mercoledì 11 marzo 2020

Danni collaterali

Una delle conseguenze del Covid-19 è il danno economico che questo malanno sta causando, il cui peso emergerà più chiaramente quando l'emergenza sanitaria sarà finita.
Emergenza economica che, comunque, già si rileva pur se ancora in fase embrionale.
Le varie associazioni che difendono gli interessi delle singole categorie già tirano giù i conti cominciando, in ordine sparso, a chiedere al governo sovvenzioni a sostegno dei propri iscritti o genericamente collegati ad esse.
La prima categoria a chiedere un intervento immediato è quella del commercio, al minuto e all'ingrosso.
Gli uffici preposti stanno lavorando ad un elaborato che dovrebbe dare fiato a coloro che dal virus hanno subito danni diretti.
La chiusura di esercizi è all'ordine del giorno e supera di gran lunga non solo la lista dei decessi ma financo quella dei contagiati, sintomatici e asintomatici.
La proposta iniziale degli uffici preposti alla valutazione del danno collaterale subito si articolerebbe su un ragionamento che pare non faccia una grinza. Tendente a unificare sotto una singola formula le quantificazioni via via presentate per danno subito.
La formula è molto semplice.
Per ogni richiesta di sostegno, o supporto alla ripresa, verrebbe valutata la denuncia dei redditi degli ultimi dieci anni; il totale sarebbe diviso per dieci per ottenere una media ponderata del reddito dichiarato. Infine questa media sarebbe divisa per 365/366 e poi moltiplicata per il numero di giorni di chiusura o altro danno subito.
Si conterebbe così di ridurre sensibilmente eventuali richieste che esulano da quello che fu il guadagno realizzato in tempi, non dico rosei, ma perlomeno relativamente calmi.
Infatti, se a fronte di richieste di danno autovalutate in 10.000 € a settimana, dovesse emergere una dichiarazione di guadagno medio annuo di 20.000 €, i conti non tornerebbero.
Senza andare a sfruculiare su come, a fronte di guadagni prossimi alla soglia di povertà, con queste cifre siano stati possibili acquisti immobiliari, per investimento o per allargamento dell'attività,  cambio auto, spese fuori sede per figli universitari, qualche vacanza esotica o perlomeno una crocierina ogni tanto, e altre spesucce che, con pari cifra (ma tassata alla fonte) nessun dipendente si sognerebbe di affrontare.

Il primo accenno, non ancora bozza, di questo studio è stato immediatamente contestato dalle associazioni; sulla base di quali sottili ragionamenti non è dato sapere, segreto d'ufficio, privacy, dicono gli addetti ai lavori.
In una specie di controproposta, le associazioni hanno avanzato l'ipotesi di accorpare ai loro guadagni autonomamente dichiarati (e supportati dalla parola d'onore sulla veridicità dei dati forniti) quelli dei dipendenti fissi, di quelli stagionali e anche di quelli a chiamata giornaliera.
Precisando che, sia dei loro che di questi, fosse preso in carico il lordo imponibile, senza tener conto delle detrazioni che, con l'aiuto di commercialisti addottorati, hanno falcidiato il loro guadagno effettivo ufficialmente dichiarato. Avendo i dipendenti, tolta qualche spesa sanitaria ammessa e senza l'aiuto di tributaristi, goduto appieno dei soldi in entrata.
Se questa tesi riuscisse ad essere credibile e fattibile, la perdita subita avrebbe tutt'altro peso, e tutt'altro peso avrebbe il relativo risarcimento per il danno subito.
E finirà per passare, troppo fuori dalla logica per non passare.

(L'invito pressante a "stare a casa" concede ritagli di tempo per pensare, e tra quei ritagli ogni tanto emerge l'esame di una situazione straniante, per cui, in attesa che la parte sanitaria si risolva, elucubrare qualcosa aiuta a passare il tempo. Ovviamente non sono in corso gli studi citati, ovviamente sull'onestà dei contribuenti autonomi non ci piove, ovviamente alla fine di tutto ci saranno furbi che rideranno. Mai successo, ma, si sa, a tutto c'è sempre una prima volta).



martedì 10 marzo 2020

A m'arcord

"Mi ricordo", poi assemblato da Fellini in Amarcord nell'omonimo film, divenuto sinonimo dei ricordi personali, il più delle volte nostalgici e amaricanti.
Già all'uscita di quella pellicola, nel '73, lo avevo tradotto, a mio uso e consumo, in Amari ricordi, visto che all'epoca ricordi dolci del mio passato ne avevo pochissimi.
Col passare degli anni il conto di questi ricordi è poi andato quasi in pareggio, tanto da consentirmi di pescare alla cieca, trovandone di dolci anche in situazioni di convivenza lavorativa.
Da tempo cercavo la lettera che segue questa presentazione, mi ero quasi convinto di averla buttata, pur essendo questa operazione lontanissima dal mio modo di conservare le cose, soprattutto se simpaticamente piacevoli.

L'ho ritrovata quasi casualmente, dentro una scatola da scarpe, tra l'altro bene in vista, con altri biglietti di auguri vari, cartoline di saluti (che allora ancora si usavano), qualche "santino" listato a lutto di persone care che mi hanno preceduto, e il cui ricordo non ha bisogno di essere supportato da immaginette, tanto è impresso a fuoco nel mio cuore.
Racconto sommariamente (chi ci crede, non mi conosce...) da cosa è nata questa missiva, che risale alle feste natalizie del 1989.
Nella primavera di quell'anno, dopo oltre 24 anni di fedele servizio presso una società, avevo ricevuto il lampo, assolutamente inatteso, una "vocazione", una chiamata impossibile da rifiutare.
Oltre al fedele servizio suo diretto, la mia casa madre mi aveva appioppato, su esplicita richiesta delle interessate, una specie di collaborazione extra moenia, con altre due sue consorelle, non concorrenti dirette pur operando nello stesso ramo, che mi avevano cooptato non tanto per meriti miei particolari quanto per motivi logistici ed economici.
I rapporti con queste erano gli stessi che con la società che mi aveva in libro paga, soprattutto quelli con i dipendenti fissi di questi due gruppi; che, con la frequentazione telefonica quotidiana e quella fisica un po' di volte nel corso dell'anno e degli anni, erano divenuti rapporti di cordiale amicizia.
Dopo quegli anni di onorato, rispettato, leale e, per certi versi, divertente servizio, una sera a casa mi era arrivata una telefonata, sintetica ma precisa:
"Ci interessi, a te interessa?", così tronca, senza tanti fronzoli.

(Ho un amico ferrarese, che a ogni domanda precisa riguardante, che so, un piatto, un film, una canzone, una città, una ragazza... proposta con un "Ti piace?", risponde invariabilmente con un
"Veh!" che lascia il tempo che trova; io ci casco sempre con "Ma veh! sì o veh! no?"; bisognerebbe distinguere l'intonazione di quel veh! per avere la risposta immediata all'una o all'altra versione, e io questa sottigliezza vocale non l'ho ancora individuata).

Di sicuro, alla domanda telefonica avrò risposto affidandomi a un termine straniero, di quelli che ci consentono di non passare per parolacciai scostumati, altrettanto tronca:
"Cazzo!".
Dall'altra parte: "Ma cazzo sì, o cazzo no?".
"Cazzo e stracazzo, sì!".
Come non ho detto, era una di quelle proposte che non si possono rifiutare, senza bisogno di teste di cavallo fatte trovare nel letto, a sollecitare una risposta positiva.
Detto fatto, avevo cambiato casacca.
Senza concorsi o test di ammissione che, se richiesti, mi avrebbero tagliato da subito le gambe e rispedito alle origini.
Solo successivamente, alla firma su un contratto, avevo appreso che avevano accumulato su di me tutte le informazioni utili; vita e miracoli risultava che di me sapevano già tutto..
Vita e miracoli... morte, toccando tutt'ora ferro, no.
All'indomani avevo comunicato al mio capo galattico l'offerta ricevuta.
Telefonicamente dispiaciuto, mi aveva chiesto se avevo già deciso in merito.
Nel rispondere era emerso il mio lato femminile, mentendo come solo le donne sanno fare (superate, peraltro, in questo dai politici e dai parcheggiatori abusivi), avevo dato per "ci sto pensando" una decisione già presa d'emblée.
Gli avevo poi mandato due righe, quasi a giustificare il mio "tradimento", in cui attribuivo al desiderio pre-senile di verificare se davvero l'erba del vicino era più verde, il taglio a un passato collaborativo durato cinque lustri, incredibilmente senza screzi importanti, visti i nostri caratteri occasionalmente spigolosi, con sporadici umani periodi di tensione.
Un paio di mesi dopo ero pienamente operativo, nel percorso che mi era stato assegnato, con le stesse modalità di quello precedente, solo con altra maglietta e altro numero di matricola.
E, nota secondaria assolutamente insignificante, altre condizioni economiche, che peraltro non avevano avuto alcun peso importante nella decisione (qui è ancora il mio lato femminile che prevale; però mascolinamente qui arrossisco leggermente...). 
Ma la nuova matrigna (detto in modo affettuoso), aveva voluto l'esclusiva assoluta del mio tempo e della mia, modesta, opera.
Per cui avevo salutato i precedenti amici per andarne a conoscere di nuovi.
Tra quelli lasciati ci sono i due "delinquenti" che mi hanno mandato questa lettera, rimasta nel cuore e nella mente, nonostante siano passati oltre vent'anni.
Spero sia leggibile, poiché per metterla in post ho fatto i salti mortali, non ne voleva sapere di riprodursi, e stavo per rinunciare; poi ce l'ho fatta entrare, malamente, smanettando qua e là, e non so neanche il percorso seguito.
Al limite chi la volesse leggere ingrandisca con le opzioni in alto a destra o con una lente, e buona lettura.
Ho sbianchettato le parti riportanti le varie ragioni sociali interessate, che sarebbero marginali al post e darebbero indicazioni che, almeno per ora, voglio tenere nel cassetto.
Prendendo con le pinze tutti i termini 'adorativi', che sono una chiara (mi affido ancora ai benemeriti termini stranieri), affettuosa, presa per il culo. 

La frase della lettera che mi fa ancora sorridere da un lobo all'altro è quella riferita al fatto che
"... se ce l'hai fatta tu, perché non possiamo farcela anche noi?".

Roberto e Salvatore non sapranno mai quanto quello sfottò fosse veritiero.
Mi piacerebbe dire ai giovani d'oggi: "Se ce l'ho fatta io, potete farcela anche voi", senza falsa modestia, ma i tempi sono cambiati, troppo diversi dai miei, e oggi questa frase, a fronte della disoccupazione che maciulla tutte le capacità e tutte le intelligenze, di giovani e meno giovani, suonerebbe veramente come un ignobile, assurdo sfottò.
La posso solo offrire come un invito alla speranza, che qualcosa cambi e che le persone che meritano riescano a imbroccare la strada giusta, quella strada che consenta di vedere e vivere un futuro dignitoso.

martedì 3 marzo 2020

Umberto

Un nome pescato a caso nel calderone dei ricordi, per titolare questo breve racconto.
Se vado a cercare gli Umberto conosciuti ne trovo una sfilza, perloppiù gente importante: un re (minuscolo, per come è passato alla storia), un oncologo, un poeta, uno scrittore, un politico (Terracini, per dirne uno), un cantante, un attore… e via andare, su questi livelli.
La fantasia mi consente di sentire, come uno stormir di fronde, sulla destra, lontana, una voce stentoreamente gentile, che mette i puntini sulle “i”, anche se in quell'Umberto queste non sono presenti:
“Uhe, bauscia, de Umbert ghe n’è dumà v’un,  tuc i-alter sun nisciun. Pirla!”.
Da un qualcosa sulla sinistra, che non si capisce se sia una quercia, un ulivo o un tappeto di papaveri, quasi a far da contrappeso, un delicato ammonimento, una specie di cartellino giallo:
“Dannato gattaccio, se in questo post ti azzardi a parlare di quell’Umberto mi fermo qui, ritiro gli ambasciatori e ti faccio arrosto. Ho smesso di mangiare i bambini, ma un gatto con patatine al forno non è scritto da nessuna parte che non me lo posso fare. Gatto avvisato…”.

No, non voglio parlare di quell’Umbertochetuttiglialtrisonnessuno.
Che, tra l'altro, all'epoca del racconto aveva ancora i calzoni alla zuava ed era studente modello... dicono le biografie.
Il mio Umberto è quello che per antonomasia si dice 'una persona comune'.
Un po’ fuori dal comune, a dire il vero; per questo lo voglio qui raccontare in modo più specifico, dopo averne accennato in un vecchissimo post.
Vado ai tempi del periodo lavorativo, con colleghi che erano tutti macchiette, che la lunga frequentazione ha stampigliato indelebili nella memoria.
Con una precisazione, forse ignorata da ciascuno nella propria singolarità, che vede macchiette tutti gli altri e quasi mai se stesso: eravamo tutti macchiette.
Sarebbe bello sapere, per esempio, che ricordi hanno gli ex colleghi, di quel capo reparto che a suo tempo sovente faceva loro girare le palline e li fustigava spesso sulla schiena con un righello metallico largo cinque centimetri per quaranta di lunghezza (ma solo di piatto). Senza mai ricevere denunce o proteste, neanche da parte dei sindacalisti, pur essendo questi solitamente rompiglioni. Una leggera punta di sadismo che bene si sposava con un diffuso masochismo, forse accentuato da un vago senso di colpa, visto che per buona parte erano dei lavativi.
Simpatici come singole persone, lavativucci sul verbo lavorare.
(Bei tempi; passati; remoti).
L’Umberto mio era…

(Inciso: vado a raccontare con l’indicativo passato prossimo non perché questo Umberto sia scomparso; in realtà non so se lo sia o meno, ma proprio per non defungerlo con un passato remoto, pur se questo in realtà, come detto, remoto è. Ei fu…” è già stato immortalato, e si riferiva, appunto, a un personaggio noto appena defunto; non voglio rischiare di dare Umberto per morto, quando magari è più vivo e vegeto di me).

Dicevo, questo Umberto era nato in una città che, per la legge sulla privacy, evito di citare; vuoi mai che mi scappi qualcosa ritenuto negativo per l’immagine di quel comprensorio, e mi vengano chiesti miliardi di euro di risarcimento all’ipotetico danno morale arrecato.
Però posso dire, senza tema di offendere chicchessia, che il suo logo preferito è condensato in tre parole:
“Turùn, Turàs, Tetàs”
che mi pare sia già un indizio che dice tutto, senza colpo ferire.

Vado a descrivere brevemente il soggetto, sia per la parte fisica che per quella comportamentale, più o meno collegate l’una all'altra.
Una delle sue caratteristiche era il fatto di essere un leghista ante litteram, quando le uniche leghe conosciute allora riguardavano soltanto gli sponsali tra metalli, tipo il piombo con l'antimonio.
Citando la sua città, per descrivere come fosse ormai invasa da elementi estranei, la loggava come
“Terùn, Turàs, Tetàs”
quando i negher , i mandarini, gli albanesi, i marocchini, erano ancora lontani a venire.

Quando era di cattivo umore, ovvero quando qualcuno del capoluogo della sua regione lo ‘urtava’, anche questo qualcuno era dumà ‘n terùn, magari centrando il bersaglio, visto che il peso demografico anche in quella città pendeva da tempo a favore degli “stranei”.
In merito amava raccontare di una battaglia nella sua città, relativa all’aggregazione di una quarta T alle tre esistenti. La scelta pare fosse orientata verso un personaggio che dava lustro alla città, senza bisogno di chiedere poltrone in cambio.
Pur essendo ancora in vita, il candidato indigeno più indicato era Tognazzi. Ugo Tognazzi.
Ma il peso degli “stranieri” era stato tale che il progetto era stato accantonato, per evitare lo scorrere del sangue per le vie cittadine. Infatti, motivando le proposte con la necessità di sprovincializzare, i-alter  avevano messo in campo le candidature chi di Totò, altri ancora di Trilussa.
Secondo l'Umberto mio, el Tugnass sarebbe andato benissimo, ma sarebbe stato la quinta T, dopo quella dei Terun, aggiuntiva anziché sostitutiva ai TurunQuesta quarta T, ormai invadente come e più dell’erba gramigna, sarebbe stata da eliminare; nel migliore dei casi da allontanare, possibilmente con le buone.
Sembrava una boutade, allora...
Il fisico, guarda le combinazioni della vita, sosteneva adeguatamente questa sua missione di protoleghista.
Era alto un metro e un cazzo (come direbbe l'Alighieri) di calibro medio, anche se l’altezza di una persona è sempre una forma di calcolo relativamente soggettiva.
Per dire, se confrontata con quella di un  baskettista, (circa due metri, senza tacchi) preso a caso da un elenco telefonico, la sua era abbondantemente inferiore.
Se confrontata con quella di un noto politico di destra, preso a caso dal solito elenco telefonico (un metro e un cazzo, ma di calibro minuto, forse con i tacchi), sarebbe risultato alto come un corazziere (memento Rascel nel film omonimo).
Più che rotondetto, lo ricordo quadrato.
Come un comodino.
Capelli crespi di un riccioluto cortissimo, fittissimi, nerissimi, tanto che i negher arrivati successivamente lo avrebbero preso come modello ideale per le loro acconciature.
Tra le sue varie caratteristiche spiccava quella della discrezione.
Ogni giorno (che ci fosse il sole, la neve, la pioggia, la nebbia, un tempo così-così…) aveva un problema nuovo da esporre, un’esperienza da raccontare, un consiglio da richiedere, un’indicazione da valutare.
E tutto questo lo dedicava a una persona soltanto.
Per volta.
Tanti eravamo presenti, e, uno alla volta, venivamo a conoscenza del suo dilemma quotidiano.
Data la sua discrezione, alla fine di ogni “confessione” singola, la raccomandazione costante a ciascuno era:
“Me racumandi, al dis a lu, che è persona per bene, ma non ne parli ad altri, non credo che capirebbero...”.
Per  raggiungere le ‘vittime’ delle sue confidenze aveva una tattica particolare. Aspettava che un collega, qualunque, fosse prossimo alla macchinetta del caffè, o all’uscita dallo spogliatoio, o dal bagno, che fosse intento a valutazioni private, purché solitarie, dei propri problemi: mollava tutto e si lanciava in fretta e furia a braccarlo.
Iniziava l’esposizione del suo guaio contingente e non lasciava andar via il malcapitato se questi non aveva sorbito fino all’ultima goccia di contenuto del suo calice. 
Solitamente amaro.
Se si avvicinava un terzo, interrompeva il monologo e si allontanava, promettendone la ripresa a quanto prima possibile.
A me aveva riservato un rapporto privilegiato: ero di solito tra i primi a cui si confidava, nonostante questo rapporto fosse stato, dal primo momento, una sottilmente formale presa per i fondelli.
Forse reciproca.
Intanto, su una trentina di colleghi di contatto quotidiano, era l’unico con cui dall’inizio alla fine della colleganza lavorativa il “lei” era rimasto invariato. E pure la chiamata col cognome...
Reciproci pure questi.
Inoltre, come introduzione all'esposizione dei suoi problemi, se a questi era previsto seguisse un consiglio o un parere da elargire, la sua frase di approccio era sistematica:
“Senta, mi è capitato questo e questo; secondo il suo modesto parere…”, ecc.
La prima volta che avevo sentito del peso dato a priori a un mio eventuale (peraltro giustamente modesto) consiglio, avevo accettato che fosse, come detto prima, una birichina presa per il sedere, scherzosa, e avevo ignorato, senza reagire.
La seconda volta (o forse anche la terza o quarta) che la ‘modestia’ dei miei pareri era ormai consolidata, incassavo questo suo incipit, adeguando le risposte.
Se il consiglio richiesto dava la possibilità di scelta tra una ipotetica linea A e una linea B, in netto contrasto tra loro, gli offrivo quella che (sempre a mio modesto parere) era la più negativa, la meno probabile, la assolutamente impossibile andasse a buon fine.
Credendo ogni volta di avere così risolto perlomeno il problema della rottura di marroni; avendolo indirizzato malamente alla soluzione del suo, di problema, con il logico tracollo della fiducia nei miei ‘modesti’ pareri.
Troppo semplice.
Si dice: il vino buono sta nelle botti piccole.
Anche la malignità, se è per quello. Ve lo dice uno che in merito la sa lunga, per esperienza diretta... 
E Umberto di quella straboccava.
Regolarmente, tempo dopo, veniva a raccontarmi di avere risolto il problema allora esposto, proprio seguendo il mio (sempre modesto) parere elargitogli.
Avevo l’impressione che fosse un adepto del sub-flippismo(*) più raffinato.
E mi sentivo ogni volta, e sempre più, preso per i fondelli, ed era un'impressione che ormai saliva fino quasi a punzecchiarmi le tonsille.
Un episodio, da lui raccontato a tutti nel solito modo discreto, mi è rimasto impresso e, in verità, inizialmente era stato un ulteriore, leggero, colpo alla già scarsa immagine che mi ero fatta del suo quoziente di intelligenza.

(*) Breve pausa, anche per allentare la tensione che, forse, questo prologo può aver provocato.
Il flippismo (per i pochi che non sanno cosa sia) è una teoria filosofica che invita ad affidare al 'caso' ogni scelta o decisione, importante o meno, che presenti almeno due possibilità di soluzione. Contrariamente ad altre forme filosofiche, opinabili, questa, nella sua semplicità, offre una soluzione a tutto, senza ricorrere a ghirigori semantici che possono prestare il fianco a interpretazioni varie e soggettive. La sua semplicità si riassume nel lancio della moneta che, con il classico testa/croce dà l'indicazione precisa alla scelta o decisione migliore da prendere. Non ha una garanzia di riuscita, che peraltro non hanno anche le altre filosofie.
Fin qui mi sembra chiaro.
Esiste poi un sub-flippismo che, non fidandosi più di tanto della casualità offerta dalla filosofia madre, dà la possibilità di aggirare l'indicazione primigenia, optando decisamente su quella contrapposta. Esempio semplice: arriviamo a un bivio stradale, senza tom-tom o altri navigatori tecnologici o carte stradali che dicano da che parte andare; si lancia la monetina, testa-a-destra/croce-a-sinistra. Esce testa e il flippista puro segue fiducioso l'indicazione e si incammina a-destra; il sub-flippista non si fida e se ne va deciso alla via di sinistra. Ritenendo così di fregare il 'caso' che, a sua volta, seguendone l'immediata dritta, sicuramente lo avrebbe fregato.
La versione pura del flippismo è molto usata dai politici, soprattutto quando non sanno bene, o non sanno del tutto, che pesci pigliare, che decisione prendere per il 'bene' della comunità che amministrano. La versione sub viene attivata ogni volta che la prima scelta dà l'impressione di rispondere a una logica troppo alla portata di tutti. Politica, economia, uso delle (scarse) risorse disponibili... tutto sottoposto alla piattaforma divina dell'anti-caso.
Il flippismo è nato da una intuizione, anzi proprio da un'invenzione, del noto professor Picchiatelli, che nei primi anni '50 aveva pubblicato un dotto trattato dedicato all'argomento, pubblicato a spese dell'altrettanto noto editore/filantropo/mecenate Walt Disney nella prestigiosa enciclopedia divulgata nel mondo come "Mickey Mouse" e in Italia come "Topolino". Nella parte illustrante il flippismo, il prof citato la propone a Donald Duck (per noi Paperino), in cambio di un dollaro, e che questi sperimenta, in verità con scarso successo, in capitoli seguenti.
Il sub-flippismo viene introdotto da un anonimo a corredo di un post in cui le strane scelte di un collega, ivi descritto, cui non riusciva a dare una valida spiegazione (anche a causa della sua scarsa fantasia), hanno provocato la creazione di questa subdola modifica al tema principale, che tra l'altro già stava bene di suo. 

Torniamo alla sua confidenza specifica.
Una sera, molto sul tardi, dopo avere portato un botolo suo simile a fare i bisognini corporei in un prato adiacente la ferrovia, rientrava verso casa con l'obbrobrio di cane al guinzaglio.
Era una sera nebbiosissima, che i lampioni a lato della strada rendevano spettrale.
Nel suo incedere prudente e solitario (a parte il cagnetto), in un rettilineo aveva percepito, ovattato dalla nebbia, uno strano cigolio; avanzando ancora, aveva notato, tra le auto parcheggiate in fila indiana una appresso l'altra, che una di queste aveva sobbalzi anomali, tipo quando si tenta di avviare una vettura con la marcia inserita.
Con movimenti sussultori, con alternanze ondulatorie. 
Da pensare più a un mini terremoto che ad altro…
Curioso più d’un gatto, non si era allarmato, anzi si era avvicinato, scostando la nebbia come fosse la tenda di una finestra.
Accostandosi, aveva intuito che quella vettura nascondeva un’alcova.
“Ostia, chi ciùlen!”, aveva esclamato tra sé e sé, continuando con falsa indifferenza il suo cammino.

(Altro inciso: Ostia, lo sanno tutti, è Roma Marittima, da tempi antichissimi, non è cosa nuova. Come non è nuova la pratica cui lui aveva pensato e poi apertamente citato; pare sia antichissima pure quella, tanto da non richiedere traduzione: si riferisce chiaramente ad un’attività che tutte le casalinghe, ma anche le suore, conoscono bene e che, di solito, salvo strani malesseri occasionali, svolgono con ardore e amore [quest'ultimo non indispensabile]. Ed è una di quelle poche mansioni cui partecipano volentieri i partner, ma anche i frati, senza brontolare).

Lui e il suo botolo avrebbero forse proseguito, magari fischiettando (lui) per evidenziare la sua indifferenza al probabile spettacolo hard, ma lo spostamento improvviso della nebbia gli aveva fatto prendere un colpo.
Quella macchina era la sua, e i cigolii e gli squassamenti erano provocati da qualcuno che al suo interno faceva goga-mi-goga.
Quasi incredulo per la profanazione della sua vettura, si era accostato quel tanto sufficiente a sbirciare all’interno, per vedere…
Quello che nessun padre vorrebbe mai vedere.
Sua figlia che, forse per ripararsi dal freddo, si era coperta con un tizio, presumibilmente un uomo, a lui, Umberto, sconosciuto. Aveva specificato che visto dal 'cu' (con la francese) , il vero sesso della copertura non era visibile; intuibile sì.
Qui torno a quello che prima ho definito un colpo all’immagine che mi ero fatta del suo quoziente intellettivo: aveva proseguito, con l’indifferenza messa a dura prova dal cuore che batteva a mille.
Per come lo conoscevo, avrei giurato che si sarebbe fermato, facendo un macello, perlomeno verbale. 
Invece no; e, così facendo aveva leggermente ritoccato la mia valutazione del suo QI.
In meglio, sì, ma questa era talmente bassa che anche col ritocco restava ampiamente sotto la linea di pareggio.
Peraltro raccontando l’episodio all’urbe, all’orbe e ai sordi tutti, era prontamente rientrato nei parametri già noti. Forse aveva richiesto esplicitamente un 'modesto' consiglio in merito a quanto avvenuto; se lo ha fatto, sicuramente avrà domandato se non fosse il caso di cambiare macchina (A), visto il cigolio lamentoso che questa esprimeva, oppure portarla semplicemente a grafitare (B).
Avevo consigliato la A, pensando gli potesse portare disagio usarla dopo la profanazione.
Sub-flippiscaniamente l'aveva forse fatta grafitare, e la teneva, a pensarci bene, come una reliquia, come il fuori onda che segue spiega con dovizia di particolari.
Peccato che all'epoca non fossi ancora sufficientemente maligno, altrimenti in vece della grafite avrei suggerito l'uso della vaselina, che allora andava alla grande; per lubrificare gli stantuffi delle sospensioni, senza macchiare più di tanto i tessuti limitrofi, era la trovata del secolo.
   
Fuori onda.
Dopo un post che trasuda buonismo dalla prima all’ultima virgola, il lettore avrà, forse, la curiosità di sapere il finale dell'episodio. 
In verità non lo so, ma la simpatia verso il soggetto mi fa ipotizzare una (piccola) cattiveria.
Rientrando in casa, il buon Umberto, calciato il botolo sotto il tavolo, calmata l’aritmia per lo choc appena subìto, avrà convocato la moglie che, incidentalmente, era una sua copia clonata, e le avrà comunicato quanto scoperto in quella terribile serata nebbiosa:
“Ohi, mijé, t’el set, la tusa el ciula com tuc i-alter donn!”.
Una notizia che per qualunque mamma (pur sapendo che quello è un sentiero da percorrere per quasi tutte le figlie, anche se fattesi suore) sarebbe stato motivo di collassi, pianti, crisi isteriche e stridore di denti, alla moglie era apparsa come la liberazione da un incubo.
La figlia, in effetti, era un incrocio multiplo tra la Mariangela di Fantozzi, il padre, la madre e il botolo. E visto che, con tutta la buona volontà, quattro comodini non fanno un armadio, il sospiro di sollievo della mamma nel sapere che anche questo suo mobiletto, legno del suo legno, aveva imparato a fare le pulizie di casa era più che giustificato.
Si vedeva all’orizzonte la possibilità che andasse a ripararsi dal freddo lontano dalla loro abitazione; un’ipotesi mai presa in seria considerazione, prima di questo evento straordinario. La coperta aveva un'importanza relativa; mi piace pensare che si trattasse di qualcuno facente parte della quarta T del logo cittadino.
Credo che sant'Omobono (nomen omen), patrono della TurùnTuràsTetàsTerùnTugnass, avrà ricevuto fiori e opere di bene come mai da nessun altro.