domenica 26 giugno 2016

Chiamale (se vuoi) barzellette




Chi ha visto i post precedenti sa già di cosa vado a parlare.
La mia situazione prevede controlli periodici (follow-up) per seguire l'evoluzione del malanno e intervenire, se-quando-quanto possibile.
Nella visita di controllo di fine gennaio, fatto il punto della situazione, era previsto un nuovo incontro dopo 3/4 mesi con i vari rami medici che mi seguono: nefrologo, internista e oncologo.
Tra tutti, pare che il più importante fosse l'oncologo.
Il quale richiedeva, per quel rendez-vous, i soliti esami di laboratorio, più un ecocolordoppler alla carotide e una PET (acronimo di Tomografia a Emissione di Positroni) che, prima dell'esperienza in corso, ritenevo fosse qualcosa che riguardava gli attrezzi e gli alimenti per animali.
Il massimo che avevo appreso era la pet-therapy, appunto gli animali usati come cura psicologica dei malati.
Mentre gli esami istologici si limitano a segnalare una presenza tumorale nel punto del prelievo, la PET  disegna l'estensione del danno oncologico nell'organismo, con immagini a tutto campo.
Attualmente pare sia il top delle indagini strumentali, particolarmente indicata nella ricerca oncologica.
Per gli esami di laboratorio impegnativa del medico curante, nessun problema.
Nonostante l'esenzione per patologia, un paio di esami sono stati a pagamento.
Ecocolordoppler: impegnativa dal medico di base, prenotazione al CUP.
Le date più immediate erano a ottobre in una struttura o a novembre in altra, entrambe ASL.
Fuori tempo massimo.
Vado, a pagamento, dallo specialista angiologo, che mi aveva già visitato nel 2001, portando il referto di allora. Illeggibile, non per gli anni trascorsi ma per i geroglifici manuali tipici dei medici in generale, di quelli specialistici in particolare. Meno male, nel frattempo ha messo in opera il computer.
Poche righe, meglio così.
Finge di ricordarsi di me, e mi fa lo sconto, con ricevuta.
Incredibile; non lo sconto, la ricevuta.
PET: il medico curante viene bloccato nel tentativo di compilare l'impegnativa per questo esame.
Una finestra al centro della schermata del monitor gli segnala che questa può essere prescritta, senza se e senza ma, solo dallo specialista.
Pare si tratti di una norma a livello nazionale, in vigore, forse, dal 1° gennaio di quest'anno, nell'ottica della riduzione della spesa sanitaria. Praticamente per sfoltire quanto più possibile le richieste di questo genere di esami, facenti parte di quegli interventi a carico del Servizio Sanitario Nazionale, forse ritenuti troppo dispendiosi per un target limitato di utenti, tra l'altro con un destino già segnato; basta avere pazienza e aspettare che questo si compia.
Il tempo guarisce, in maniera definitiva.
Quindi: impegnativa per visita oncologica per avere dallo specialista una impegnativa per la PET, dallo stesso richiesta a suo tempo.
Breve accenno geografico: la struttura ospedaliera in cui opera questo oncologo è a circa 50 km dalla mia abitazione, al di là di un fiume che segna il confine tra due regioni. La sua scelta non è stata tanto di simpatia quanto di convenienza logistica, peraltro premiata da attenzioni e professionalità che nella mia zona ci possiamo sognare.
Nel senso che proprio non esistono, fisicamente e strutturalmente.
Grazie a quello che viene definito "obbligo di rientro del deficit sanitario", le strutture sanitarie vengono gradualmente eliminate per far posto (forse solo pro tempore) ad ambulatori per visite specialistiche.
In questi ambulatori è prevista una discreta copertura per le patologie più importanti; mancano solo il podologo e la manicure per un quadro (quasi) completo.
L'oncologo no.
Il cancro, si sa, è una patologia scoperta solo di recente, le sue cure sono più che altro interventi palliativi, quindi sarebbe superfluo prevedere una presenza medica specifica; sarebbe uno spreco inutile di risorse.
Oltre tutto, quei quattro gatti che se lo son beccato stanno scomparendo a grappoli, quindi il problema si avvia a soluzione senza necessità di aiuti esterni.
Regolare prenotazione al CUP di riferimento.
Non trattandosi di ambulatorio fisso, le visite avvengono a scadenze precise, e, in base al numero delle prenotazioni, la data per l'accesso è variabile, solitamente sempre "più in là". Nello specifico, complice la festa del 2 giugno, che ne aveva interrotto la cadenza, circa un mese.
Incontro molto breve, il tempo di spiegare il problema e...
"Non è più possibile fare impegnative per fuori regione". 
A fronte del mio disappunto aveva scribacchiato una impegnativa, con diagnosi sommaria a sostegno della richiesta dell'esame, da sottoporre al medico curante che avrebbe dovuto vidimarla.
Medico di base: non la può confermare, ma "dovrebbe" andare bene così com'è.
Ricerca di una struttura di medicina nucleare, tanto per cambiare in altra regione, sempre per la citata inesistenza in zona di qualcosa che faccia al caso mio.
Struttura privata, in convenzione.
Telefonata per fissare l'appuntamento, descrizione del problema e dei dati dell'impegnativa, indispensabili per l'addebito alla regione di competenza.
Riepilogando: un oncologo fa l'impegnativa in una regione, per un paziente residente in altra regione, per un esame da effettuare in una terza regione.
Risultato:
"Se vuole prenotiamo, anche in tempi brevi, ma se l'impegnativa non dovesse risultare confacente ai protocolli richiesti non sarebbe possibile effettuare l'esame. Il costo è alto e non è possibile rischiare di non vederselo rimborsare".
Come andare in una galleria stradale buia, con gli occhi bendati, sperando di non incocciare in un tir che ti faccia frittata.
A 400 km da casa.
La soluzione sarebbe cercare un oncologo in regione, prenotare la visita oncologica per avere una impegnativa valida, anche per fuori regione.
Bene, che ci vuole, sono circa 180 km tra andata e ritorno, oltre i tempi d'attesa.
Come si dice, quando c'è la salute, poco più che una fumata di sigaretta.
Quando questa non c'è, meglio la lunga fumata di un sigaro.
Ragionando: dovrei andare da un medico, mai visto né conosciuto, e chiedere una impegnativa specialistica per un esame che, visto il costo, viene prescritto col contagocce, portandogli in visione tre chili di carte e elemosinando la compilazione di una ricetta rossa, accettabile senza remore e senza dubbi sulla sua validità.
Mi pareva una soluzione assurda...
Come tutta l'avventura.
C'è una struttura privata di medicina nucleare che (ricordi di anni e anni fa) era in attesa dell'autorizzazione dell'ASL a eseguire questo tipo di indagine.
Con poche speranze, avevo chiamato per sapere se, per caso, l'unità fosse operativa.
Lo è.
Strano: per la prenotazione non necessitava l'impegnativa dello specialista, manderebbero on-line un modulo che il medico di base deve solo compilare e sottoscrivere, con reinvio sempre on-line.
Datemi un cielo, che il dito lo metto io...
Troppo semplice per essere vero.
Infatti, in attesa della specifica convenzione con la regione, questo esame è solo a pagamento.
E, nonostante ciò, i tempi di attesa sono mediamente lunghi. Il primo posto disponibile è verso metà luglio, data e orario da precisare in seguito.
Tanto c'è tempo...
God save the Queen, gli altri si arrangino.

La conclusione è ben semplificata nell'immagine che precede questo testo.



   

giovedì 2 giugno 2016

Revenant

Nota preliminare: il racconto sarà lungo; chi, bontà sua, decidesse comunque di procedere nella lettura, si munisca di viveri e bevande a sostegno. Vado a braccio, e non posso dividerlo in più puntate, nel timore di non trovare più la volontà, la capacità e il tempo per finirlo. Un lettore avvisato può trovare millant'altre cose cui dedicarsi in alternativa a questa (pesante) lettura. 

Il titolo del film di Di Caprio capita a fagiolo per indicare il ritorno nel blog, dopo una lunga parentesi di assenza che il susseguirsi incessante di eventi negativi mi aveva impedito di giustificare. L'Oscar a Leo pare sia stato forzato, oltre che dal 'pompaggio' esagerato messo in atto dal produttore, anche dalla considerazione (insinuata sottobanco) che egli avesse "girato" le scene più gelide indossando una polmonite, con annessi e connessi che questo malanno comporta. Se mai dovesse risultare vera questa inquadratura, credo che il premio più adatto sarebbe stato quello all'imbecillità. Senza nulla togliere ai giudizi sulle sue qualità di attore, comunque soggettivi.


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Per forza di cose devo andare a rivedere il mio ultimo post, quello del somarello in sovraccarico, con i mattoni perifrasi degli acciacchi e delle tegole che ormai da tempo (a mio parere, troppo) continuano ad abbattersi sulla mia testa, sulla schiena e su tutto il resto del corpo.
E sulla poveraccia anima mia...
Lo scrivere bene è prerogativa degli scrittori veraci, ma già il farlo parlando di sé in prima persona diventa faticoso, quando ci si accinge a raccontare guai e sensazioni e sentimenti che pudore consiglierebbe di tacere.
La notte era buia da oltre cinque anni, con un susseguirsi massacrante di eventi luttuosi o, quando non immediatamente tali, con prospettive di sofferenze in vista di un finale comunque scontato e dolente.
Al buio di quella lunga notte mi ci ero abituato.
Il passare dei giorni era scandito dalle visite ad Angela, mia moglie, e il suo sorriso di benvenuto, talvolta una sua carezza, rendevano le giornate quasi degne di essere vissute.
Erano cerini accesi, che illuminavano un buio altrimenti angosciante.
C'era stata la morte del marito di mia sorella, un anno dopo si era aggiunta quella della sorella stessa... forse in omaggio al giuramento matrimoniale "finché morte non vi separi", fatto sta che aveva seguito il suo Luigi in un aldilà per ora privo di riscontri attendibili.
Nella primavera del quattordicesimo anno del secolo in corso, un qualcosa nel mio interno si era messo di traverso, con sintomi più che altro di disagio, debolmente dolorosi, sopportabili.
All'inizio era sembrata una semplice turbolenza, una di quelle cose che capitano ai vivi, una specie di tira-molla di un elastico, oggi c'è, domani (forse) passerà.
Un acciacco, come si suol dire di quei malanni improvvisi non giustificati da (troppo) errati comportamenti di vita.
Descrizione del fatto al medico di base, che, per accelerare la messa in cantiere dell'eventuale cura, mi aveva sbolognato a uno specialista.
Prima visita, di approccio:
"È fuor di dubbio che qualcosa non va, facciamo alcuni esami per saperne di più, ma non si deve preoccupare; questo malanno capita sovente agli anziani ed è risolvibile...".
Da subito, un tentativo di negazione dell'evidenza, non apertamente espressa: anziani? E io cosa c'entro, perché è successo anche a me?
Visite (a pagamento, ma quello era il meno) a livello mensile, con una gerla di pasticche, suddivise nell'arco della giornata, mattino mezzogiorno sera, diversificate per colore e per misura.
Per una seina di mesi la cura era proseguita, invariata e senza risultati evidenti che ne giustificassero il prosieguo.
Verso la fine del semestre mi aveva prescritto un esame di laboratorio, da completare con l'antibiogramma.
Senza essere esperto del campo, sapevo il significato di quell'esame, ma avevo chiesto (con falsa ingenua ignoranza) il "perché" di quella richiesta.
"Così sapremo con certezza quale antibiotico sia più adatto a risolvere il problema".
Dopo sei mesi di ingollamento di antibiotici, antistaminici, antidolorifici...
L'anti-questo e l'anti-quello erano stati evidentemente solo tentativi, cure "a occhio e peso", mancava solo la ben nota pasticca blu, le altre avendole assaggiate quasi tutte, era saltata fuori la necessità di "sapere" quale cura mirata fosse necessaria.
Nelle verifiche sull'andamento della vicenda mi ero trovato a chiedere:
"Ma non è che si tratti...".
"Di tumore? No, assolutamente, tranquillo, niente a che vedere...".
Il sospiro di sollievo per questa rassicurazione era stato soffocato dalla richiesta della strana analisi di laboratorio testé citata.
Lo avevo, metaforicamente ma non troppo, mandato al diavolo.
Altro specialista, a modo suo un personaggio, raro nell'universo sanitario.
 Da subito non mi aveva rassicurato più di tanto:
"Sarà quel che sarà, dobbiamo solo scoprirlo e affrontare il problema a muso duro".
Facendosene carico, un po' come gli avvocati che sposano la causa dei loro assistiti, sanciti da un "noi" che non è plurale majestatico ma comunanza di intenti.
Altri esami specifici, conferma dell'accidente con proposta di ulteriori prove, stavolta in presa diretta.
Consigliabile un esame autoptico.
A parziale consolazione aveva ribadito il concetto del collega:
"Questo male colpisce un tot per cento delle persone anziane, con cure mirate tornano come nuove...".
Perfetto, se gli anziani tornano come giovanotti, sarei stato avvantaggiato; senza esagerare le previsioni, sarei diventato poco più che un ragazzino.
A metà dicembre di quello stesso anno ricovero in clinica, previsti un paio di giorni di degenza, epidurale, prelievo e... a casa per Natale.
In attesa dell'esito dell'esame istologico.
Feste passate con la stessa allegria che aleggerebbe in una camera ardente ospitante un cadavere.
Il tutto condito da febbre costantemente alta, ossa a pezzi e morale metri e metri sotto terra.
Intanto avevo gattonato fino al 2015.
Verso fine gennaio era arrivato l'esito atteso; più che un referto una sentenza.
E da allora in poi la turbolenza si era trasformata in temporale, e al buio della notte si era aggiunta la tempesta, a completamento dell'incipit preferito da Snoopy.
Tumore: per impedire che potesse essere scambiato per un tumorino, nel referto era definito di alto grado, il che tagliava le gambe alla speranza che si trattasse di poco più che un callo o di un neo o di un'unghia incarnita o di un dente cariato...
A questo punto il velo che aveva consentito di estendere agli anziani 'generici' la possibilità di beccarsi questo "regalo" non aveva più motivo d'essere.
Infatti:
"Questi accidenti colpiscono voi anziani, magari arrivati sani e vegeti oltre una certa età...".
"Ah!!!".
Che altro potevo dire, oltre a prendere atto che, come anziano, entravo nel novero di quel tot per cento di vittime... di non si sa bene cosa.
O si sa fin troppo bene...
Pensavo ai nobili del '700/'800 che, se non avevano il pallore tipico della tisi, inducevano al dubbio sul loro essere di sangue blu.
Purtroppo nel cancro non c'è ombra di nobiltà.
E neanche nella vecchiaia...
Cure dall'esterno manco a parlarne, era necessario (indispensabile...) un accesso chirurgico, radicale.
Altri esami di preparazione.
Aprile 2015: anamnesi pre-intervento.
Domande a non finire, alcune sensate, altre meno.
Allevato con latte materno o bovino o caprino?
Boh!?!
Fumo: sì, moderato dal mio punto di vista; poco che sia sempre troppo, secondo l'investigatore.
Alcol: un bicchio di vino a pranzo e a cena, 20 gr di whisky con ghiaccio la sera.
Malattie veneree, altri interventi, fratture, diabete...
No, no, sì testa del perone a gennaio '86,  no...
Eventuale assistenza religiosa post...
L'uso di alcune informazioni mi è tutt'ora ignoto; per fortuna avevo altro a cui pensare.
Non avevo chiesto lumi precisi sull'intervento; eravamo alla vigilia del fatto, e il timore che il mio coraggio nell'affrontarlo si trasformasse nel coraggio della fuga a gambe levate dalla clinica era ai livelli più elevati.
Il chirurgo aveva sintetizzato l'operazione fisica con un incoraggiante:
"Tagliamo - togliamo - chiudiamo". 
In attesa dell'ulteriore referto istologico.
Eccheccevò!
A parte l'estirpazione delle tonsille nei primi anni '50, avevo un corpo vergine da tagli e intromissioni varie; con le feste pasquali appena trascorse mi sentivo agnello sacrificale a un dio-destino infame.
Preparazione: digiuno assoluto dalla sera precedente il giorno dell'intervento, depilazione accurata del pube (non sono propriamente un timido, ma mi ero sentito il viso arroventato per la vergogna), nulla per bocca... concessa la respirazione, senza esagerare.
Un piccolo disguido aveva fatto slittare di un giorno la "festa", così il digiuno assoluto si era protratto per oltre 36 ore.
Ma il terrore era tale che avrei potuto vivere senza pasteggiare fino alla fine dei secoli...
Tralascio la descrizione tecnica dell'intervento, anche perché, essendo previsto come parte passiva, ero stato immerso in un sonno profondo, senza sogni... forse senza vita.
Al risveglio: un cesareo verticale, due dita sotto l'ombelico fino ad altrettante sopra la base del pene, cucito come un porchetto alla romana; tubicini, cavetti e attrezzi vari, alcuni in entrata, in uscita altri.
Ufficialmente ero stato dichiarato vivo, e pare che ciò fosse la cosa più importante.
Il sopravvivere faceva parte di un imponderabile "poi", che andava oltre le normali previsioni della medicina, meno ancora in quelle della chirurgia. L'assioma "intervento riuscito, paziente morto" è voce fissa nelle statistiche sanitarie...
Il ripieno estratto era rimasto all'istituto, con tanto di firma di consenso, ufficialmente a scopo di studio; ma se anche fosse finito in pasto ai gatti in attesa nel giardino della struttura, la cosa non mi avrebbe toccato più di tanto.
Dieci giorni dopo (spaccati, per far posto ad altra vittima) ero stato dimesso.
La tempesta era più che mai attiva.
Tornato a casa, per un paio di mesi non ero stato in condizioni di muovermi più di tanto.
Facevo pietà a me stesso.
La reazione postuma all'intervento era stata violenta, con febbre e malesseri vari che mi avevano portato prossimo al tracollo definitivo.
Tachipirina per la febbre pervicacemente alta e antibiotici a palate.
Mio malgrado avevo dovuto sospendere le visite ad Angela, ed ero informato che le sue condizioni peggioravano, giorno dopo giorno.
Faticosamente ero riuscito a farle visita una volta soltanto, il tempo di rendermi conto che la fine si avvicinava, veloce e inesorabile.
Infatti il giorno successivo a quello che sarebbe stato l'ultimo suo compleanno, aveva chiuso il libro della vita, con gli ultimi cinque anni in bianco... senza passato... senza presente... senza futuro...
Dopo quasi cinquant'anni di vita in comune mi aveva lasciato, silenziosamente.
Lo sconforto per la sua scomparsa era stato accentuato dal pensiero, non espresso ma ricorrente, che l'aggravamento delle sue condizioni era coinciso con la sospensione delle mie visite quotidiane, giustificate ma non sufficienti a cancellare il dubbio che tale assenza avesse influito sul suo peggioramento.
Non si era trattato di un vero e proprio senso di colpa, ma di un disagio intimo, sottile, comunque impossibile da ignorare.

Credevo di avere dato abbastanza a quel dio-destino che mi perseguitava, e mi stavo adattando, obtorto collo, alle nuove situazioni: la vedovanza e la malattia, entrambe senza possibilità di appello.
Invece...
Gli esami istologici sui reperti dell'intervento avevano segnalato un leggero residuo tumorale.
Talmente leggero da far ipotizzare superfluo (secondo il chirurgo che mi aveva affettato) un intervento chemioterapico.
Negli stessi giorni che avevano portato Angela alla fine, avevo avuto una bruttissima crisi, forse dovuta alla tensione per il suo aggravarsi o (sempre forse) perché il malanno seguiva un suo iter, indipendente da altre cause esterne.
Visita oncologica: sarebbe stata opportuna una cura chemio "adiuvante", tanto per eliminare il residuo infettato; ma gli esami di laboratorio avevano rilevato una sopraggiunta insufficienza renale, che sarebbe stata aggravata, forse irrimediabilmente, dall'uso di farmaci già di per sé debilitanti.
C'è pure il detto "adiùvati che il Ciel ti adìuva", ma quando manca la possibilità di farlo anche il Cielo latita.
Un bivio: lo stesso in cui a un condannato a morte venga offerta la scelta tra il morire impiccato o morire fucilato.

Sarebbe tutto, se non mancasse la classica ciliegina a guarnire degnamente questa "torta".
Le ciliegine sulle torte di solito sono candite, e non da tutti gradite.
Questa, in particolare, mi è risultata particolarmente affatto appetibile.
Un collega, perso di vista da circa vent'anni, mi aveva rintracciato telefonicamente sotto le feste di fine 2014.
Un amico oltre che collega, di quelli che, se anche non li senti o non li vedi per anni, sono talmente impressi nella mente e nel cuore da non avere bisogno di giustificare il lungo reciproco silenzio.
Ero stato al suo fianco per circa vent'anni, compagni di lavoro e, quando possibile, di svago.
A luglio del '68 avevamo fatto una capatina in Costa Brava, insieme a un altro collega.
Un paio di settimane lontani dal tran-tran quotidiano, vario pur se ripetitivo; mai alienante.
In quella prima telefonata ci eravamo scambiati tutte le novità, i ricordi comuni, le prospettive prossime...
Era venuta alla luce la quasi simiglianza della nostra situazione sanitaria.
Mi aveva incitato a combattere, come lui stesso stava facendo.
Nel corso dei mesi lo scambio di informazioni si era fatto intenso, un rendez-vous vocale che era un sollievo per entrambi.
L'ultima telefonata in viva voce risaliva a fine febbraio di quest'anno: aveva completato i cicli di chemio previsti, si sentiva distrutto ma fiducioso in un miglioramento prossimo venturo.
A marzo il telefono di casa mi dava in risposta squilli strani, come l'occupato di una cornetta staccata; il cellulare "bussava" a vuoto fino all'intromissione del gestore che invitava a lasciare un messaggio.
Avevo un presentimento quasi obbligato, cui non volevo dar peso, scaramanticamente.
Ad aprile inoltrato mi aveva chiamato la moglie, scusandosi di non essersi fatta viva prima, avendo perso la scheda telefonica del marito, e con essa il mio numero.
Giorgio se ne era andato il 30 di marzo.
Dei tre compagni delle ferie in Spagna, Corrado era annegato nel Sesia, dove era andato a pescare in un giorno di sciopero, negli anni '70. Con altri due compagni di lavoro, si era piazzato sulle rocce nel greto del fiume, e una piena improvvisa li aveva travolti senza vie di scampo.
Adesso era toccato a Giorgio.
Troppo facile pensare al detto "non c'è due senza tre"; la ruota non si ferma solo perché l'interessato non concorda col suo rotolare.

Per finire ci sarebbe solo da convincersi che "tiremm innanz!" sia il solo modo per esorcizzare un futuro tristo più o meno imminente.
Frase storica, comunemente usata per incitare (e incitarsi) ad andare avanti, a tirare dritto, nonostante le avversità, gli ostacoli, le tegolate, gli accidenti vari che perseguitano chi vorrebbe continuare a invecchiare in maniera sostenibile..
Purtroppo, nel tempo, il senso di quel detto è stato modificato, facendolo apparire come positivo quando, invece, proprio positivo non è: pochi, infatti, ricordano che Sciesa lo disse nell'ultimo tratto del percorso che lo portava al patibolo, alla fucilazione, alla fine...

Così è... chioserebbe Pirandello.