martedì 29 gennaio 2019

Aspettando

Oggi, otto anni fa

Era entrata in casa come una furia,
in una mano teneva una falce...
se nell'altra avesse avuto un martello
l'avrei accolta come un'amica,
come una compagna, come una sorella.
Invece sul braccio aveva un lenzuolo,
piegato per bene, come un tovagliolo,
ma era un sudario, e cercava un viso
su cui stenderlo per un riposo eterno.
Forse spiazzata dalla nostra presenza,
aveva guardato, e si era accomodata.

Aspettando.

Nulla è più paziente della morte,
aspetta, sa che il tempo non ha età.
Si era messa in disparte, quasi assente,
ma aveva seguito tutto, attentamente.
Aveva fatto il possibile per impedire
interventi che la potessero fermare.
Zitta, come non fosse presente.

Aspettando.

Si era fermata nella stanza,
l'aveva seguita nell'ambulanza,
era presente in sala operatoria,
non l'aveva lasciata nel letto di degenza.
Ogni tanto accarezzava quella lama,
arrugginita dal troppo lavorare,
la carezzava come fosse una bambina,
trepidante nell'attesa d'una vittima.

Aspettando.

Ore, giorni, settimane, mesi di attesa
l'avevano convinta a rimandare
lo stop a una vita ancor da completare;
aveva rinunciato, non c'era più l'attesa.
Andandosene, le aveva fatto una carezza,
"Non è ancora l'ora",  ci aveva detto.
Ma con quella carezza
aveva chiuso anche un sipario:
"La commedia è finita, hai avuto la vita,
 ma da oggi la tua sarà un'altra vita".

Aspettando.

Oggi, otto anni dopo

Lei
non mi guarda più,
più non mi parla,
più non mi sorride...
ma perché, mi domando,
se non mi guarda,
se non mi parla,
se non mi sorride,
se non c'è più,
io piango ancora
come allora?

lunedì 28 gennaio 2019

Il giorno dopo quello della Memoria

È lunghetto ma merita di essere letto. Con attenzione, fino in fondo.

A scuola imparavamo le poesie a memoria. 
Non era per le poesie.
L’abbiamo capito dopo.
La scuola si capisce sempre dopo.
Come ogni cosa vera, come la libertà, come l’amore, l’amicizia.
A scuola imparavamo le poesie per imparare la memoria.
La poesia era un mezzo, uno strumento.
S’imparava a ricordare.
Lo si faceva con la poesia perché la memoria fosse armoniosa, facendosi scrigno, scaffale di credenza di ciò che avremmo ripreso, per averlo conservato, mantenuto.
Serbato.
Come si dice anche “serbatoio” per intendere ciò che ti serve per andare avanti quando ti manca ciò di cui hai bisogno. Penso al serbatoio dell’acqua dove l’acqua viene a mancare.
Penso alla mia San Vito d’estate. Penso e ricordo.
I tedeschi dicono “andenken”, “dare luogo al pensare”, “rammemorare”.
È la ricordanza ciò che ti fa pensare e sentire nell'animo i ricordi di quel che è stato.
Si dice per questo che non c’è futuro senza passato, perché “ciò che viene” deve essere pensato, perché quando non si dà luogo a pensare, non c’è futuro.
Anche il presente evapora. In carcere ho capito che “futuro” è una parola davvero strana, formata da un passato remoto “fu” messo al participio, partecipato.
Da allora dico che “futuro” è quel che racconteremo come passato del presente adesso.
Per questo poi ripeto che non è che ci manca il futuro, ma è la raccontabilità del presente che ci manca.
Anche un’esperienza didattica non si può dire riuscita se non è raccontabile. Anche chi insegna la matematica o la chimica, se non sa raccontarla non sa farla pensare.
La dice a memoria, ma con un memoria vuota, che non trasmette, senza desiderio.
Chi insegnando non suscita il desiderio di ciò che dice di sapere non sta insegnando niente.
Il sapere riguarda le persone che lo pensano.
La matematica non esiste se non nella persona che la insegna, che ne porta i segni, che ne ha con la memoria la passione.
Anche la politica se non è raccontabile non ha futuro, non suscita desiderio, non dà futuro.
Quando la politica suscita irritazioni, solleva odio, esaspera, fa perdere la speranza, toglie il desiderio, rende triste la passione, allora si aspetta che finisca, perché semina odia, corrompe, fa diventare antipolitici.
La fine della politica è cominciata quando è diventata sorda, vuota, quando è diventata solo potere, mestiere, occupazione dei senza lavoro, comica, separata dalla gente, dalle persone, irridente.
L’arte della politica è la manutenzione dei legami, quando divide, la politica diventa antipolitica, va contro se stessa, perde il legame, diventa smemorata, offensiva, le istituzioni perdono senso.
La memoria è fatta di legami.
Allora imparavamo le poesie perché si apprendesse la memoria.
In tedesco si dice “andenken” darsi pensiero, dar luogo al pensare.
Ricordare allora non basta, se quello che si ricorda non ci fa pensare a quello che viviamo, perché è come ricorderemo questo presente che racconteranno in futuro di quel che saremmo stati in questi anni.
La democrazia nasceva in Grecia cambiando la memoria per come com’era stata fino a quel momento quella dei clan familiari, delle tribù, dei capi famiglia, della guerra e della prepotenza.
La democrazia in Grecia nasceva negli stessi anni in cui si componeva i due generi letterari della “Tragedia” e dell’“Etica”, per la costruzione dell’opinione cittadina e per dare misura dei comportamenti personali.
La Tragedia serviva a decostruire i miti della memoria della guerra, l’Etica a fare della “filia”, dell’amicizia, la virtù che rende tutte le altre tali, il legame più importante per la il benessere del paese.
La Tragedia in Grecia fu il tribunale della memoria.
Eschilo nella sua tragedia dei figli, Oreste ed Elettra, mise in scena quel processo in cui i ricordi non dovevano più essere di vendetta e rancore, non dovevano essere più “Erinni”, spiriti persecutori, ma diventare “Eumenidi”, portare buoni consigli.
Bisogna ricordare bene, usare “bene la mente”, pensare bene, tenere bene a mente.
In tedesco “ricordare” si dice “Erinnen”, che richiama ancora le “Erinni”, i ricordi che rimbalzano come “spettri del passato”. C’è però l’altra parola “andenken” per intendere le “Eumenidi” per tenere bene a mente il presente adesso, darsi pensiero.
Platone in quegli stessi anni riportava la distinzione tra Erinnni ed Eumenidi, distinguendo il ricordo, “mneme” e l’“anamnesi”, una parola che si usa ancora in medicina.
“Anamnesi” era la ricordanza, ciò che ci sovviene ed anche ci sostiene, com'è il ricordo di ciò che non si è vissuto ed è presente in noi come desiderio di un mondo migliore.
Se si usa ancora “anamnesi” in medicina è perché il ricordare sia in funzione della cura da seguire, per capire cosa c’è da fare, per guarire, per guardare diversamente, bene, la propria vita, per riguardarsi.
Leopardi diceva “ricordanza” dando alla parola un suono poetico, facendo del ricordare il verso dell’anima come quel verso cui rivolgersi a pensare.
Oggi è il giorno della memoria.
È tanto più speciale questo giorno oggi, perché la memoria se ne è andata, si è perduta come legame tra le generazioni, come riguardo dei legami.
Le parole non ci dicono più niente, perdono di significato.
Accadono cose che non vorremmo ricordare, che non vorremmo che avvenissero.
Da bambino stupivo ad aprire il vocabolario. Non leggevo racconti, era quello il libro che leggevo ed ancora sulla scrivania ho i vocabolari intorno a me.
Continuo a leggerli con la stessa meraviglia delle favole, per trovare in ogni parola la memoria della voce che le hanno pronunciate, le lingue che vi sono sedimentate delle genti che da qui sono passate.
Io che vivo questa città, che conserva ogni cosa, nelle nostre parole ci sono tutte le lingue delle voci che l’hanno vissuta. Mi chiedo io stesso quale sia stata la lingua della voce che ho ereditato come il mio colore.
Le parole sono come conchiglie, bisogna portarle all’orecchio per sentirne la voce del mare del tempo.
I filosofi sbucciano le parole, ne tolgono la crosta delle abitudini per sentire ciò che c’è dentro e coglierne l’essenza, l’estratto, del vedere e sentire, delle cose ascoltate e della propria voce a pronunciarle ora.
Ogni parola apre un ambiente visivo ed è un sentimento.
Apprendere la memoria è imparare a saper parlare ascoltando.
Continuo a leggere il vocabolario, è il libro delle parole, lo sfoglio ogni giorno.
A scuola per questo ci facevano apprendere la memoria imparando le poesie, perché potessimo sentirne l’armonia. Ed è sulle canzoni che ricordiamo il “suono” della nostra memoria.
Anche un inno lo s’impara per apprendere una memoria comune, ogni comunità ha la sua canzone, i suoi versi: la sua melodia è la sua memoria.
Non bisogna essere stonati. Bisogna andare a tono, avere tono.
Darsi pensieri. Basta che parli in tono alterato o con offesa per non far capire quello che vuoi dire ed è forse per questo che irriti con le parole che usi, per nascondere quello che non vuoi che gli altri capiscano.
Oggi è il giorno della memoria in un giorno che non vorrei ricordare, perché è fuori tono, senza voce che risuoni. Non ci sono legami, ci sono link, rimandi, che rinviano, senza legarsi, ci si allontana, l’origine della parola “link”, il suo etimo porta ad “allontanarsi”, il link allontana, rinvia, rimanda, lascia soli dove, lascia post senza memoria, postumi, come sono gli effetti di un trauma.
Ci sono persone in mare a quest’ora della notte che scrivo.
Ci sono persone che parlano con disprezzo, che allontano, che cacciano via, che respingono.
È il giorno della Shoah, una parola che ricorda la voce della deportazione, della distruzione e ci sono oggi persone che vengono deportate, lasciate per strade e per mare, naufraghi della vita.
Si pensa ancora a recintare, ai chiudere confini, per cui il ministro degli Interni diventa quello dei confini, perciò della Difesa e degli Esteri non più solo degli Interni.
Diventa Poliziotto, prendendo i panni dell’agente per far capire che non è più solo la divisa della Polizia di Stato ma la divisa dello Stato di Polizia.
Separa i buoni e i cattivi, sceglie i “cattivi” perché gli altri sono poco di buono.
Distingue i primi e i secondi e gli ultimi.
Io so che non sono nell’elenco degli italiani che vengono prima, sono dell’Italia del Meridione, quelli che vengono dopo e che, per il Ministro della Difesa-degli-Interni-degli-Esteri-dello-Stato-di-Polizia, erano Africani, classificati nel numero degli ultimi.
È facile lasciarsi trascinare dal governo dell’irritazione.
Facile abbandonarsi alle “erinni” e alle persecuzioni.
La democrazia vuole una buona memoria, una memoria del bene, un darsi pensiero.
La democrazia è fragile, per sua costituzione. È discutibile. In democrazia si discute.
C’è democrazia quando non c’è rancore.
La democrazia è “fragile”.
Ancora in tedesco si dice “fraglich”, per dire “domandabile”, “discutibile”.
Il dialogo tiene insieme, fa legare insieme le parole di uno e di un altro che dialogando fanno insieme il cammino verso ciò che cercano che venga a sapersi e che non sanno prima, non hanno la verità, la cercano insieme.
Chi non si dispiace non può fare politica perché solo chi si dispiace può procurare la gioia dove manca.
Il dispiacere non è un sentimento d’impotenza.
Non è separabile dall’agire.
Non basta dire “dispiace anche a me”, se poi quel “me” non diventa “io” che opera, agisce e fa l’impossibile per procurare la gioia dove manca, dandosi pensiero, “ricordando bene”.
Un mio maestro usava dire ogni volta “ricordo bene” invece di “io penso”.
Ed io ricordo bene che l’Europa, che proviamo ancora a costruire, viene da quella memoria che conserva i giorni che non vorremmo ricordare.
La memoria riguarda il presente, lo fa guardare, bisogna averne riguardo.
Della Shoah restano tante poesie e quel sogno di Adorno, che non smetto di ricordare, diceva che era per lui un sogno ricorrente nelle sue notti.
Sognava di non essere lui a vivere ma di essere il desiderio di vivere di quelli che non erano rimasti chiusi nei campi di sterminio.
Adesso quel campo è il mare.
E non possiamo stare a riva a guardare pensando alle colpe degli altri che li fanno partire e morire.
Ognuno di noi sa del desiderio di vivere.
La memoria viene da questo desiderio.
Le colpe per i viaggi della disperazione dei migranti sono certo tante, più d’una e più d’uno, più di un paese, ne ha colpa, ma la responsabilità è sempre di se stessi.
La memoria è cultura.
Eccola la parola che porta al coltivare.
Bisogna ricordare da dove viene questa Europa e come provare a costruirla ancora insieme.
Bisogna fare Unione e non separare regioni ricche e regioni povere.
Neanche l’accoglienza basta se non è ospitalità, se non si danno condizioni e legami per stare bene insieme, se non ci si dà pensiero a vivere.
Chi viene al mondo è uno che ritorna, perché porta quel che eravamo e siamo stati, perché il mondo non sia più come prima, perché non si ripeta com’è stato.
Si dice per questo “ben venuto”, per vivere insieme in un'economia dell'umanità, la più ricca, quella che fa crescere insieme."
Giuseppe Ferraro

domenica 27 gennaio 2019


- Un paio di scarpette rosse - 

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.

Joyce Lussu

lunedì 21 gennaio 2019

Breve historia triste

Ore 9:01

Per Servizio Clienti digita 401001:

Benvenuto nel servizio Clienti di 1Mobile.  
La informiamo che la chiamata sarà gestita dall'Italia.
Per 1Mobile digita :
     ①
Per informazioni commerciali digita :
     ①
Musichetta d'attesa fino alle

ore 18:01, poi voce:
La informiamo che il Servizio Clienti è attivo dalle 9 alle 18 da lunedì a sabato.

lunedì 14 gennaio 2019

La manutenzione dell'amore

Troppo bello e troppo attuale per non condividerlo. 
È un articolo tratto dalla rubrica "Letti da rifare" di Alessandro D'Avenia, sul Corriere della Sera di oggi, lunedì 14 gennaio, titolato appunto "La manutenzione dell'amore".

Alcune famiglie al completo, nonni compresi, sono sedute ciascuna attorno a una bella tavola natalizia. Una voce fuori campo pone delle domande ai singoli componenti. Chi risponde correttamente rimane, se sbaglia esce dal gioco. Quale famiglia vincerà? I primi giri di domande, mirate sull’età e gli interessi di ciascuno, vedono trionfare tutti: come si chiama l’eroe di Game of Thrones? Dove sono andati in vacanza Ferragni e Fedez per Natale? Quanti gol ha segnato Ronaldo in questo campionato? Dove si sposerà Lady Gaga? Ma a un tratto le domande cambiano. Quale è il gruppo preferito di tuo figlio? Dove si sono conosciuti papà e mamma? Dove sono andati in viaggio di nozze? Dove lavora la mamma? Di che cosa si occupa esattamente papà? Che cosa faceva il nonno prima della pensione? Qual è la canzone preferita di tua figlia? Il libro preferito di tua sorella? Il sogno di tuo fratello? Perché papà e mamma ti hanno chiamato così? A queste domande, apparentemente più semplici, i componenti della famiglia danno risposte sbagliate o non sanno rispondere. I tavoli si svuotano. Ho rielaborato una pubblicità che mostra, amaramente, che sappiamo tutto di persone lontane e niente di chi ci sta accanto. Preferiamo le infinite e immaginarie emozioni delle relazioni virtuali alla gioia faticosa di quelle reali. Perché passiamo, in media, 24 ore a settimana con il telefono in mano e gli occhi sullo schermo e non abbiamo il tempo per parlare faccia a faccia o mano nella mano?
La maggior parte delle lettere che ricevo dai ragazzi riguardano sofferenze nascoste, da casi gravi (anoressia, bulimia, dipendenze, autolesionismo) a più ordinarie, ma non meno dolorose, solitudini. I ragazzi si confidano con uno sconosciuto e io, non conoscendo le loro storie e situazioni reali, dico loro che la prima cosa da fare è parlare con i genitori o altri adulti di riferimento, ma spesso mi sento rispondere: non capirebbero, rimarrebbero delusi, non hanno tempo, mi hanno detto di non dare peso alla cosa, passerà... Ecco una delle ultime lettere ricevute: «Ho 18 anni e mi sento vuota. Scrivo, sperando che qualcuno legga l’email confusa, scritta tra lacrime salate, di una ragazza che non ne può più. Ti scrivo la sera della vigilia di Natale perché è l’ennesima vigilia che nasce piena di buoni propositi e speranze che poi vengono spezzati dai miei. Mi capita di pensare di scappare via e lasciarli con una frase: “Avete rotto un legame: adesso è andato via, irrecuperabile”. Non so come affrontare la situazione e con chi parlarne. Potrai dire che ci sono i professori: per me sono degli estranei, pronti a svalutarmi. Potrai dire che ci sono gli zii e i nonni, ma è anche a causa loro che alla vigilia di Natale mi trovo dietro allo schermo, scrivendo e sperando che la persona a cui chiedo aiuto mi legga. Potrai continuare a replicare che ho un mondo di persone con cui potrei parlare ma quelle persone non mi stanno realmente a sentire e tutte le volte che ho provato sono stata descritta come problematica, disagiata, insomma da curare. Non so più in cosa credere. Non so il significato reale di donarsi, quali siano i veri valori da seguire, cosa voglia veramente dire Natale. Non so cosa si prova a ricevere una carezza di qualcuno importante. Recentemente in una discoteca mi stavo per avvicinare al bancone per una birra, quando un ragazzo sconosciuto mi ha messo la mano sulla spalla e mi sono sentita “presente” ma, l’attimo dopo, allontanandomi da lui, mi sono resa conto che in quel tocco c’era una solitudine immensa e che non si sa realmente quale sia il significato di amore. Mi sono resa conto che la discoteca è un bordello per chi non vuole sentirsi solo il mattino dopo, al risveglio. Mi sono resa conto che non sono l’unica a essere ignorante delle basi della vita e non so a che cosa sia dovuto». Parole scritte a uno sconosciuto, la vigilia di Natale, da una tastiera. La lettera si apre con un «mi sento vuota» (ricerca di pienezza) per approdare, con perfetta coerenza, alla domanda: quali sono le basi della vita e perché non le ho ricevute (ricerca di senso)? La «pienezza di senso» è ciò che spesso manca a questi ragazzi e molto dipende dalla qualità delle relazioni principali.
Tempo fa lessi un libro, molto pragmatico e semplice, di Gary Chapman, un consulente familiare: I cinque linguaggi dell’amore . L’autore spiega che ciascuno di noi impara a riempire il proprio «serbatoio dell’amore» da bambino, sulla base dei cinque possibili modi in cui l’amore viene trasmesso nelle relazioni. Li usiamo tutti e cinque, ma ognuno ha la sua classifica e dà amore nel linguaggio con cui lo ha ricevuto, sicuro che anche l’altro parli lo stesso, ma non è così. Spesso una relazione (di coppia, d’amicizia, educativa...) non cresce perché le persone non usano l’uno il linguaggio dominante dell’altro: ciascuno fa il suo discorso amoroso che, per quanto sincero, l’altro non riesce a recepire, perché è sintonizzato su un’altra stazione. Tante relazioni si rovinano, benché ci sia impegno, semplicemente perché non si parla la lingua altrui, convinti che la propria sia l’unica. Ecco i cinque linguaggi. 1) Parole di incoraggiamento: tutta l’area delle parole di conforto e rassicurazione («figlio mio, sono fiero di te», «figlia mia, se potessi scegliere tra tutti i ragazzi del mondo sceglierei te», «sei una moglie eccezionale», «caro, hai fatto un lavoro perfetto»...). 2) Momenti speciali: vicinanza e ascolto esclusivi (eliminando ogni distrazione: cellulare, tv, giornale...), insomma dialogo con contatto visivo costante, senza interrompere, osservando il linguaggio del corpo altrui, chiedendo chiarimenti e il permesso per dire la propria opinione. 3) Doni: non grandi regali ma piccole cose e gesti frequenti e sentiti, cioè personalizzati (un biglietto affettuoso, un fiore inaspettato, un piatto speciale, una canzone azzeccata...). 4) Gesti di servizio: partecipare ai lavori di casa e non, gratuitamente, facendoli insieme (dalla lavatrice ai piatti, dal mettere i panni sporchi nella cesta a sparecchiare la tavola, dalla spazzatura alla spesa...). 5) Contatto fisico: gesti affettuosi, da una carezza data senza motivo a un abbraccio quando si rientra a casa, da un bacio sugli occhi stanchi la sera a uno sulle labbra uscendo di casa, dal prendersi per mano in pubblico al saper ascoltare il corpo dell’altro nell’intimità amorosa. Chiaramente ogni linguaggio va adattato al tipo di relazione e all’età delle persone: saper amare in fondo è imparare ad usare tutti i linguaggi con naturalezza.
Avendo ognuno di noi uno o due linguaggi privilegiati, se non conosciamo quelli delle persone vicine, anche se li «amiamo», non riusciremo a farli «sentire amati». Anzi magari ci e li colpevolizzeremo se non rispondono, ma stiamo semplicemente parlando lingue diverse. Se l’amata preferisce il «tempo di qualità» un uomo non può cercare sempre e solo il «contatto fisico». Se un figlio ha bisogno di «parole di incoraggiamento» non serve sbrigarsela facendogli «doni». Sono esempi generici: occorre osservare, chiedere, provare, e poi stilare la graduatoria dei cinque linguaggi, propria e di ciascuno, per impegnarsi a usare quello adatto a riempire il serbatoio dell’amore altrui, uscendo dal proprio modo di amare e imparando anche gli altri: questo fa maturare sé e la relazione. Ho alunni a cui serve una mano sulla spalla, altri a cui fa bene un «sono fiero di te», ad altri devo regalare un libro e ad altri ancora offrire un caffè a tu per tu. Ognuno può ricevere amore solo nella lingua in cui riesce a comprenderlo: la porta delle persone si apre solo con la chiave adatta alla loro storia, non esiste il passepartout. E la persona, nella sua unicità, emerge e si consolida solo quando si sente dare del tu dall’amore.
Quando i miei genitori hanno festeggiato un importante anniversario di matrimonio, noi figli abbiamo recuperato, da una scatola che ritenevano ben nascosta, le loro lettere. Le abbiamo rilegate in ordine cronologico in un libro che abbiamo regalato loro. Noi figli non le abbiamo lette (o quasi...), per rispetto della loro intimità, ma quelle righe, scritte a mano con cura e trepidazione, erano la futura storia di ciascuno di noi. Non sarà possibile farlo con le mail e i messaggi WhatsApp, a meno che non decidiamo di prendere carta e penna. Avete mai scritto una lettera (magari a mano) a vostro figlio, ai vostri genitori? Io lo consiglio sempre a chi non riesce a confidarsi faccia a faccia. Una mail dopo un po’ non si rilegge e non si conserva, al contrario di una lettera scritta a mano. Queste sono «le basi della vita» e richiedono una calma creativa. In questo nostro tempo, troppo veloce e ingolfato, forse proprio per zittire l’urlo del cuore vuoto, così come per pensare bisogna fermarsi a pensare, per amare bisogna fermarsi ad amare.
Il letto da rifare è trovare il tempo, un poco ogni giorno, per immaginare, e poi realizzare, un gesto quotidiano per ogni relazione fondamentale, in base al linguaggio dell’amore principalmente usato dell’altro. La manu-tenzione dell’amore si fa con gli strumenti giusti, e così l’amore cresce, altrimenti, pur con tutte le buone intenzioni, l’improvvisazione e la routine ne diventano la fatale mano-missione.

venerdì 11 gennaio 2019

A Fabrizio

Tra le sue tante, ho scelto questa. Oggi, da un paio di decenni, lui ne sa più di quanto sappiamo noi. A dimostrazione che, per sapere, non c'è altra via che morire.
Un Blasfemo
Mai più mi chinai, e nemmeno su un fiore,
Più non arrossii nel rubare l'amore
Dal momento che Inverno mi convinse che Dio
Non sarebbe arrossito rubandomi il mio.
Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino
Non avevano leggi per punire un blasfemo,
Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
Mi cercarono l'anima a forza di botte.
Perché dissi che Dio imbroglìò il primo uomo,
Lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
Nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
A ignorare che al mondo c'è il bene e c'è il male,
Quando vide che l'uomo allungava le dita
A rubargli il mistero d'una mela proibita
Per paura che ormai non avesse padroni
Lo fermò con la morte, inventò le stagioni.
Se furon due guardie a fermarmi la vita,
È proprio qui sulla terra la mela proibita,
E non Dio, ma qualcuno che per noi l'ha inventato,
Ci costringe a sognare in un giardino incantato.

lunedì 7 gennaio 2019

Su un libro di poesie

Commentare una poesia non è facile.
Chi la propone vede qualcuno o qualcosa in un modo tutto suo proprio, con una visione assolutamente personale; difficile per chi la legge riuscire a riproporsi gli stessi sentimenti, lo stesso vedere del poeta.
Questo per una singola poesia; quando si va a leggere un libro intero di poesie dello stesso autore, ci si trova ingarbugliati in una ragnatela di 'cosa' in ognuna egli intendesse dire, e di mai finiti 'perché' che a loro volta aprono a mille altre domande che restano tali, senza mai trovare una risposta.
Invogliato da un amico, appassionato lettore e altrettanto ferrato scrittore, ho acquistato un libro di poesie che lui aveva recensito con la passione che gli è congeniale verso tutte le opere che non abbiano una sola possibilità di lettura, vincolata da una trama troppo preconfezionata su binari da cui non è possibile deragliare, con prologo-cuore-epilogo tracciati su un unico filo conduttore che, pur essendo di possibile splendida lettura, non dà l'uggia di svariare al di fuori di fantasie correlate ai singoli testi.
Il libro è di Nicola Vacca, scrittore che non conosco né di persona né per altre sue opere precedenti, salvo qualche assaggio in letture veloci e, lo confesso, poco attente. Ho sette libri in lista d'attesa, me li sto sciroppando uno per uno e, almeno per un po', non ne voglio aggiungere altri.
Potrei non avere tempo a sufficienza per cominciarli, figuriamoci per finirli...
L'ho preso per curiosità, visto che nella recensione citata, queste poesie erano presentate non come porta in entrata di un sapere ridotto a singoli pensieri, ma come portone in uscita di dubbi, e relative domande, velati da una forma di amarezza e speranza.
In questo libro Vacca applica l'antica prassi (mefistofelica) del lancio del sasso in un lago che già tracima di dubbi e domande, con l'invito al lettore a seguire i cerchi concentrici fino al loro infrangersi sulle sponde.
Cerchi che si dissolvono in un nulla senza possibilità di recupero.
L'Autore si definisce laico, ma nelle sue poesie non esita a scivolare nell'agnostico.
Da laico osserva ed espone un suo pensare, non fa nulla per nascondere il suo non credere, pur lasciando apertamente capire che il suo è un agnosticismo sui generis: non crede ma vorrebbe credere, non crede ma vorrebbe sapere, non crede ma vorrebbe sperare di poter credere.
Il credente verace crede: punto e basta. Evita di fare e farsi domande su quello in cui crede, è granitico nella sua convinzione e difficilmente si riescono a iniettare in lui interrogativi, per altri umanamente accettabili, magari discutibili. Neanche nel senso corrente del pourparler., di parlarne per parlare.
Un poeta, vedendo, che dire, una nuvola, ne descrive sì la morfologia aerea, ma ne propone una visione più eterea, esprime la sensazione personale che la detta nuvola gli dà; chi lo legge capisce perfettamente sia la descrizione fisica che qualche spicchio di quelle sensazioni. Soggettivo il testo della poesia, soggettive le interpretazioni che ciascuno le dà.
Il poeta magari fa intravvedere dietro una nuvola, per nera che sia e gravida di piogge temporalesche, il sole che, superata questa, effettivamente deve esserci.
Nicola Vacca, in queste sue poesie va oltre, molto oltre.
Arrivato al sole non si ferma, e non si ferma neanche di fronte all'immensità dell'universo che gli si prospetta... Nicola vuole (vorrebbe) arrivare al nulla, a un niente che dovrebbe essere punto apice di un tutto che a noi appare limitato e irraggiungibile.
Non che creda che quell'apice possa essere Dio, e i motivi per tenerlo lontano da questa ipotesi sono ben evidenti. Ma la ricerca di quel grammo di salvezza, che dà il titolo al libro, deve assolutamente ricevere un riscontro.
Altrimenti non avrà mai pace.
Avrebbe reso più semplice la lettura se anziché un grammo di salvezza avesse voluto cercare un grammo di speranza.
Grammi di speranza sono tutti gli atti umani che ci fanno gonfiare il cuore, che ci rendono orgogliosi di far parte di questa umanità: gli eroi che, consapevolmente, gettano alle ortiche le loro vite per salvarne altre; samaritani anonimi che donano senza chiedere nulla in cambio; la natura che ci circonda; il sorriso innocente di un bimbo; una guarigione inaspettata... e altri enormi piccoli riscontri, ormai sempre più rari nel vivere odierno...
Piccoli petardi, micette, a confronto delle bombe atomiche di cattiverie, di malvagità, di soppressione di vite, di supremazie degli uni su altri...
Che però infondono la comunemente detta speranza.

Vorrei solo differenziare la speranza dalla salvezza. Per come la vedo io, quindi senza impegno e senza autorevolezza alcuna. 
Vacca, in queste poesie, non parla di speranza, e neanche di speranza di salvezza.
La speranza, nella prospettiva teologica, è un dono di Dio, che la concede come strada che a lui conduce. Con fede e carità, è uno dei pilastri della religione cristiana.
A parte la fede, che riguarda il credente nel proprio intimo, penso che la speranza come la carità abbiano bisogno di fisicità umane per raggiungere uno scopo credibile.
Quelle stesse fisicità che le rendono, tra l'altro, veramente universali.
Vacca fa precedere alcune poesie da richiami a Scritture, antiche e nuove, con particolare riguardo al Qohèlet del Testamento antico, all'Apocalisse, a filosofi che del pessimismo hanno fatto veste, senza peraltro disdegnare le proposte di profeti e studiosi del Testamento nuovo.
Il che farebbe pensare che la ricerca del suo grammo di salvezza sia orientata verso un Dio, mai chiaramente definito.
Instillando alcuni dubbi che si guarda bene dal dissolvere.
Il dio che lui cerca sarà quello ampiamente presente nell'Antico Testamento?
Non mi pare che quel dio proponga mai offerte di salvezza. È un dio che passa il tempo a punire l'essere umano che lui stesso ha creato, per mancanze e peccati difficili da individuare. Quando premia, lo fa dopo avere fatto provare i sorci verdi a quelli che, a suo dire, sono i suoi prediletti. Non a caso tra le citazioni in prologo a una poesia è citato Giobbe, passato alla storia come simbolo di pazienza oltre i limiti dell'umana sopportazione. Era una prova, dicono i racconti dell'epoca... ed erano prove tutti i disastri colà raccontati? Prove e castighi, raramente premi o riconoscimenti benevoli di un agire a lui gradito.
I santi non erano ancora stati inventati, per cui pensare che tutto il genere umano fosse dissoluto e peccatore (quindi degno delle peggiori punizioni) non è fantasioso.
Il Nuovo Testamento sembra portare le novità della misericordia e del perdono.
Qui Vacca, in alcuni altri preamboli alle poesie, raccoglie i messaggi di salvezza con citazioni dai Salmi, riferimenti a Profeti e studiosi della religione, e pure di santi o filosofi che fanno presagire qualcosa di diverso da quanto offerto dal dio dell'Apocalisse.
Parole.
È cambiato l'approccio, ma la sostanza è rimasta invariata: non si spiegano altrimenti i cataclismi che continuano a martoriare questa nostra Terra.
Potrebbe essere questo, il Dio cui il poeta chiede quel grammo di salvezza?

"Almeno" un grammo di salvezza: il minimo sindacale per una richiesta del genere.
Ma si tratta di un grammo che non è una semplice misura di peso.
È un grammo pesantissimo, che ha alle spalle migliaia di anni di dubbi, stracarico di punti interrogativi che lo scorrere dei secoli non ha minimamente scalfito; anzi, la loro crescita temporale ha rafforzato domande e richiesta, sempre più pressante, di almeno una risposta.
Almeno una, il peso di un grammo.
La speranza è attesa: che qualcosa, o qualcuno, dia questa risposta.
La salvezza è certezza: se questa risposta raggiungesse lo scopo di cancellare ogni dubbio, questa sarebbe la salvezza.
Ma quel grammo è pure leggerissimo...
Contravvenendo a ogni legge fisica a noi conosciuta, nonostante il suo peso infinito, sale verso il cielo, supera le nuvole della poesia, oltrepassa anche il sole, ignora il nostro firmamento, per ritrovarsi vagante in quel nulla in cui, forse, c'è il tutto.

Forse Vacca non pensava a questo, e se la mia lettura non collima col suo pensare è solo colpa della mia fantasia bacata, che sovente mi spinge oltre, bollicina di sapone che si aggiunge, in maniera sciocca, a perplessità che magari non esistono nelle menti sane.

martedì 1 gennaio 2019