sabato 30 aprile 2011

Tanto per parlare...

Lamberto Sposini, giornalista, è stato colpito da una emorragia cerebrale. Gli auguro di tutto cuore di superare l’ostacolo e riprendersi al meglio.
Il fatto nostro similare è talmente recente che non posso fare a meno di drizzare le antenne e cogliere tutte le sfumature della vicenda.
Mentre lui lotta per la vita, sono intanto scoppiate le polemiche in merito ai tempi del soccorso, non so da parte di chi e perché; al limite si poteva aspettare che la vicenda si chiudesse, prima di attizzare un fuoco che lascia il tempo che trova.
Pare che il tempo dell’intervento, da parte di chi polemizza, sia stato di 40’; i soccorritori dicono, invece, 19’.
Prendo lo spunto per tornare indietro di tre mesi e dire come sono andate le cose per Angela.
Lo faccio senza venature polemiche; avevo detto, in “Senza bussare”, che appena possibile avrei raccontato quella giornata infame, e mi sembra giusto il momento di farlo.
Sabato 29 gennaio, verso le 9,30 del mattino Angela aveva accusato un violento malessere. Con la sorella l’avevamo stesa su un divanetto, gambe sollevate e aria al viso con una rivista.
Era svenuta, e avevamo notato la bocca distorta, motivo di forte dubbio di ictus.
Chiamato il 118, postato a non più di un chilometro da casa nostra, presso l’ospedale locale, ne avevamo atteso l’arrivo col cuore in gola, come si suol dire e come era in realtà.
Non siamo stati a contare i minuti; per pochi che fossero, sono stati un’eternità, come sempre in questi casi.
Medico, infermiere e autista dell’ambulanza.
Nel frattempo Angela era riemersa dallo svenimento e appariva fortemente agitata.
Pressione, polso, alcune domande per accertare il suo stato di 'coscienza'.
Avevamo segnalato il fatto della bocca storta, ma il medico non ne aveva tenuto conto.
Sintomi di influenza, aveva detto.
Una flebo di Plasil con un calmante, e l’ambulanza se ne era andata, vuota come alla venuta.
Nel primo pomeriggio i dolori alla testa si erano accentuati ed era sempre più agitata, in maniera parossistica.
Essendo sabato, ci eravamo rivolti alla guardia medica.
“Non competente per i ricoveri; chiamate il pronto soccorso dell’ospedale”.
Pronto soccorso, descritti i sintomi, rivolgersi al 118 per il ricovero.
Nuovo 118, una dottoressa, l’infermiere e l’autista.
Pressione, polso, solite domande, endovena calmante per portarla in barella all’ambulanza.
Ospedale: urge una TAC cerebrale, ma bisognava ‘sedarla’ per poterla effettuare.
Si erano fatte le 18, il buio di fuori era un giorno di sole a confronto del buio dentro di noi.
Emorragia cerebrale estesa, chiamata all’ospedale del capoluogo di provincia, l’unico con reparto neurochirurgico, per fermare un posto, due ore e mezzo di ambulanza, con un tempo che nel frattempo si era scatenato con pioggia violenta e vento fortissimo.
Eravamo tornati a casa, Elena ed io, per racimolare qualcosa da metterci addosso in previsione di una fermata notturna; al nuovo pronto soccorso ci avevano avviati al reparto, e in quel momento Angela veniva portata a fare una nuova TAC, stavolta ‘con contrasto’, per individuare la causa dell’emorragia.
Nuovamente ‘sedata’.
Dalla radiologia era uscita l’anestesista, e, senza giri di parole, ci aveva comunicato che Angela era in coma.
Forse stupidamente, forse ingenuamente, avevo fatto ricorso ai ricordi di telefilm a sfondo medico (pochi, poiché odio la spettacolarizzazione della sofferenza) o alle citazioni dei TG, e avevo chiesto se fosse un ‘coma farmacologico’ o un coma suo proprio.
“Suo proprio, inoltre ha un respiro che non mi fa ben sperare”.
Angela, coricata supina, aveva sempre russicchiato (‘russato’ mi sembra troppo da scaricatore di porto, con tutto il rispetto per la categoria), ma non potevo mettere in dubbio il parere di una dottoressa, che sul fatto di respiro sicuramente ne sapeva ben più di me.
Un forte sbalzo di pressione aveva provocato l’esplosione di un piccolissimo aneurisma da cui era fuoruscito il liquido.
Bisognava piazzare un drenaggio per liberare la zona cerebrale e procedere poi all’intervento di chiusura di quel buchetto.
Però, per fare questa prima manovra, era necessaria la ‘coscienza’ della paziente: ‘restando’ in coma, non sarebbe stato possibile.
Rientro al reparto, in attesa del medico della rianimazione.
Verso mezzanotte, questi era arrivato, aveva chiesto il nome della visitanda, e l’aveva chiamata ad alta voce per un primo riscontro.
Risposta di Angela: “Ohhh!”.
A suo modo e con i limiti contingenti, era cosciente.
Evidentemente calmata al mattino, calmata al pomeriggio e poi sedata, ancora sedata nella notte, il torpore da coma aveva prevalso.
E il respiro preoccupante era proprio un volgare russamento.
Dopo una giornata così, finalmente l’efficienza era scesa in campo: verso le due di domenica mattina Angela era tornata in reparto con il suo drenaggio applicato alla testa.
L'intervento riparatorio era previsto per il 1° febbraio.
Un primo passo verso la fine del tunnel, verso la vita.
Nel reparto poteva stare solo una persona per l’assistenza, e si era fermata Elena; perlomeno stava al coperto, vista la pioggia e il vento che continuavano a flagellare la città.
A quell’ora e con quel tempaccio cercare un albergo era utopico; mi ero rannicchiato in macchina, con il riscaldamento acceso, avevo pregato, avevo bestemmiato e avevo atteso l’alba.
Al rientro in ospedale, Angela era ancora sotto sedativi.
Questa è stata la nostra prima di altre lunghe giornate e lunghissime nottate.
Non è un messaggio al buon Lamberto, ma chi polemizza sui "minuti" vorrei sapesse che esiste una metà abbondante del cielo (che non necessariamente si riferisce all'universo femminile) che quotidianamente vive la stessa nostra situazione, e che alle polemiche sopperisce con speranze preghiere bestemmie e attese, poiché altro non le è concesso.
In bocca al lupo, Lamberto, anche se onestamente non posso dire "sei tutti noi".
Per tua fortuna, non appartieni a quella massa abbondante del cielo che non si può permettere di polemizzare sui 19 0 40 minuti del tempo dei soccorsi.
Tutto questo, sempre tanto per parlare...

lunedì 25 aprile 2011

L'alloro

(Secoli fa avevo preparato questo post; interrompo un attimo il racconto dei nostri guai per non mandarlo al macero intonso. Oggi, 25 Aprile, oltre che Pasquetta, è 'anche' l'anniversario della Liberazione. Chi in questa Liberazione è stato coinvolto, il più delle volte suo malgrado, oggi non festeggia: ricorda, e ancora piange chi per questa Liberazione se ne è andato).



Oltre che per le foglie usate per dare un particolare sapore agli arrosti, l’alloro porta il pensiero alle tipiche corone, appunto di alloro, periodicamente riesumate come simbolo di ricordo e onore verso i Caduti nelle guerre, in atti terroristici o in vigliacche rappresaglie, tipiche queste ultime del periodo dell’ultimo conflitto ufficiale. La confezione di queste corone era affidata ai fiorai, ed erano, di solito, ordinate dalle pubbliche amministrazioni.
Essendo con cadenza periodica per date fisse, gli importi erano inseriti nel bilancio di previsione delle spese; l’assegnazione del compito veniva data con la canonica gara di appalto.
Già allora indetta al massimo ribasso possibile, poiché è noto che il risparmio di qualche ‘mille lire’ salva i comuni dalla bancarotta.
I milioni scialacquati già allora erano sempre per il bene dei cittadini; il fatto che finissero nelle tasche solo di alcuni di essi è notoriamente pura demagogia.
Se al fatto di essere la loro confezione più una seccatura che un lavoro di pregio, si aggiungono i prezzi bassi e la ben nota lentezza dei pagamenti, sovente le gare d’appalto andavano deserte.
Oppure, nelle cittadine piccole e medie, ci si affidava al primo fioraio volonteroso che accettasse l’incombenza.
Nel paese in cui operavamo, mia moglie titolare ed io umile servo tuttofare, sia per la prossimità topografica al Comune sia per una certa dabbenaggine, il compito della confezione di queste corone ci era stato affidato non appena rilevato il negozio dalla precedente operatrice (che, tra l’altro, non ne aveva mai voluto sapere).
Forse il Comune, prima di volturare la licenza, ci aveva preso le misure, decidendo che eravamo abbastanza allocchi per meritare l’onore di questa assegnazione.
Si trattava di confezionare quattro corone, per le cadenze fisse del 25 Aprile e del 4 Novembre.
Essendo una città di media grandezza, ma territorialmente estesa, era suddivisa in altrettante contrade, e ciascuna aveva il suo cippo o la sua stele in memoria dei propri Caduti locali.
La prima volta era venuto un vigile urbano, e aveva portato la richiesta del comune, con gli indirizzi di postazione di ciascuna corona.
Successivamente arrivava solo una telefonata di conferma.
Il primo ordine si riferiva a un 4 Novembre, ed era stato inoltrato a noi verso metà ottobre.
Non avendo mai fatto questo tipo di servizio, eravamo dovuti andare in cerca di un fioraio anziano di mestiere, in grado di insegnarci la loro fattura.
Che, a ben vedere, era abbastanza semplice, a parte il tempo che richiedeva.
Con modalità rimaste poi immutate negli anni, finché avevamo tenuto il negozio, la mattina delle due date citate, caricavo in macchina le quattro corone e le andavo a collocare davanti ai cippi.
Erano tutti pressoché identici, nella muratura; cambiavano gli identificativi di complemento: una specie di aquila, forse in ferro battuto, che il tempo aveva reso di un colore nero-verdastro che la faceva sembrare più a un corvo che al nobile volatile; un ghirigoro di foglie, forse di quercia, dello stesso materiale e con lo stesso colorito dell’aquila; a fianco di una stele, situata di fronte a una scuola elementare, c’era un piccolo cannoncino, puntato proprio verso la scuola (che, guarda caso, molti anni dopo sarebbe stato indicativo di quello che della scuola si sarebbe fatto: abbattuta, come a colpi di cannone); una figura vagamente stilizzata, forse femminile, probabile omaggio alle vedove e alle figlie dei Caduti.
Erano otto visite all’anno, ed erano otto volte i pensieri, sempre gli stessi, ricorrenti per ciascun cippo, mentre ne ponevo le corone ai piedi.
"Sono di nuovo qui, a portare una corona a ricordo del vostro sacrificio: lo sapete meglio di me, voi non siete stati eroi, come tra poco l’inclita amministrazione, con tanto di tricolore a tracolla, vi ri-presenterà; siete stati vittime, che ben più volentieri sareste tornate, vive, nelle vostre famiglie, in cerca di una vecchiaia decorosa e possibilmente longeva. Questa corona rende omaggio alla vostra sfortuna, e imbianca la faccia di chiunque questa vostra sfortunata fine ha provocato”.
Se oggi svolgessi ancora quel servizio, direi loro della inutilità del loro (obbligato) sacrificio: volenti o nolenti hanno contribuito, a colpi di fucile ricevuti, a fare dell’Italia una nazione; oggi, quasi senza colpo ferire, la si sta distruggendo.
Ma tant’è, non è compito dei fiorai, tanto meno degli ex tali, filosofeggiare sul passato o sul futuro; oggi c’è chi ci pensa,a modo suo: lavora di piccone e dice di costruire, usa l’accetta e dice di farlo per unire, ha un ampio senso della moralità per convincere che in realtà questa proprio non esiste…
Un altro pensiero ricorrente era proprio personale: ad ogni stele, deponendo la corona ero solo, non dico come un cane, ma comunque solissimo.
Poi nei telegiornali dello stesso giorno vedevo un via-vai di alte uniformi, corazzieri qui, vigili urbani là, carabinieri poliziotti guardie forestali vigili del fuoco ecc., che in ghingheri, a due a due, portavano le corone identiche alle mie, con passo cadenzato, con musica italiota sottofondo e le deponevano con mosse mimate davanti ai vari monumenti; poi l’autorità di turno si appropinquava con passo solenne e viso compunto, dava una toccatina alla corona, quasi a darle vita, e retrocedeva con lo stesso passo, sostando in silenzio per qualche istante, magari seccata per la perdita di tempo impostale dai protocolli, quando avrebbe potuto essere altrove a farsi i fatti suoi.
E ai ‘miei’ Caduti era concesso solo un affarino come me, a portare la memoria di un paese; che poi, sul tardi, venissero i vigili e le autorità a rendere il dovuto omaggio, non cancellava la mia impressione di diseguaglianza, pure verso i Caduti (ribadisco: Caduti, certamente, ma non per la patria, meno che meno per ‘questa’ patria).
La cadenza delle date coincideva con l’arrivo dei mandati di pagamento: così, per la prima esperienza, il saldo era arrivato a metà dell’aprile successivo, giusto in tempo per ricevere la delega alle corone del 25 dello stesso mese; il mandato per aprile era arrivato a metà ottobre, concomitante con l’ordine per il 4 Novembre.
E così via, per la decina d’anni che abbiamo tenuto il negozio.
Per la cronaca: sempre per tenere in piedi il Comune, il prezzo concordato per le prime corone era rimasto invariato fino alle ultime fornite; questo per dire che le amministrazioni, quando vogliono, i collaboratori li sanno scegliere.



(Per l'altra faccenda: Angela sta migliorando, qua e là, lentamente ma migliora. Le notti sono ancora lunghe, infinite: alle due di notte guardo l'ora, tre ore dopo la riguardo e sono le due e tre minuti; comincio a capire il senso del termine 'eternità'. I dettagli poi).

domenica 17 aprile 2011

La quercia

Uno legge il titolo del post e chi pensa a Pascoli ne ha ben donde.
Mi sento (ci sentiamo, la sorella di Angela ed io) come quella quercia, abbattuta da un boscaiolo assassino.
Anche noi sentiamo i violenti colpi d'ascia che, botta dopo botta, ci stanno abbattendo.
Lo spirito è forte, sembra una quercia secolare, ma se non è sostenuto da un corpo efficiente resta una cosa astratta, che può attraversare i muri o spaziare nell'universo, ma se lo carezzi o lo spintoni trovi solo il vuoto.
Eravamo rimasti ai primi, piccoli, progressi. Da allora, fino alla dimissione dalla clinica, lo scorso nove di aprile, le cose sono precipitate.
Gli effetti collaterali del suo enorme progresso fisico li abbiamo subiti noi.
I suoi piccoli passi iniziali si erano trasformati in una iperattività che per un lungo, eterno, periodo ha messo a rischio collasso le due querce.
Ancora oggi, ricordando, riteniamo umanamente impossibile non chiudere gli occhi per settimane intere, giorno dopo giorno, e soprattutto notte dopo notte.
Angela lo ha fatto.
E noi appresso.
Il secondo tentativo per toglierle il catetere era andato a buon fine.
L'eliminazione di quel tentacolo era stata una bella conquista, ma le aveva dato una maggiore autonomia che, unita alla progressiva ripresa fisica, le aveva dato una capacità pedestre da maratoneta.
Prima su e giù per il corridoio del piano, poi nella pineta interna, erano chilometri che si sciroppava, senza un attimo di sosta.
E noi, nei rispettivi turni, sempre dietro, senza mai perderla di vista, a causa dell'imprevedibilità dei suoi movimenti.
Per tutto il giorno, con la speranza che la stanchezza portasse a un corroborante riposo notturno, suo e nostro.
Il neurologo che l'aveva visitata subito dopo il ricovero aveva prescritto delle gocce e delle compresse calmanti per mitigare l'agitazione perenne e favorire il riposo perlomeno notturno.
Ogni tanto questi interventi medicali venivano recepiti, altre volte avevo il forte dubbio che fossero soltanto un placebo, un tentativo psicologico messo in atto più per noi che per lei.
Il classico bicchiere d'acqua fresca...
Di giorno e, quando le riusciva, anche di notte, nel suo peregrinare puntava ad entrare nelle stanze degli altri ospiti, mettendo mano in tutto ciò che attirava la sua attenzione: medicinali, vestiti, coperte e lenzuola, bottiglie con vari contenuti, e soprattutto cosette mangerecce, tipo frutta o dolciumi.
Il bloccare sul nascere questi tentativi provocava una reazione irata, che si ripercuoteva sulle operazioni di cura e sostentamento. Il rifiuto dei medicinali e dei pasti erano conseguenza immediata di queste sue alterazioni.
E anche qui avveniva un fatto che, oltre all'iniziale sconcerto, ci aveva allarmato in vista del ritorno a casa.
Gli inviti a prendere le gocce o le pillole, come quelli per mangiare, come quelli per mettersi a letto la sera, se proposti da noi venivano sovente respinti; e se era "no", non c'era verso di farle cambiare idea; il troppo insistere la faceva alterare di brutto.
Bastava fare intervenire un infermiere, o un operatore qualunque, foss'anche un addetto alle pulizie, e il rifiuto tenace si trasformava in sorrisi e nell'adesione immediata all'operazione richiesta.
Il punto interrogativo era conseguente: non avendo a casa estranei che la convincessero, tra l'altro senza neanche insistere troppo, come avremmo risolto il problema?
Dico subito che, dopo la dimissione, a casa si "accontenta" della nostra presenza e, salvo casi sporadici, accetta sia le medicine che i pasti. Ha saltato le une e gli altri, ma a livelli accettabili; le medicine no, ma nel pomeriggio un passaggio in cucina, magari per mangiare un paio di mele o una banana, ci scappa sempre.
E' ancora restìa alla preparazione per la notte, fatta ancora di piazzamento del pannolone e del pigiama, e per farla andare a letto dobbiamo aspettare che le saracinesche oculari lambiscano le labbra, ma alla fine cede.
I giri in pineta: raccolta di pinoli secchi e vuoti, pigne, erbette per fare insalata, asparagi selvatici (io non li riesco a vedere, lei li vedeva e li raccoglieva, unica erba eventualmente commestibile tra quanto estirpato); negli ultimi tempi raccoglieva scaglie di pigna, se ne riempiva le tasche o le affidava a me: sarebbero servite per fare il risotto. Quelle date alla mia custodia tornavano subito, di nascosto, al terreno, le altre finivano sul tavolo della stanza in attesa di smaltimento successivo.
Dei progressi fisici mi pare di avere dato un buona idea; quelli del 'ponte di comando' sono ancora molto vaghi, sembrano le luci psichedeliche dei night, spruzzi di lampi colorati che girano in modo vorticoso, talvolta ricorrenti, altre volte unici e non ripetibili.
Continuerò appena possibile, ma voglio che sappiate che è stata dura, e lo è tutt'ora, ma finché quel bastardo di boscaiolo non ci avrà tranciato del tutto, continueremo a 'tenzonare'.
Quando mai fossimo abbattuti, il canto della capinera sarà sostituito dal miagolio del gatto.
A presto.
Spero.