essere l'unico ad averglieli mandati, e che quello a lui indirizzato lo era in modo, diciamo, affettuoso, con tutti i limiti che tale aggettivo impone.
(Un po' come se uno, già anzianotto ma anche prima, alla 'prima' della serata rispondesse alla richiesta del bis con un "vaffa" e il bacio della buonanotte alla signora o a chi per lei. Potrebbe capitare).
Risposta, sempre a memoria: "Io evito nel mio blog espressioni del genere e (sottinteso) non le accetto neanche nei commenti, pur affettuose che siano. Detto questo, tutto come prima. Ciao".
Riconoscendo le sue ragioni, peraltro giustissime, avevo pensato di mettere un commento con la sinteticità che mi è congeniale, riconosciuta e, oserei dire, osannata da chiunque abbia il coraggio e la pazienza di seguirmi.
L'avevo elucubrata così:
Limpido.
Eviterò.
Scusa.
Ciao ter.
Ter, visto che era il terzo ciao lanciato in quel post.
Ho cercato il post nel blogroll (per inserire il messaggio che ritenevo chiaramente escusatorio), visto che non so dove diavolo cercarlo altrove, e mi sono trovato con il blog in toto sparito, cancellato, erasato, cartavetrato, assunto forse in cielo...
Ecco, mi dispiace, sinceramente mi dispiace.
So che ne rimarrò complessato e prometto che non manderò più affanculo nessuno, neanche se me lo chiede l'interessato in prima persona.
Almeno per quello che resta di questa notte e sperando di riuscire ad addormentarmi con questo macigno sullo stomaco.
Che però potrebbe anche essere il cotechino e lenticchie della cena, primo assaggio per allenarmi alle feste.



venerdì 30 novembre 2012

Quando il gatto non c'è...

E' un detto comune riferito agli umani,
non ci sono prove che i topi ballino veramente.
Il gatto qui si spoglia leggermente, ad uso e consumo di chi apprezza il genere.
Sarà uno spogliarello del gatto.
(Diffida: chi al posto di "gatto" metterà una parte anatomica ormai inflazionata nel parlare comune, un po' meno nell'uso pratico, sarà bannato seduta stante da questo blog. Sempre che qualche anima buona gli dica come si esegue questa operazione).
Dunque: i primi cinque anni di vita di questo gatto sono stati dedicati a quello che (quasi) tutti i bambini fanno in quel periodo. Farsela addosso, di liquido e di solido; imparare a scaccolarsi senza fare uscire il sangue dal naso; giocare nella terra quanto più possibile, accettandone le dure manesche conseguenze; scannucciare sotto le gonne delle bambine alla ricerca di qualcosa che vagamente sapeva mancante, senza peraltro nulla conoscere dell'importanza di quella cosa che non c'era verso di riuscire almeno a vedere; importanza che sarebbe apparsa in tutta la sua evidenza in seguito. Molto in seguito.
Di quest'ultima operazione gli è rimasta impressa la maturità delle femminucce, detta in parole povere antesignana del "mamà, Toni me toca... tocame Toni". Le sue compagnine si posizionavano in modo da "richiedere" gli sguardi dei maschietti; ottenutili, correvano dalle suore e "Quello mi ha guardato... guardami Quello". Ed erano ceffoni e rampogne, tipo quelle che a guardare 'quella cosa' si andava all'inferno e cose del genere.
Per salvaguardare virtude si tarpavano le ali alla conoscenza. Ed era da non credere come mani leggere e diafane, sempre congiunte in chiesa nel pregare, diventassero pesanti e aperte come pale di mulino a vento nel pestaggio educativo.
E meno male che non avevano le cinghie a sostenere i gonnelloni.
Ma sono ricordi che poco hanno a che vedere col post, quindi stop.
Dai cinque ai dieci anni: completamente dedicati allo studio. A cercare di capire perché delle aste avrebbero dovuto attorcigliarsi per divenire vocali prima e consonanti poi. E assemblarle, fino a formare parole e frasi di senso compiuto, e a scriverle e a leggerle.
Marginalmente aveva anche appreso dell'esistenza degli scarabocchi detti numeri; assemblando pure questi per ottenerne prodotti diversi dalla loro singletudine.
Imparati i primi rudimenti della lettura, si era innamorato di questo passatempo, divorando tutto quello che appariva leggibile; che fosse o meno comprensibile aveva un'importanza relativa.
Col passare degli anni questa importanza è rimasta nel suo complesso tale e quale: relativa. Ancora oggi, importante è, intanto, leggere; a capire c'è tempo. Quando questo tempo c'è, altrimenti si sa che il mondo continua a girare, indifferente.
Libri, riviste, fogli strappati di libri e di riviste, brandelli di giornale, fumetti...
Uno dei posti preferiti per queste letture erano i 'gabinetti'; che, purtroppo, non erano a comoda tazza, bensì 'alla turca', e alla fine di ogni seduta di lettura si trovava con le gambotte anchilosate per la posizione tutt'altro che comoda.
La seconda decade di vita era stata dedicata alla degustazione e all'affinamento del piacere del leggere.
Forse il periodo più dolce, o meno amarevole, della sua esistenza.
Da lì in poi, per una ventina d'anni, il leggere era stato il suo mezzo per sopravvivere: come dire 'leggere o morire'.
Aveva letto di tutto e di più.
Abbastanza lautamente pagato.
Ma questo lo racconta qui, nell'intimo di un blog, a quei quattro gatti amici, visto che all'epoca il sindacato dei gatti lettori, e propaggini di contorno, proclamava agitazioni a tutto spiano per avere di più.
Di quello che, in confronto ad altre categorie di lavoratori, già si aveva.
Ma anche questo col post c'entra una mezza cippa, quindi anche qui stop.
Poi, finito il periodo di lettura obbligata per vivere, era intervenuto il tempo dello scribacchiare, per sopravvivere ancora.
A mano, visto che l'ingombro anche di una modesta portatile Lettera 22 avrebbe ridotto il bagaglio di indumenti e attrezzature varie del mestiere indispensabili per il suo girovagare.
E pensare che aveva pure fatto un corso di dattilografia, previsto per altri scopi, ma che sarebbe stato utile e soprattutto gradito a chi quel suo scribacchiare doveva poi 'tentare' di leggere.
Nel suo piccolo, all'epoca era apparso un tipo un po' strano, con le unghie delle mani dipinte con i pennarelli, di colore diverso una dall'altra, ogni colore corrispondente a specifici tasti della macchina da scrivere; quei colori che svanivano ogni volta che un dito s'incastrava tra un tasto e l'altro, soprattutto i mignoli, i più delicati e necessitanti di maggiore forza.
Corso poi buttato al vento, visto che ancora oggi le dita lavoratrici sono solo due, massimo tre, e i mignolotti sono in riposo perpetuo.
Comunque, ancora lautamente pagato.
Vista oggi, ma alla luce di quel tempo, era proprio una bella vita.
Poi basta, era finito il 'dovere' di leggere e/o scrivere.
E il piacere della lettura, non più vincolato al dovere della stessa, era, ed è, tornato ad essere la stessa goduria arrapante della seconda decade di vita.
Piacere puro, talvolta estenuante come una lunghissima dolce notte d'amore.
Questo leggero spogliarello il gatto l'ha messo in onda come preambolo al succo del post.



Assente per qualche giorno, al rientro, pimpante e riposato, è andato a vedere il 'lavoro' arretrato, iniziando dall'ultimo visionato prima della sua dipartita temporanea.
E' vero, i topi in assenza del gatto può essere che non ballino, ma i blogger sicuramente tarantelleggiano, manco aspettassero l'occasione buona per scatenarsi in uno scrivere sfrenato.
Altrimenti non si spiegherebbe la presenza di quasi
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post, uno appresso all'altro, che per leggerli tutti gli sembrerà di tornare indietro nel tempo, quando per lavoro non avrebbe potuto accantonarli.


Detto questo, tiremm innanz.

Ultim'ora: 
pioggia, vento, grandine.
Nei brevi intervalli,
grandine, vento, pioggia.
Amen.

mercoledì 21 novembre 2012

Assente giustificato






Sono fuori.
Di casa, intendo.
Da qualche giorno, e per qualche giorno ancora, mancherò sul blog e sui blog.
Metto le zampe avanti, prima che comincino a fischiarmi le orecchie.
No problemi di salute, né miei né in famiglia, a parte il solito.
No problemi con la giustizia (se mai dovesse succedere, mi farei dare i domiciliari e sarebbe una pacchia).
No problemi col fisco (posso tranquillamente dire "li mortacci sua", visto che sono contribuente pagante, ma non col sorriso sulle labbra, più che altro per come vengono spesi i miei soldi).
Vado solo a dare una mano a una famiglia amica, e con i mini-aggeggi non mi ci trovo.
Un caro saluto a tutti.
A presto, appena onorato quest'impegno.

domenica 11 novembre 2012

Sensualmente parlando

Capezzoli,
gemme brillanti,
in trepida attesa
di dolci carezze.
Turgidi,
al solo pensiero
del tocco gentile
dei miei polpastrelli.
Felici,
al solo sfiorarli
con un breve sussulto
mi cadono ai piedi.
Rassegnati,
per gioco o per amore,
e questo ben lo sanno,
sempre spremuti saranno.

Questa qui sopra non è una poesia, ci mancherebbe: è solo una presentazione di sensazioni che presuntuosamente nel titolo ho definito 'sensuali'.
In realtà si tratta di due chiacchiere, tra amici, non necessariamente al bar.
Chiacchiere, squisitamente quasi agricole.

Novembre, andiamo... no, non è tempo di migrare, è tempo di raccolta.
Delle olive.
Siamo in anno paro, quindi non avrebbero dovuto esserci; o esserci, ma in quantità direi infinitesimali.
Negli anni pari precedenti, mano a mano che maturavano a nero, le raccoglievamo, le pesavamo (pesare = voce del verbo "pestare", secondo l'idioma locale, che ne estende il significato a "picchiare di santa ragione"; che si abbina, per completezza, a "palate", che si danno anche in assenza di pale a portata di mano, visto che significa "botte da orbi". Da cui "ti peso di palate", è da leggere "ti gonfio come un dirigibile"), le mettevamo sotto sale, per abbinarle alla bisogna, al coniglio, al baccalà, all'osso buco...
Invece quest'anno ci sono, abbondanti quasi come negli anni dispari.
E' un mistero difficile da spiegare, e manco ci provo.
Dice il vecchio saggio (c'è sempre un vecchio saggio, che spara un'unica cazzata e su quella ci campa una vita, incassando i diritti d'autore): "A l'è mei ciucé 'na pupa, pitost che ciucé 'n ciò" (è meglio succhiare una tetta piuttosto che succhiare un chiodo).
(Precisazione dovuta: non sono saggio, non incasso diritti d'autore, e chi dovesse definire questa una 'cazzata' deve dimostrarmi che invertendo il ciuciamento il piacere e, se del caso il nutrimento, sono identici).
Quindi, quest'anno, ciuciamo queste tette, più gradite poiché inattese.

Tanto, tanto, tanto tempo fa, la scoperta del capezzolo femminile in pieno turgore l'avevo abbinata ad un'oliva.
Forse non era solo frutto della mia fantasia (allora come adesso piuttosto limitata in fatto di 'attrezzature' sessuali, soprattutto femminili), ma dovuta a 'letterature' all'epoca definite pornografiche, o perlomeno licenziose. Verificata dal vivo, sempre decenni fa, mi era sembrato corrispondesse perfettamente al sinonimo mentale appioppatogli.
Che poi, visto che altri organi vengono sinonimati con ortaggi, con legumi, con volatili, con tuberi e con frutti, non vedo perché un'oliva bella lucente croccante non possa essere paragonata al culmine di un seno.
Ecco perché, nel 'carezzare' quelle olive per farle cadere ai miei piedi, in ognuna sentivo un capezzolo, non tanto in veste sessuale fine a se stessa, quanto come il ricordo dei primi, timidi, toccamenti, alle prime scoperte dell'universo femminile, quando arrivare a quello già preludeva esplosioni notturne senza controllo. Tempi di gioventù, erano una droga innocua, sogni, cui bastava poco per alimentare la fantasia verso un mondo ancora tutto da scoprire.

Non sarò mai un gatto 'griffato', ma se vi basta un gatto 'graffiato', eccolo qui.
Papà ulivo difende i suoi frutti come può, così mi ritrovo con le mani, le braccia, il viso graffiati che manco li cani. Piccoli, inutili, ramoscelli secchi si infilano nelle orecchie, tentano di accecarmi, e mi raschiano la pelle come fossi un parmigiano.
E le ossa a pezzi, tra salire e scendere dalla scala e dall'albero; e chinarsi, raccogliere ginocchioni quelle sfuggite alla rete...
Con i polpastrelli già irruviditi, carezzo la terra nel raccoglierle ("amara Terra mia, amara e bella..." cantava Mimmo).
La carezzo e le parlo, proprio come si parlerebbe a una madre: :
"Amata Terra mia, nun t'aggità, nun te sfrollà come un budino; lo so bene che ogni tanto ti scuoti, come fanno i cani e l'altre bestie per scrollarsi di dosso zecche, pulci e parassiti. Dai una bottarella ogni tanto per scrollarti di dosso noi, che con te ci comportiamo come zecche, pulci, parassiti. Solo che nei tuoi sussulti vai a colpire gente che non lo merita, mentre le vere zecche-pulci-parassiti se la cavano sempre. Anzi, questi impuniti, in risposta ai tuoi singhiozzi, bestialmente ridono. Datti una calmata, per favore, e lasciaci campare. Oppure fa un botto unico e chi s'è visto s'è visto".

Fino a un paio di stagioni fa eravamo sei mani distribuite su tre scimmie; facevamo a gara a chi saliva più su, senza la grappa. Arrivare a quell'unica oliva sul ramo più alto, nera che manco Obama, che da lassù ci faceva l'occhiolino ("venitemi a prendere, se avete il coraggio") era una gara su ogni piede d'ulivo.
Vincevano sempre le due scimmie femmine, perché io oltre che gatto sono anche cavaliere e faccio sempre vincere chi, ufficialmente, appare più debole.
Anche perché mi è bastato cadere una volta da un albero e come esperienza mi basta e ne avanza.
Adesso manca una delle due scimmiette, e mancano due mani, dobbiamo sopperire in qualche modo, e, accarezzando le olive, virtualmente accarezzo lei, la mia scimmietta.
Ma son carezze amare.

Compagnia?
Le zanzare, forse le ultime, che prima del letargo tentano trasfusioni, senza badare al gruppo sanguigno, che se non fosse compatibile col loro potrebbe creare problemi. Ma vaglielo a dire, si fa prima a schiacciarle, quelle imbranate che si fanno beccare; le altre succhiano dove possono, e forse si eccitano al rosso dei graffi, manco fossero zanzare tipo toro.
Abbiamo finito da poco la vendemmia dell'uva fragola, fatta di corsa tra un temporale e l'altro.
Qui la compagnia ce l'avevano fatta le vespe.
Non ci puntavano direttamente, intente com'erano ad assaporare il dolce dell'uva; eravamo noi che le puntavamo, e mancava solo che le prendessimo a fucilate, gli altri tentativi per cacciarle quasi tutti andati a vuoto.
Boccia di vetro con acqua, zucchero e aceto: secondo chi ce lo aveva consigliato avrebbe dovuto verificarsi un suicidio di massa; invece solo qualche mosca, niente vespe, un flop.
Salvo dirci, dopo, che con i calabroni era una cuccagna.
Racchetta elettrificata, quella in uso per le zanzare: bisognava beccarle un per una e quando, stordite dalla botta, cadevano a terra, andare di corsa a schiacciarle col piede; oppure vederle volare via sghignazzando.
Erano centinaia, tutte ronzanti sotto quel pergolato, una legione di vespe.
Tra l'altro perennemente incazzate, non so il perché, quando gli incazzati dovevamo essere noi.
Inoltre ogni tanto a quelle 'normali' si aggregava un vespone enorme, tipo un colibrì, ma vespato in tutto e per tutto, e anche di più.
Forse un 'caporale', quelli che controllano e 'proteggono' le lavoratrici.
Come ultimo tentativo, prima di rinunciare alla raccolta, abbiamo fatto questa pensata: un aspirapolvere con serbatoio d'acqua, in cima alle prolunghe abbiamo piazzato un imbuto per allargare il diametro della presa d'aria, e con quell'aggeggio futurista le rincorrevamo per aspirarle all'interno del serbatoio; teoricamente, una volta aspirate sarebbero finite nell'acqua all'interno, impossibilitate ad uscire, e giustamente vespizzate.
Bene, è una delle poche volte che la pratica ha poi confermato la teoria.
Aperto il serbatoio, giorni dopo per sicurezza, ne è uscito un tappeto di vespe che il vespa nazionale sarebbe inorridito alla vista di tanti cloni.
Questi, peraltro, defunti.
Della poca uva che ci hanno lasciato ne abbiamo fatto marmellata, con la speranza di non trovarci dentro qualche sedere di vespa a strisce gialle e nere. Ma se anche fosse, sarebbe stato bollito insieme al resto, quindi biologicamente non dannoso. C'è gente al mondo che mangia gli spiedini di formiche, non vedo perché noi dovremmo essere schizzinosi (questo termine non è nel mio dizionario, non me lo sono mai potuto permettere, ma ultimamente va così di moda che il non citarlo sarebbe un peccato) verso un culetto di vespa bollito e addolcito.

venerdì 26 ottobre 2012

1,05: sveglia, dormiglione!

La Terra continua a cullarci, come fossimo bimbi che non vogliono dormire, piagnucolando capricci per non farlo.
E ci vanno di mezzo anche i bimbi buoni, che a quell'ora già stanno sognando e vorrebbero dormire felici fino all'indomani.
Se culli un bambino per farlo dormire, prima o poi crollerà, è una delle leggi della natura, a meno che i capricci non nascondano un malanno.
Se vai a cullare un bimbo che dorme, quello si sveglia e poi sono cavoli acidi per farlo riaddormentare.
Se poi, più che cullarlo, gli dai uno scossone al letto, oltre al delitto di interrompere un sogno, c'è la possibilità che lo spaventi di brutto e che, per almeno una mezz'oretta resti sveglio, allarmato.
Ore 1,05, "questo" bambino dormiva beato, sognando non ricorda cosa, ma sicuramente cose belle (gli incubi mai nulla li interrompe), quando, budubum-budubum-budubum, qualcuno aveva scosso il suo letto, con violenza.
"Blu, se non la smetti subito ti sfesso, porca gatta!".
Il tempo di rendersi conto che gatta non era, poiché chiusa fuori dalla stanza, e aveva pensato subito a mamma Terra che (all'animaccia sua!) si era messa a cullare il bimbo dormiente, con scosse rumorose.
Sveglia obbligata, buio pesto, luce saltata, a tentoni ricerca della torcia, miagolio straziante di Blu pestata nella ricerca allo scuro, salvavita a posto, ergo...
Ergo, non era stato svegliato solo lui.
Felpa sulle spalle, uno sguardo all'esterno: cielo stellato, uniche luci, insufficienti ad illuminare l'oscurità generale; sapeva che laggiù, verso il mare, c'era il paese, ma appariva come una distesa di pece che, senza l'interruzione dei lampioni del lungomare accesi, proseguiva nel mare stesso, all'infinito.
E silenzio. Assoluto, quasi a fare pendant col buio.
Il tempo di fumare una sigaretta (è un bimbo precoce, le cose schifose le sa apprezzare) e, visto il perdurare del buio e del silenzio, era rientrato in casa, ed era tornato a letto per riprendere il sonno interrotto.
Il sogno no: non ricordandone il punto d'intoppo, ne aveva cominciato un altro, ex novo.
Interrotto pure questo, di primissima mattina: squilli di telefono, "come state? tutto bene?".
Tutto bene, grazie.
Venerdì 26 ottobre 2012: il bambino si rende conto che oggi non è giornata, oltre il resto fa pure freddolino, nonostante il sole tra le nuvole faccia capolino.
Per oggi le cose belle e brutte, solitamente oggetto delle chiacchiere quotidiane, saranno accantonate, per parlare soltanto di questa cullata violenta che madre terra ci ha regalato.
Ciao a tutti.

domenica 21 ottobre 2012

Gatto fenice




Premessa, doverosa verso gli studiosi di scaramantica e di jettatologia applicata: i gatti neri portano sfortuna.
A se stessi.

E’ stata un’estate calda, caldissima, che lo dico a fare.
C’è chi dice sia stata la più calda degli ultimi trent’anni; per altri, studiosi conventuali (trappisti, cistercensi, benedettini, adoratori di Ra…), abituati a esplorare il passato fino alla cosiddetta particella di Dio, solo il big-bang della nascita dell’universo è stato superiore in calura, ma di pochi gradi (e comunque durati solo un secondo, mentre questa estate va avanti da mesi), che allora si basavano soltanto sulle percezioni della propria pelle. A questi studi, forse, oggi risale l’abbinata recente della percettibilità effettiva contrapposta ai gradi segnalati dagli strumenti; che, come tutti gli strumenti tecnologici, sono chiaramente fallaci e corrotti (pure loro).
Estate caldissima, niente pioggia, neanche a farci la danza .
Dando acqua alla terra, nel tentativo di salvare il salvabile dei pochi ortaggi sopravvissuti (con un vago senso di colpa, poiché so benissimo che l’acqua è un bene prezioso e c’è un sacco di gente che muore a causa della sua mancanza; senso di colpa peraltro mitigato dalla vista di persone che, imperterrite, lavavano le macchine, nei cortili e in strada, alla faccia dei richiami del podestà di turno e le sue minacce di sanzioni, regolarmente ignorati i primi e snobbate le seconde), innaffiando, col pisciolo al minimo per tacitare la coscienza, più e più volte avevo alzato gli occhi al cielo, inteso come volta celeste da cui, fino a prova contraria, dovrebbero scendere, almeno ogni tanto, delle gocce bagnate, volgarmente dette pioggia, alla ricerca di qualche nuvoletta che desse speranza di un buon rovescio a mitigare sete e calura.
Alza gli occhi ieri, alzali oggi, una bella notte (eufemistico: in realtà, visto il seguito, una notte maledetta), un po’ nel sogno un po’ nella realtà, avevo sentito un brontolio sordo e lontano di tuoni, preceduto da lampi (che intuivo più che vederli, attraverso lo strizzare degli occhi nell’ingenuo tentativo di non svegliarmi del tutto), seguiti dal ticchettio di goccioloni, picchiettanti argentini sui tegoli vecchi del tetto e su altro, già citati nella nota poesia, ma riferita, questa, al mese di marzo e non a un inizio di settembre.
Per abitudine ormai consolidata e  per esperienze brucianti precedenti in fatto di temporali, tutte le sere stacco la corrente del cancello elettrico del parcheggio e scollego il computer che, oltretutto, ha pure una presa antifulmine di sicurezza, che dovrebbe fare da filtro agli sbalzi anomali di tensione.
Avrebbe dovuto fare da filtro…
Lampi, tuoni, pioggia a catinelle: il tipico temporale estivo, quello invocato da mesi e ormai insperato.
Uno di questi lampi (miserabile schifoso fetente, e pure fellone), sottovalutato nella notte, con la certezza di avere adottato tutte le misure per essere al sicuro da brutte sorprese, che, come detto poco fa, già in passato avevano colpito a tradimento, mi ha scassato il pc (leggasi: porca canaglia) e dintorni. A parte il fatto che, anche risvegliato del tutto, non avrei potuto fare nulla per bloccare la saetta.



All’inizio fu la scheda madre: cambiata con tutta calma da un tecnico che della vita deve avere capito il meglio: mai fare oggi quello che si può fare domani (che deve essere la filosofia, per dire, applicata alla A3, nella tratta Salerno-Reggio Calabria, eterna incompiuta come strada, ma benissimo funzionante come voragine mangiasoldi).
Poi fu il modem, o router, o come diavolo si chiama, insomma quell’aggeggio che dovrebbe consentire i collegamenti adsl, internet, explorer, google, firefox… Uno scatolino che, svuotato delle frattaglie, avrebbe un buon uso come portasigari e niente più.
Da cambiare: stessa filosofia del “chi ha tempo aspetti quello successivo, è una materia che non si esaurisce, e quello di domani è sicuramente più fresco”.
Poi google ed explorer che non ne volevano sapere di darmi la linea; sembrava dialogassero tra loro a suon di messaggi criptati; in chiaro solo la pubblicità e le offerte di premi se avessi cliccato qui o cliccato là.
Per un mese e mezzo circa ho continuato ad alzare gli occhi alla volta celeste, non più per chiedere pioggia, ma per una serie quotidiana di perorazioni, che tornavano a me mittente censurate da una serie infinita di bip.


Bontà sua, nei giorni scorsi google mi ha concesso l’entrata a gmail, che mi ha consentito l’invio di messaggi di chiarimento verso amiche che lo avevano sollecitato tramite questo mezzo benemerito.
Blogger incagliato, insabbiato, vaporizzato… pagina bianca o invito, in rosso, a lasciar perdere. Ho battuto queste righe su office word 2007, sperando di rientrare quanto prima in possesso del mio blog, col dubbio che questo mi risulti totalmente cancellato o di non riuscire nel trasferimento di queste due righe di rientro in pista.
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A parte questo guaio non mi sono annoiato; in un paio di giorni ho letto “Una scuola come tutte le altre” di Perboni, che comunque anche in tempi normali mi sarei sciroppato velocemente, poiché troppo deliziosamente avvincente.
Ho ripreso a leggere “Storia d’Italia” di Cervi-Montanelli, che la lettura quotidiana dei blog mi aveva fatto accantonare.
E “Terroni” di  Pino Aprile, che leggo a spizzichi e mozzichi, poiché una lettura prolungata mi fa drizzare il pelo e mi fa andare in bestia.
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Poi la vendemmia...
Una schifezza, pochissima uva e pure brutta, quasi tutta rinsecchita dalla calura estiva (o dal malocchio di quelli del piano di sopra, coloro che non potendomi sputacchiare in testa lo avranno fatto verso la mia vite), soprattutto quella nera; si è salvata un po’ l’uva fragola, che mi piace solo da piluccare, visto che il dolciastro aromatico di quel vino proprio non mi va.
Nella raccolta abbiamo nutrito qualche miliardo di zanzare, che al dolce dell’uva preferivano l’amarevole del nostro sangue. Comunque qualcuna ha pagato il suo buon gusto con la vita.
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La bambina di casa (vent’anni a fine agosto) è partita per la capitale, diretta alla scuola per i test di ammissione, portandosi appresso la mononucleosi, scoperta solo una decina di giorni prima della partenza; curata malamente e malaccortamente dal medico con antibiotici non specifici, se la sta trascinando con mal di gola con placche, febbriciattola costante, stanchezza e inappetenza, tutti malanni che amici ottimisti (per esperienza vissuta) dicono accidenti che dureranno per mesi.
Nonostante ciò brillantemente ammessa.
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Angela, per chi sa di chi e di cosa parlo, sta bene.
Compatibilmente.
E in questa compatibilità sono racchiusi tutti quei paletti che fanno la differenza tra lo stare bene in piena libertà e lo stare bene in cattività, sia essa sanitaria, giudiziaria o economica.
La costrizione sanitaria e quella giudiziaria esistono da sempre, entrambe malamente sopportate, la prima perché comunque ineluttabile, la seconda con la fiducia (per noi popolino, o meglio popolame, di solito mal riposta e comunque sempre severissima, mentre per l’olimpo in tutte le sue branche è una fiducia che diventa subito certezza: di impunità) di trovare inquirenti e giudici che sappiano anche di legge, per i quali sia per tutti, indistintamente, dura lex, sed lex.
La cattività economica è la forma più recente di costrizione, non apertamente dichiarata, ma operante con maggiore efficienza che le due precedenti versioni di prigionia, con quei vincoli che obbligano a limitare la propria capacità economica per adeguarla a decisioni che altri prendono a nome e in nome nostro, il più delle volte con scelte sciagurate.
Dai giornali: la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali i tagli ai cosiddetti rappresentanti del popolo e dei manager pubblici da loro stessi sponsorizzati; sono invece costituzionali tutti i tagli messi in atto verso il popolo stesso. Sopra, tra quanto letto in questo infelice lasso di tempo, ho dimenticato “La Costituzione”: mi sono riletto i 139 articoli che la compongono, e pure i 18 capi delle Norme Transitorie. Cercavo una parola, che non sono riuscito a trovare: vergogna . Questo mi ha fatto capire perché non è presa in considerazione da nessun organo ‘costituzionale’: se in un testo, sacro e intoccabile per una minima parte di cittadini, quel termine non esiste, ne consegue che non è da prendere in esame, tanto meno da mettere in atto.
Per gli altri, tutti noi, vale il vecchio “tirare la cinghia”, fino a trovarcisi impiccati.
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Inoltre in questo mesetto abbondante ho avuto conferma che la morte non è la fine di una vita, ma soltanto una sua componente; a ben guardare, forse neanche la più importante.
Se ne sono andati in nove, nello spazio temporale di cinquanta giorni, per una superficie di poco più di circa duemila metri quadrati coperti; in una grande città, o anche in un piccolo paese, sarebbe una percentuale minuscola, ma in spazi e tempi così ristretti obbliga a pensare, giorno dopo giorno.
E sono considerazioni ricorrenti e ripetitive, fino a diventare quasi una forma di paranoia.
Alcune di queste persone erano conosciute per via di una frequenza quotidiana, perlomeno di vista; altre, che mai avevano potuto abbandonare il letto, assolutamente sconosciute.
Queste ultime, semplicemente numeri, di stanza e di letto.
All’arrivo, uno o l’altro, addetti o pazienti, dà la notizia: “Tizio/a se n’è andato/a”, e non sono necessarie altre specifiche.
Solo una volta, chiedendo di Vincenzo (era approdato là una quindicina di giorni prima, malmesso quel tanto da consentirne il ricovero, ma lucido e cosciente), che non vedevo più in giro e non avevo avuto modo di conoscere meglio, avevano risposto “se n’è andato”; non mi era sembrato così prossimo a quell’ultimo miglio, per cui avevo accennato una breve veloce croce nell’aria per avere conferma a una presa d’atto, ormai divenuta consueta.
Dicevo della sua lucidità, sapeva di dover morire, non  sapeva quando e come, ma aveva deciso perlomeno per il “dove”: a casa sua. Se n’era andato con i suoi piedi, nel vero senso dell’espressione.
Mentre batto queste righe, devo aggiornare il numero, i partenti sono diventati dieci: se n’è andata anche Cesira.
Poco meno di un anno fa era toccato al marito, Orazio, trovato morto un mattino di novembre, seduto in poltrona, a casa sua. Aveva visitato la moglie, chiodata in una carrozzina, mattino e pomeriggio per anni, portandole sempre qualcosa da mangiare e imboccandola, pulendone gli sbavamenti e sopportando giobbescamente le sue frequenti ire, non sapremo mai se e quanto consapevoli.
All’epoca, appresa la notizia, assolutamente inattesa, con un pizzico di cinismo da bookmakers della baiona (quello che consente di placare un po’ il magone che attanaglia cuore e stomaco), eravamo pronti a scommettere sulla sopravvivenza della moglie al massimo per un mese, tanto sembrava evidente la sua dipendenza dal suo Orazio. I nipoti lo avevano sostituito con una specie di badante, senza che lei mostrasse segni di insofferenza verso quel cambio.
E avremmo perso la scommessa.
La speranza, in posti come questo, finisce presto accantonata, e al suo posto subentra l’attesa.
Quando questa finisce, lacrime da versare non ce ne sono più: sono represse, quando e quanto possibile, nel tempo, un periodo che dura talvolta anni. D’estate escono dai pori, miscelate al sudore estivo, nella stagione invernale sono tiepida brina, che gli abiti più pesanti assorbono, rendendole invisibili.
Quando arriva l’ora, negli occhi resta solo l’umido fisiologico che impedisce la secchezza delle palpebre;  e un grande improvviso vuoto dentro, incolmabile per un certo periodo; poi anche quello si riempie con la rassegnazione a un evento supinamente subito.
Non c’è neanche lo spazio a scene di disperazione, consuete in queste occasioni, ma altrove, non qui. Non si danno le condoglianze: in un silenzioso abbraccio si trasmette la partecipazione finale a un dolore trascinato e condiviso nel tempo.
In rassegnata comune attesa.
Come si fosse nell’arena di un circo, lo spettacolo della vita deve continuare.




E’ una specie di post scriptum: sorgendo dalle ceneri, sono andato a vedere se il blog fosse in ordine; all’ultimo post, dedicato alle lacrime di Bossi (dubbio: forse il malocchio citato più sopra non fu opera di quelli dei piani alti del mio caseggiato…), visto l’alto numero dei commenti, sono rimasto colpito da quanti fossero, e, non ritenendo che le lacrime di questo signore richiedessero cotanta attenzione, me ne sono uscito con un “eh, la peppa!”.
Scorrendoli ho dovuto correggere con “eh, la madonna!”, dopo avere scoperto che la più parte erano richiesta di notizie sulla mia salute e sulla mia latitanza. Alcune ribadite per e-mail.
Che dire: umanamente dispiaciuto per i (forse brutti) pensieri offerti, felinamente lusingato per quelli ricevuti.
La parte umana e quella felina ringraziano, con un abbraccio e un bacio alla Botero, enormi.
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Finalino:post lunghetto, lo confesso, ma dopo un’astinenza di oltre cinquanta giorni, vorrei vedere chi non si sarebbe abbuffato. E comunque il lungo fa sempre elegante. Adesso vado a pasteggiare in giro per i blog, a vedere cosa mi sono perso. Ciao.