giovedì 23 marzo 2023

"Edipo a Berlino", a lettura ultimata

Un giovane, poco più che un ragazzo, che sta per lasciare la sua adolescenza per diventare adulto. Questo passaggio di 'categoria' avviene in Germania, a Berlino, in un momento di grandi eventi che squasseranno il mondo nel decennio a venire. 
Kristallnacht, la Notte dei Cristalli, fa da spartiacque tra un periodo di dialettica violenta che sfocia in una follia collettiva, a sua volta causa ed effetto di quella drammatica, tragica notte. Nel corso della quale questo ragazzo finisce coinvolto, e senziente, in un'azione aberrante che lo marchierà per tutta la vita. 
Il romanzo racconta i fatti che lo hanno reso protagonista negativo, descrive la sua caduta nel baratro del ricordo di quella violenza all'inizio affatto voluta, ma in seguito mai ripudiata del tutto.
Essere tedesco e sentirsi nazista fino al midollo, per ritrovarsi poco dopo ebreo in un consesso di ebrei martoriati, massacrati... un salto di qualità difficile da accettare. Da carnefice a vittima, in un lasso di tempo brevissimo.
Gli avvenimenti successivi lo costringono a una lenta risalita dalla voragine in cui era precipitato. Si sa, cadere in un burrone è semplice, basta un attimo di follia e ci si trova in fondo. Toccato quel fondo, e sopravvivendo all'impatto, la rimonta non è mai agevole. Per risalire, un ciuffo d'erba, un anfratto nella roccia, potrebbero essere di aiuto per tornare al piano.
Se però nel corso dell'arrampicata quel ciuffo, quel brandello di roccia cedono, si è portati a rinunciare; o a ritentare. Ci si può intestardire e insistere nella risalita, ma non basta la sola volontà per procedere. Se poi quella volontà risulta altalenante o assente, ecco che ci si trova abbarbicati ai propri pensieri, che sono più vaghi delle nuvole.
Nel romanzo, il giovane protagonista, Karl, quella volontà non ce l'ha, la trova solo alla fine, dopo un lungo peregrinare nella parte europea da subito coinvolta in quella che sarebbe poi passata alla Storia come Seconda Guerra mondiale. Quella volontà non ce l'ha, poiché combattuto tra il rimpianto di chi/cosa era stato e il rinvio dell'accettazione di chi/cosa era in seguito diventato. 
Amleto, nell'omonima opera, imbeccato da Shakespeare, dice la nota frase: Essere o non essere, questo è il problema, che ancora fa scorrere fiumi d'inchiostro, alla ricerca della giusta interpretazione filosofica. Nell'opera si riferisce alla scelta tra il suicidarsi e il restare in vita, seppur tra sofferenze.  
Ecco, per Karl il dilemma, straziante e straniante, è tra essere ed essere. Essere quello che era stato (un tedesco, nazista potenziale, carnefice) o essere ebreo (vittima sacrificale dello stesso tedesco/nazista che era stato a sua volta). 
Il protagonista del romanzo, quell'or not lo ignora, non lo riconosce, non lo accetta, come fosse un'indicazione impossibile da attuare. Tutta la storia è un continuo, assillante, essere/essere, un conflitto suo interno, la decisione di risoluzione di quel dilemma viene macerata in un costante rinvio, vedendo questo suo dubbio talvolta come espiativo di quanto fatto, tal'altra come rivalsa verso un passato che aborre ma che non riesce a rinnegare. Non del tutto.
Nel romanzo, per una serie di tragiche vicissitudini, Karl diventa Stefan, e fino alla fine, dopo essere caduto nel baratro, cerca di tornare al piano, trovando arbusti e speroni di roccia che gli potrebbero essere d'aiuto per la difficile risalita. Che, sistematicamente, rifiuta, preferendo crogiolarsi in sensi di colpa, peraltro affatto ingiustificati. Li accetta, questi aiuti, solo quando proprio non li può negare, ovvero non è in grado fisicamente di rifiutarli, e quindi gli vengono quasi imposti da persone che gli vogliono bene, nonostante il suo intestardirsi nel rifiuto della realtà.
Una bambina, sua figlia, alla fine lo costringerà a prendere atto che quello che era stato faceva, comunque, parte di un passato che si sperava irripetibile, portandolo a una forma di redenzione e, finalmente, alla presa di coscienza di essere. Di poter essere in un presente e in un futuro.
Con un contorno non casuale di macerie, di violenze, di morti, ma, su tutto, da una cappa di incredibili avvenimenti che sarebbe bello ritenere frutto di sola fantasia. Così non è, e il romanzo coglie l'occasione per ricordare a tutti orrori che neanche l'autore più sbrigliato avrebbe saputo partorire, e che, invece, sono stati un periodo tragico e indimenticabile nella sua drammaticità.
Diviso in tre parti, introdotte da un prologo che è portale di approccio alla lettura e, nel contempo, a chiusura del racconto. Con l'epilogo finale che si aggancia all'apertura iniziale. Non è una lettura da fare superficialmente: bisogna essere sempre concentrati, perdere un filo della ragnatela che compone il racconto significherebbe smarrirsi in un dedalo di fatti, situazioni, violenze, amori e quant'altro che ne sono valori portanti.

"Edipo a Berlino", di Francesca Veltri, ed. Rai Libri, su Amazon € 19,00 (e li vale tutti).

mercoledì 22 marzo 2023

L'onore delle armi ai caduti

Per una migliore comprensione di questo post rimando alla lettura del pezzo pubblicato l'11 marzo.
In sintesi: nella notte tra il 16 e 17 febbraio un ragazzo 30enne era stato colpito da una serie di pallettoni che lo avevano lasciato in coma una decina di giorni, per poi morire.
Questo giovane aveva avuto una vita travagliata, pur essendo di buona famiglia e non privo di mezzi di sussistenza. Purtroppo era finito nelle maglie della droga, per il cui acquisto aveva venduto tutti i suoi averi, appoggiandosi poi alla madre. La quale, stanca di contribuire alla rovina del figlio, lo aveva denunciato, salvo ritirare la denuncia per via delle promesse del figlio di cambiare il suo registro di vita. 
Era stato affidato a una comunità, che aveva abbandonato poco dopo, per tornare alla vita sbandata precedente. Alcuni mesi fa il giovane si era ritrovato la macchina bruciata sotto casa; poco più di un mese fa colpi di fucile erano stati sparati verso il portone della sua abitazione.
Il ragazzo, dopo l'impallinamento, era stato lucido a sufficienza per indicare chi lo aveva colpito, prima di venire sedato e cadere in un coma irreversibile.
Il cammino della magistratura, pur con una strana lentezza, qualche giorno fa ha arrestato i colpevoli, associandoli alle carceri in attesa di giudizio. Naturalmente gli indiziati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. 
L'autopsia è stata effettuata solo adesso, dopo circa un mese dal decesso. Ci saranno stati buoni motivi per giustificare questa lentezza, così come i tempi per il fermo dei presunti colpevoli, nonostante da subito ne avessero i dati, comunicati, come detto, dalla stessa vittima.
La salma è arrivata, portata in chiesa, per la veglia notturna e la successiva cerimonia funebre, per essere poi avviata al cimitero.
Il Comune ha ritenuto di proclamare il lutto cittadino in concomitanza con il giorno del funerale.
Sono molti anni che abito in questo paese, ho visto morire persone che, con le parole e i comportamenti e le azioni, hanno dato lustro al paese e non solo: mai che sia stato emesso l'onore del lutto cittadino, che avrebbero ampiamente meritato.
Ho ipotizzato che, trattandosi di una famiglia molto numerosa, questo lutto sia stato proclamato in una visione para-elettorale anticipata; una semina che alle urne potrà, un domani, portare voti buoni.
Il Riposa in Pace non si nega a nessuno, fa parte della pietas dovuta a chiunque lasci questo mondo. Ma la pietas non può escludere la giustizia. Mi chiedo quale sia il messaggio di questa glorificazione, assolutamente immeritata. La Chiesa può santificare chi le pare, lo ha fatto e lo fa con generosità anche a fronte di crimini che gridano vendetta; un Ente laico non lo dovrebbe poter fare.
Il lutto cittadino prevede alcuni adempimenti, indicazioni da rispettare su base volontaria ovvero inseriti in un protocollo standardizzato. E questo protocollo sarà rispettato in occasione della cerimonia funebre.
Gonfalone del Comune, sindaco con fascia tricolore a tracolla, giunta al completo, vigili urbani in alta tenuta, corone di fiori all'entrata della chiesa. 
La messa di requiem concelebrata da un folto gruppo di sacerdoti.
All'uscita del feretro al termine della funzione, un fragoroso applauso, con lancio di palloncini bianchi verso il cielo e sparo di mortaretti, dimostrativi dell'affetto verso un ragazzo che, in vita, la società aveva respinto. Era stato chiaramente un "errore" impossibile da correggere.
Bene, fermo restando il rispetto per il defunto e, di riflesso per sua madre e i parenti tutti, ritengo queste manovre onorifiche una forma di falso ideologico. 
Tanto onore: perché, a chi, a cosa? Applausi: perché, a chi, a cosa?
Alla veglia, nell'accogliere le condoglianze, la madre ha ripetuto a tutti la stessa frase: "Me lo hanno ammazzato... ma anche loro hanno dei figli...". Chiaramente si tratta dello sfogo di una madre addolorata, ma nel contesto in cui si inserisce fa pensare a un futuro affatto sereno.
Chi vivrà vedrà...

domenica 19 marzo 2023

"L'ablazione", visita a un testo difficile

Non credo sia stato facile scriverlo, questo libro; non è facile da leggere, e risulta difficile da digerire. E da capire a fondo, salvo conoscerne a priori il peso e la portata. E, in questo caso, anche il commentarlo diventa affatto semplice.
Se quello che racconta fosse stato esposto da un medico, meglio da un chirurgo, meglio ancora da un chirurgo urologo, avrebbe il sapore di un romanzo frutto di fantasia medica, in cui la descrizione avrebbe avuto forzatamente una sua freddezza professionale, le sensazioni e le paure sarebbero state frutto di una ripresa, di una videata, di una presa indiretta di quanto fosse stato raccontato da un paziente di fantasia.
Parla, il testo, di un matematico che affida a uno scrittore famoso la descrizione del suo accidente, nella parte fisica e in quella psicologica. Per cui dopo un breve preambolo di questi, in cui anticipa lo sviluppo del testo, fa passare il protagonista alla prima persona singolare, dando a tutto il sapore di un disagio profondo, dovuto alla scoperta di un tumore, di un brutto tumore, che dai primissimi, quasi ignorati, segnali segue la sua evoluzione diagnostica, poi alle cure messe in atto per eradicarlo, e alle prestazioni successive all'intervento per tenere sotto controllo quanto salvato. Controlli che ravvivano in lui i timori di una ricaduta che sarebbe fatale.
Tutta la parte 'tecnica', sanitaria, del racconto risulta essere supporto a un rimescolamento di sensazioni, di paure, di prese di coscienza che niente sarà più come prima. Mai più...
Mi sono andato a guardare l'etimologia precisa del termine ablazione che dà il titolo a questo libretto: di primo acchito ho trovato che si riferisce a particolari interventi mini invasivi relativi a fatti cardiaci. Che già non è che sia proprio zucchero filato...
No, l'ablazione di cui si parla riguarda una parte del corpo umano maschile che, a torto o a ragione, ha per la mente dell'uomo un'importanza capitale. Forse sarebbe stato più esatto, più rispondente, dire asportazione, ma capisco che avrebbe potuto fuorviare il lettore che si fosse fermato al solo titolo; sostantivo che peraltro viene richiamato nel testo.
Infatti di asportazione si tratta: della prostata. Ossia della parte mascolina dell'uomo, quella su cui si basa l'ancestrale valutazione della sua virilità.
Racconta il dramma di un uomo che, intorno ai sessant'anni, si ritrova all'improvviso con un tumore prostatico. Parla dei primi sintomi con dovizia di particolari, gli esami, la vergogna della messa a nudo di parti di sé prima occulte, dell'introduzione rettale per arrivare alla diagnosi finale che non dà possibilità di scelta.
Bisogna inoltrarsi nella lettura, soffrendo con il protagonista, partecipando alle sue sofferenze fisiche, ma soprattutto partecipando alla sua lenta presa di coscienza che la dipendenza da una ghiandola non può essere il destino di una vita. E infatti alla fine si adegua, superando periodi depressivi alternati ad attimi di speranza per una soluzione favorevole a una vita, nonostante tutto, degna di essere vissuta. 
Un calice, da sorseggiare fino all'ultima goccia, ancorché si tratti di un calice di fiele.

Dicevo all'inizio delle difficoltà di scrittura, di lettura e di comprensione del testo.
Ebbene, non è che il commento possa essere di facile stesura. Anzi, più che commento, mi piace pensare che si tratti di una integrazione, di un completamento, ma anche di chiarimento di alcune dissimiglianze che ho avuto modo di rilevare.
Ci sono passato, e in maniera ancora più estesa di quella raccontata nel libro. Forse è uno dei pochi argomenti di cui posso trattare con assoluta 'competenza' diretta, contro altri che ho avuto modo di esporre per sentito dire o rubato da letture o da lontani ricordi. Non che quegli altri racconti di vita vissuta non mi siano cari, ma lo sono, anche i più coinvolgenti, in una forma direi dolcemente amara.
La parte 'tecnica' del racconto è una ripetizione quasi similare a quanto da me passato. Salvo alcune differenze sostanziali, giustificate da un paio di fattori importanti: l'età del paziente e la locazione degli interventi che lo hanno rimesso in pista. In più, come detto, un 'lavoretto' con base più estesa di quella descritta.
L'età: contro i suoi sessant'anni c'erano, all'epoca del mio guaio, i miei quasi settantacinque. Un'età cui di solito si tende a dare un limite temporale prossimo, a meno di essere politici d'alto bordo o cardinali di santa romana chiesa. Quel limite temporale viene evidenziato in occasione dei compleanni: i cento anni di vita, sana ricca serena, si fanno anche ai neonati; quando affidati al buon cuore del padreterno, questi cento anni di augurio ci si accorge che si tratta di un lenzuolo che si va spostando, per cui dalla copertura dei piedi tende a salire, ormai prossimo a diventare sudario. Lasciando i piedi scoperti per poter legare all'alluce il cartellino di riconoscimento.
Il protagonista viene 'diagnosticato' e curato in Francia, a Parigi; io mi trovavo in Italia, e questo sarebbe stato un fatto positivo, visto che avrei potuto essere, che so, residente in Africa o in Siberia. Purtroppo sono stato colpito, e quasi affondato, nella parte italiana che della sanità ha fatto un'ipotesi opzionale, in cui la fortuna e il padreterno hanno un peso preponderante.
Cerco di farla breve, sintetizzando per quanto possibile la parte prettamente sanitaria.
I sintomi iniziali furono gli stessi del racconto, minzioni notturne frequenti, poi dolorose, poi con il sangue in bella vista, senza bisogno di esami al microscopio. Non c'era in zona un ambulatorio urologico, il medico di base mi aveva indicato un urologo a pagamento che periodicamente visitava presso il suo studio. Mal me ne incolse: dopo avere frantumato la mia verginità anale, dopo avere effettuato ecografie pelviche e addominali, per circa sei mesi mi aveva fatto prendere delle pillole, avendo diagnosticato una prostatite, secondo lui curabile con farmaci.
Poi un botto di fortuna: alla residenza sanitaria dove era ricoverata mia moglie era arrivato un medico, urologo, che operava in una struttura privata in convenzione, un po' fuori mano, difficile da raggiungere. Aveva intuito dagli esami che c'era qualcosa di più che una infiammazione, aveva contattato un urologo suo conoscente all'ospedale provinciale per effettuare con urgenza una cistoscopia esplorativa. 
Questa visita la devo raccontare, poiché credo sia unica nel suo genere. 
Mi ero presentato all'indomani in ospedale e mi avevano appoggiato in attesa nell'ufficio di questo primario, con la mia cartellina. Intanto sulla scrivania, in bella evidenza, c'era un portacenere pieno di cicche e un pacchetto di americane: fumo, quindi la cosa non avrebbe dovuto sconvolgermi più di tanto, ma vederle lì mi aveva mandato in crisi. Quando era arrivato, mentre esaminava i miei dati aveva ricevuto la telefonata di un parente che chiedeva notizie per una persona affidata alle sue attenzioni. L'aveva liquidato in maniera secca, quasi alterata; per poi dire a me, letteralmente: "Proprio non sopporto le persone ansiose". Mi ero salvato per un pelo. Sapendo che poco dopo mi avrebbe messo le mani addosso, anzi dentro, non avevo reagito. Non ero ansioso, ero talmente terrorizzato che non potevo permettermi di essere anche ansioso. Nel mentre masticavo i battiti del cuore per non rendermi odioso, ma fossi stato su una graticola a piena fiamma mi sarei scottato di meno...
Cistoscopia: introduzione di un tubicino nel pene, munito di minitelecamera per vedere l'interno. Il dolore aveva ammortizzato la vergogna dello stare a gambe spalancate a mo' di partoriente. Il primario che guardava il monitor, un mediconzolo che rigirava l'apparecchio (non ci giurerei, ma mi pareva fischiettasse), commenti affatto in sordina... C'era qualcosa.
Aveva dettato al manovratore la diagnosi, e mi ero reso conto che costui doveva essere più cieco di una talpa: occhiali con lenti spesse quanto bastava, nello scrivere a mano quanto suggerito stava a non più di un paio di centimetri dal modulo. 
Esperienza sconvolgente...
Avevo portato il foglio all'ormai mio urologo di fiducia, che mi aveva preannunciato la necessità di una ulteriore cistoscopia, con prelievo di reperto da esaminare; non aveva esitato a ipotizzare la presenza di un tumore, di cui l'esame bioptico avrebbe definito la vastità e la potenza.
Mi aveva indirizzato alla clinica in cui lui operava, dandomi tutte le dritte per raggiungerla. E là avevo avuto una dimostrazione di una efficienza sanitaria cui non ero aduso. Anche perché non avevo precedenti validi come riferimento.
Appuntamento all'entrata alle 8,30 del mattino. Per vizio congenito sulla puntualità, alle 8,15 ero all'entrata, registrazione, prelievi ematici e urine, RX torace, ecografia pelvica, posto letto... in meno di due ore. Una specie di catena di montaggio che mi aveva ricordato la Fiat Mirafiori di Torino di un tempo lontano, applicata alla sanità. Caso unico, non raro, mai rilevato prima, né poi.
Un infermiere mi aveva depilato accuratamente il pube. Guardandomi dopo la rasatura, avevo visto tra le gambe un galletto amburghese. Spennato. Defunto.
Anestesia con lombare, difficoltà a trovare spazio tra le vertebre ormai in unica soluzione senza cartilagini in cui infilare con facilità l'ago, diversi tentativi, alla fine mi ero sentito gonfio come un pallone aerostatico pronto a salire verso l'alto dei cieli.
In corso di perlustrazione, l'urologo parlava, forse per rasserenarmi; fino a quando, girando il monitor verso di me "Guarda, Pietro, la tua vescica dal di dentro": una piccola stanza di un abominevole colore rosato mi aveva fatto salire conati di vomito. Digiunissimo, solo conati, subito repressi.
Poi quasi tutto di routine. Reperto positivo, incontro con un noto medico specialista di chirurgia oncologica, sentenza senza appello: cistectomia radicale. La sera prima dell'intervento avevo avuto un lungo colloquio con il chirurgo che mi aveva spiegato i dettagli: si trattava di asportare sia la prostata che la vescica, in un colpo solo, rimuovendo eventuali linfonodi infettati. Nel corso dell'operazione sarebbe stato creato un condotto urinario la cui foce sarebbe stata nell'addome, alla destra dell'ombelico. Una sacca apposita, da incollare intorno al condotto stesso, avrebbe raccolto l'emesso, da vuotare di volta in volta nel water. Per la notte, un cordoncino ombelicale avrebbe immesso le urine notturne in altra sacca più capace, da vuotare al mattino.
Lunedì 13 ero entrato in reparto; lo stesso giorno e il seguente erano stati dedicati ai preparativi, con tutti gli esami di laboratorio previsti per il caso, compreso il nuovo depilamento puberale, affidato all'interessato con supervisione successiva di un infermiere. Per il giorno 15, mercoledì, era prevista la danza; digiuno dalla sera precedente, già bardato alla bisogna, c'era stato un problema a un intervento precedente, per cui il rendez-vous era saltato, con rinvio al giorno successivo. E il cuore, nonostante tutto, continuava a battere, apparentemente sereno, forse intontito da calmanti pre-anestetici...

Una manciata di ore l'intervento, che mi aveva lasciato in dote un cesareo verticale da poco sotto l'ombelico a poco sopra l'attacco del pene; che era stato lasciato, forse a futura memoria di un qualcosa che fu. Le calze antitrombo, un catetere per lo spurgo del siero dal pene, uno alla ferita, uno al nuovo condotto urinario; più l'ago della fleboclisi, un aggeggio per la pressione pinzato all'indice e la cannuccia dell'ossigeno alle narici. Tutto nella norma di questi trattamenti. 
Obbligatoriamente allettato supino, immobile, mi ero sentito come una delle mummie visitate all'Egizio di Torino. Una decina di giorni era durata la lenta salita al Calvario.
Tre mesi dopo, al primo controllo oncologico era stato messo in preventivo qualche ciclo di chemioterapia adiuvante; ma una sopravvenuta insufficienza renale, prima acuta al punto da far pensare alla fine della favola, poi divenuta cronica, stabilizzata su valori ancora fuori norma ma tollerabili, avevano dissuaso dal procedere. L'alternativa futura sarebbe stata: tentare di combattere una eventuale recidiva tumorale con la chemio, col rischio fondato di inciuccare del tutto i reni, finendo in dialisi.
Sono passati otto anni, fra poco farò l'ennesimo controllo, il timore è lo stesso della prima volta, anche la mancanza di sintomi non ne attenua l'ansia.
Fine della parte prettamente sanitaria.

La più parte del libro, pur accurata nella esposizione sanitaria, è dedicata soprattutto allo sbandamento psicologico del protagonista, alla sua lotta, al suo pensare e recedere da pensieri suicidi, alla disperazione per un evento chiaramente traumatico, al rimpianto continuo e persistente della donna come femmina, per lui che non si riteneva più, e in effetti fisicamente non era, maschio.
Prima di arrivare alla conclusione che come una donna resta donna anche senza seni, anche senza utero e ovaie, un uomo resta uomo anche senza prostata. E pure senza vescica. Sentirsi, ed essere, Uomo e Donna è un fatto prettamente mentale, non può essere legato a uno o più pezzi anatomici presenti ovvero asportati da un corpo che, al di sotto del cervello, è una composizione di sole ossa e frattaglie, avviluppate in un sacco di pelle.

Come mi ci sono sovrapposto con la parte qui appena descritta, sarebbe più semplice, ancorché più pratico, ribadire nel commento alla parte psicologica le stesse sensazioni, la stessa ribellione a un fatto compiuto che mi ha privato di due pezzi importanti dell'ingranaggio. 
Bene, mi sento un po' in colpa nell'andare a raccontare di reazioni diverse da quelle che è facile ritenere bagaglio doloroso per tutti, o quasi, coloro che hanno subito questa sventurata ablazione.

La perdita della cosiddetta virilità: nel colloquio con l'oncologo la sera prima dell'intervento, nel valutare un possibile perché a quanto successo, questi aveva ipotizzato che il malanno potesse essere dovuto (anche) a una situazione stressante, non necessariamente diagnosticata o diagnosticabile. 
Da quasi quattro anni ormai il mio stress aveva un nome: mia moglie. Dopo la batosta che l'aveva colpita, e di rimbalzo me, prima e dopo il ricovero nella residenza sanitaria, la tensione era stata sempre allo zenit e pure oltre; una tensione di preoccupazione che non aveva avuto momenti di tregua. Quindi può essere che (anche) quello abbia influito su quanto poi avvenuto. (Se venisse accertata un'attinenza, dovrò predisporre le carte in modo da chiederle, quando ci ritroveremo se va bene in Purgatorio, i danni per procurato stress seguito da menomazione colposa).
Non avevo mai tradito mia moglie nei più di quarant'anni precedenti, ancora meno mi sarei sognato di farlo con lei in quelle condizioni. Per la verità, non essendo proprio un fiore, api che nel corso degli anni abbiano cercato di suggermi ce ne sono state poche; e con quelle poche ho sempre glissato, magari lasciandole nel dubbio di un'appartenenza ad altra sponda; che, peraltro, mi avrebbe lasciato indifferente. Avevo colleghi più giovani di me, pure sposati, cui la lontananza da casa dava la necessità assoluta di una sveltina fuori porta. Fuori porta, il mio sogno era tornare appena possibile a casa mia, da mia moglie, al mio letto, al mio desco, al mio gatto. Ero chiaramente un 'diverso', ma la cosa non mi tangeva, come non mi tange a tutt'oggi...
Questo per dire che quanto alla perdità di una virilità attiva mi ero allenato per una quattrina d'anni, per cui quella non sarebbe stata una tegola o un fulmine a ciel sereno; anche se sereno quel cielo non era. 
In questo periodo avevo avuto le mie polluzioni notturne di adolescenziale memoria, presumibilmente provocate da sogni chiaramente hard; con la differenza che quelle in gioventù erano accolte con terrore nel timore che si trattasse di minzioni che, in collegio, mi avrebbero destinato alla lista dei piscialetto, che avrebbe portato a sveglie periodiche nel corso della notte e ad umilianti esposizioni diurne nei tempi di ricreazione. Invece in quelle ultime avevo raggiunto la consapevolezza che di semplici sfoghi umorali si trattava, ne prendevo atto e cambiavo la mutanda.

La sacchetta per le urine: dopo un breve periodo di assuefazione, meglio di accettazione, ho visto il lato positivo della vicenda. Mai più attese saltellanti fuori da un bagno occupato, o risvegli notturni per lo scarico vescicale. Inoltre, so che molti della mia età soffrono di perdite poco controllabili che li costringono alla portatura di pannoloni che, se impregnati, possono diffondere aromi pungenti e sgradevoli, nonché a cambi non previsti in momenti affatto opportuni. A me non servono.

Pensieri suicidi? No, ma non nego che ne avrei potuti avere, se solo fossi stato in grado di intendere al momento della presa d'atto che qualcosa di me se n'era andato. 
È successo che un paio di mesi dopo la dimissione dall'ospedale, mi ero ritrovato con la citata insufficienza renale nella fase acutissima, tanto che aveva fatto pensare a una dipartita ormai prossima. Febbre alle stelle, tachipirina a manciate, per una decina di giorni ero stato un falso senziente. Erano gli stessi giorni (16, 17, 18, 19 di giugno) che avevano finito per chiudere gli occhi a mia moglie, con me totalmente fuori causa. Ecco, fossi stato in condizioni di intendere e di volere, un pensierino al suicidio forse ci sarebbe potuto stare. 
Avevo perso un pezzo di me, per me stesso vitale: mia moglie. 
Il resto erano state frattaglie, che forse avranno fatto felici i felini che bazzicano nei pressi degli ospedali.

Alla soglia degli 82 vivo il presente e guardo al futuro, con la certezza di un passato che mi ha reso ricco di ricordi. Questo commento fa parte di quelli, anche se devo ammettere non essere tra i più appetibili.

Per chi fosse curioso di verficare la rispondenza a quanto qui esposto: 
L'ablazione, di Tahar Ben Jelloun, edito da Bompiani, 106 pagine, su Amazon 6 €.   

martedì 14 marzo 2023

In poche parole una vita

Sto invecchiando... me lo dice il calendario, me lo dicono gli acciacchi, me lo dice chi mi conosce quando, incontrandomi, mi tira su il morale con frasi tipo: "Sei un giovanotto, avessi io i tuoi anni sarei già decrepito...", nel mentre che in realtà pensano: "Hai poco meno di cent'anni, ma li porti proprio bene, sembri mummificato...".
E ai cent'anni manca ancora un quinto di vita...

I primi vent'anni li ho trascorsi in cattività, in domicilio coatto, colpevole solo di avere perso i genitori quando avevo appena due anni, in un periodo che non prevedeva pietà per chi il destino aveva affidato alla carità di chi poteva.
E chi avrebbe potuto, all'epoca, pensava a sopravvivere di suo, senza accettare l'ignoto di uno scarabocchio che anche il padreterno aveva abbandonato.  
Erano tempi in cui accogliere un orfano da parte di parenti significava una bocca in più da sfamare, un corpicino da seguire nella solo ipotizzabile crescita… qualcuno c'era che se ne assumeva l'onere. 
Nel caso mio, non c'era stato nessuno. 
Così la presa in carico era stata assunta da un ospizio prima e da un orfanotrofio in seguito. 
Sono stato un "senza famiglia", di cui Malot anni prima aveva raccontato la vita, ammesso che vita fosse. 
In fondo ho vissuto quei vent'anni in una famiglia allargata, variegata da caratteri e dialetti diversi; un periodo di formazione sui generis.
Non risultavo tra gli adottabili, per cui ho scontato la mia condanna fino all'ultimo giorno. 
Ottenuta la libertà, neanche vigilata (il che, in fondo, avrebbe dato un che di sicurezza nei primi passi nel nuovo mondo, assolutamente sconosciuto), fino a quasi 30 anni sono stato libero, di quella libertà che vincola più di una prigione: là, dov'ero stato prima, c'era chi ti diceva cosa e come e quando fare, in questa nuova vita le decisioni e le scelte erano solo tue, e non c'era la possibilità di assaporare il gusto dell'essere un vivente in un mondo di altri esseri viventi.
Una spada di Damocle virtuale pendeva costantemente sulla testa: se sbagli, paghi, era inciso sulla lama. Non ho sbagliato mai, anche se le tentazioni non sono mancate. Le ho, di volta in volta, respinte, ma non per coraggio o per convinzione: solo per paura, paura di fare cose che non avevo mai fatto. Cazzate ne ho fatte, ma sempre a mio discapito: per ingenuità o per mancanza di esperienze.
Una vita vissuta in camere ammobiliate, di volta in volta trovate in città diverse: tutte uguali, vuote, fredde. In tutti i sensi: dal riscaldamento (quante notti passate con il pastrano addosso, anche la notte, sotto coperte che non riuscivano a dare il calore minimo per poter dormire, per poter sognare), all'acqua dei lavandini; con le periodiche docce calde nei bagni pubblici delle stazioni; in tutto questo affatto diverse dal freddo calore del collegio, anche là niente acqua calda dai rubinetti, d'inverno caloriferi bollenti, ma insufficienti a riscaldare le grandi camerate che ci ospitavano. 
E i pasti in trattorie a basso costo, a prezzo fisso per portate fisse, forse fatte di avanzi o di piatti affatto graditi ai paganti a menu, ovvero panini e cappuccini a pranzo/cena. I soldi appena guadagnati erano a malapena sufficienti, e andava bene che i pagamenti avvenivano ogni sabato, altrimenti non so quanti fine mese mi avrebbero visto intento a tirare la cinghia per sostenere i pantaloni).

Poi mi sono sposato… e sono tornato in galera. 

Ma è una battuta (scontata), assolutamente falsa. Si è trattato di una "galera" durata quasi cinquant'anni, e sfido l'universo a trovare, in Italia, un carcerato che abbia mai così a lungo occupato una cella. 

Io solo, lei pure… non ci era voluto molto per capire che essere soli in due poteva alleviare quello stato di vita che poeticamente viene definito amarevole.

C'è chi dice che sia la mente a guidare i nostri passi; c'è chi dice sia il cuore. 

Falso, siamo guidati dal culo: c'è chi ce l'ha e c'è chi se lo fa. Io non l'ho avuto...

sabato 11 marzo 2023

Giornalismo di periferia

Oggi mi sono alzato col buzzo sbagliato e l'unico modo per raddrizzarlo è mettere nel post un pizzico di polemica. A seguire, un articolo che racconta di una tragedia, pubblicato da poco ma riferito a un evento accaduto parecchi giorni fa. Un ragazzo 30enne viene "sparato" in piena notte, viene ricoverato, diversi interventi tentano di salvargli la vita ma, dopo un breve miglioramento, le sue condizioni precipitano, portandolo alla morte.
Come in tutti i casi di eventi delittuosi a cui si dovrebbe dare una spiegazione, l'autopsia è il primo atto formale richiesto dai protocolli giudiziari.
L'articolo presenta il dolore di una madre, intanto per la perdita del figlio e poi per la ritardata consegna del suo cadavere agli affetti famigliari.
Fermi restando il rispetto e la condivisione del dolore di questa donna, l'articolo invita a un commento generico e altri più specifici. Il generico è questo prologo, gli altri in calce all'articolo stesso. Agli attori e ai luoghi metto le sole iniziali; sono fatti avvenuti dalle mie parti per cui chi sa sa, chi non sa non serve sappia di più.

L'articolo in (quasi) copia/incolla

«Voglio mio figlio, voglio dargli una sepoltura dignitosa e la pace che finora non ha avuto». E. L. è disperata. Il suo unico figlio, F. P., è morto lo scorso 27 febbraio all'ospedale del capoluogo di provincia, dopo dieci giorni di agonia, e da quel giorno attende ancora che la magistratura disponga l'autopsia sulla salma e le restituisca ai famigliari per i funerali. «Non ho potuto nemmeno salutarlo o dargli un ultimo bacio - ci dice -. Aiutatemi, nessuno mi fa sapere niente, io non ce la faccio più, non so più a chi rivolgermi». È dolore che si aggiunge altro dolore. Il giovane, che avrebbe compiuto 31 anni il prossimo 25 marzo, viveva a T. con la madre e la sera del 17 febbraio è stato colpito da una raffica di colpi di fucile caricato a pallettoni, proprio sotto la sua abitazione. In un primo momento, le sue condizioni non avevano destato grosse preoccupazioni, ma a poche ore dall'agguato, ancora avvolto nel mistero, il quadro clinico è peggiorato fino al tragico epilogo. Ora la sua mamma chiede solo di poter celebrare i funerali e portare un fiore sulla sua tomba, ma a distanza di quasi due settimane non si conosce nemmeno la data dell'esame autoptico.

L'agguato sotto casa
La procura di P. ha aperto un fascicolo di indagine sulla vicenda, che contesta ad ignoti l'accusa di omicidio. Per gli inquirenti sarà cruciale ricostruire gli ultimi minuti di vita del 30enne. «Quella notte mio figlio era tornato a casa e aveva fame - racconta la madre -, aveva tagliato la pancetta e messo a bollire l'acqua per la pasta». Poi lei gli dà la buonanotte e va a dormire. Quello che succede dopo è un nodo ancora da sciogliere. Di certo c'è che F. ha già buttato gli spaghetti in pentola, quando riceve una chiamata. Corre giù, in strada, senza spegnere il gas. Pochi istanti dopo è già riverso sul marciapiede, sanguinante, con il corpo crivellato, ma lucido e cosciente. Sono le sue urla ad allarmare il vicinato, ma non sua madre, che non si accorge di nulla. Sul posto arrivano due ambulanze, i sanitari caricano il paziente in barella e lo trasportano nel nosocomio, mentre gli spaghetti cominciano a bruciare e la sua casa si riempie di fumo. E. viene svegliata dai carabinieri intorno alle sei del mattino. «Non si preoccupi - le dicono i militari - suo figlio non è in pericolo di vita». F., infatti, nel tragitto verso l'ospedale parla, è vigile, sembra essere riuscito a schivare i colpi mortali. Ma alle 10 di quello stesso giorno i medici dell'ospedale sono costretti a sedarlo perché i dolori sono sempre più lancinanti. Quando arriva la madre, F. è già in coma indotto. Non si riprenderà più. Il suo cuore cesserà di battere dieci giorno dopo.

Una madre coraggio
E. non si rassegna. Per quel figlio ha dato l'anima, ma non è servito. «Mio figlio era caduto nel tunnel della tossicodipendenza - ci dice - e non c'è niente da nascondere. Mio figlio è una vittima». Anzi, lo aveva detto a tutti, amici e conoscenti: «Speravo che qualcuno lo aiutasse». Lei ci ha provato in tutti i modi. In piena pandemia l'ha convinto a disintossicarsi ed entrare in comunità, ma ci è rimasto soltanto un paio di mesi. Tornato a T., è rientrato nel giro della droga. «Allora l'ho denunciato, per il suo bene. Il cuore mi si è spezzato, ma speravo che lo arrestassero e lo portassero via da qui». Invece non succede nulla, se non che madre e figlio sono costretti a vivere separati. Ma un giorno il giovane citofona a casa: «Mamma - le dice, quando la vede sulla soglia della porta - lo sai che io non riesco a mangiare a casa di un altro». E. va a ritirare la denuncia. F. finalmente torna a casa, ma la tossicodipendenza non gli dà tregua. E nemmeno certi suoi "amici". Un anno e mezzo fa la sua auto va in fiamme nel cuore della notte, un mese prima dell'agguato qualcuno spara alla porta di casa. E. trema: «Chi è che ti vuole male? Ti prego, stai attento». F. si chiude a riccio. Forse lo sa che sta rischiando la vita, ma da certi giri non puoi uscirne, nemmeno se hai paura. Nemmeno se hai 30 anni e capisci che devi ricominciare tutto da capo. La notte del 17 febbraio, torna a casa dopo una serata con gli amici e sembra tranquillo. Ha fame. Vuole solo mangiare il suo piatto di pasta preferito e sprofondare nel suo letto. Invece sprofonda in una trappola mortale. «La situazione è drammatica - spiega sua madre -, qui ci sono un sacco di ragazzi nella sua situazione e nessuno li aiuta. Sono completamente ignorati dallo Stato e dalle istituzioni. Io voglio che tutti conoscano la storia di mio figlio perché spero di salvare altri giovani. Nessuna madre dovrebbe soffrire il mio stesso dolore». Il dolore di una madre che perde un figlio morto sparato e non ha ancora nemmeno un corpo su cui piangere.

L'articolo è firmato F.L., pubblicato sul web, dove ha raccolto decine e decine di like e reazioni di protesta e disapprovazione e critiche all'operato della giustizia. Oggi, come detto alzato col piede sbagliato, non riesco a non analizzare il senso di questo testo. 
Per quanto riportato, intanto è chiaro l'intento dell'articolista di rendere edotti i lettori del fatto che l'omicidio di questo ragazzo (riposi in pace) era evento assolutamente imprevedibile.
L'andamento della serata lascia quantomeno perplessi: F. rientra per cenare, forse non a tardissima notte, butta gli spaghetti, riceve una chiamata, lascia gli spaghetti sul fuoco e si allontana. E., non avendo il figlio precedenti tali da indurla in preoccupazione, se ne va a dormire. La casa si riempie di fumo a causa del gas acceso che fa bruciare gli spaghetti.
Nel frattempo, sotto casa non a chilometri di distanza, tra le due e le tre di notte, suo figlio viene crivellato di colpi. Arrivano le ambulanze, i carabinieri, la polizia locale; tutt'intorno il trambusto che sia i colpi di fucile che il traffico hanno generato, con i vicini a curiosare allarmati dai balconi o con la scesa in strada. Il ragazzo viene portato via e inizia i suoi ultimi passi verso la fine.
La madre viene svegliata alle sei del mattino, e a quell'ora apprende che appena fuori casa suo figlio è stato sparato. Il ragazzo, visti i precedenti, doveva essere ben noto alle forze dell'ordine, per cui non avranno avuto problemi nell'identificazione. I vicini conoscevano le 'imprese' del ragazzo (un'auto bruciata e colpi di arma da fuoco verso la porta di casa, il fatto che avesse rapporti con la droga, non passano inosservate, neanche in un mondo che ha fatto dell'indifferenza virtù), sapevano con chi abitava... e c'erano voluti i carabinieri, ore dopo il fattaccio, a comunicare l'accaduto.
La protesta, dolente e vibrata, viene riportata dall'articolista che si chiede, e chiede alle autorità competenti, il perché di un simile ritardo nella consegna del corpo del ragazzo. Omettendo, peraltro, di specificare che nel frattempo è partita, da parte del famigliari, una denuncia al nosocomio per presunte mancanze, ritardi, inosservanze nella cura del ragazzo.
Il che, probabilmente, sarebbe giustificativo di questo vituperato ritardo, poiché, vado a braccio, oltre all'omicidio si apre una querelle legale che, sempre probabilmente, richiederà ulteriori approfondimenti sulle modalità seguite nell'intervento curativo.
Da un po' di anni è vietato morire, sia d'incidente che d'accidente, sia di morte naturale che di qualunque altra morte: è ormai consuetudine puntare direttamente alla foce di queste morti, ossia il medico o la sanità in generale, ufficialmente per ottenere giustizia, in realtà per avere un qualche indennizzo, un risarcimento, un qualunque cosa per la perdita di persone care.
In casi come quello descritto nell'articolo, il resposabile dell'omicidio probabilmente un giorno sarà individuato, forse condannato... o fose no; comunque non sarà in grado di risarcire alcuno del danno fisico e morale causato. Causa della morte dei congiunti è sempre chi firma la cartella clinica che attesta il decesso, ed essendo persona fisica o giuridica facilmente individuabili, qualcosa alla fine magari si racimola. 
Mi sento moderatamente maligno nel vedere in questa denuncia il tentativo di avere da un figlio morto quello che non si è stati in grado di ottenere da lui vivo, preso atto del percorso distorto seguito da questi in vita.

mercoledì 8 marzo 2023

Otto marzo, parliamoci chiaro

Non lo faccio mai, ma oggi voglio condividere qui un testo appassionato e veritiero, il racconto di un Otto Marzo qualunque, il racconto di quello che è, il racconto di quello che dovrebbe essere.
E non sarà mai...
È di Titti De Simeis, che non conosco e che neanche mai conoscerò; come non ho conosciuto, nè mai conoscerò le migliaia di donne che nel corso dei secoli hanno fatto sentire la loro voce a un mondo perennemente sordo alle richieste di una vera parità di genere. Non le conosco, non la conosco, ma questo non mi è di impedimento a condividerne i pensieri e le parole e le opere.
Ogni Otto Marzo, pare un dcm, un codicillo della Costituzione, per "festeggiare" questo giorno, vengono sciorinate, con freddi numeri, le violenze, le morti, le disparità nei trattamenti: all'interno delle famiglie, nel lavoro, nelle chiese, nei tribunali, nelle carceri...
E domani sarà un altro giorno, un altro giorno da dimenticare, come sempre, da sempre.


OTTO MARZO (di Titti De Simeis)
Si festeggia la donna. Il mondo si colora di giallo mimosa, parte la caccia alle frasi d'effetto per i poeti dell'ultima ora; fiori e regali, cene a lume dell'apparenza, concerti in omaggio e tutto ciò che può sembrare festa. Che renda diverso un giorno all'anno in onore della donna. E che la renda felice, un giorno all'anno. Che la faccia sentire importante, un giorno all'anno. Il resto delle quotidianità, invece, viaggia in direzioni opposte, tra solite abitudini e promesse a tempo perso, dimenticate. Il mondo al femminile vive ancora di troppe carenze, poche certezze e risente di un passato che fa fatica a cancellarsi; vive di retaggi scottanti, di paure, violenze, preconcetti e un'arretratezza paradossale in un mondo che ha bevuto progresso fino a stordirsi. La donna continua, invece, a dissetarsi a piccoli sorsi, pagando i passi azzardati, costretta in amori troppo salati o troppo crudi, senza un lavoro perché madre, velata da leggi disumane, muta per sopravvivere o nuda per un piacere pagato, assuefatta a bugie, le solite, pronte a cancellare le lacrime. Circondata da uomini in carriera, giacca e cravatta, bellocci da scrivania bravi a giudicare una donna leader con commenti dal gusto scaduto, tra l'invidia per un ruolo estorto all'eredità maschile e la rabbia per un sorpasso che spaventa. Sconcerta ascoltare il silenzio, pesante ed acuto, di tutte quelle donne cui viene spenta la parola dietro ogni pensiero, desiderio, progetto e sogno lasciando loro solo il tempo dell'obbedienza o, per le più fortunate, della fuga verso mondi meno ingiusti. Sì, perché per le donne, in ogni parte del mondo, ciò che è giusto non esiste. La verità si traveste e si addomestica a seconda del bisogno. Si camuffa, si confonde o ritratta in difesa. Noi donne stiamo ancora così: apparentemente affrancate e sempre all'erta, consapevoli che l'universo al maschile non sarà mai pronto alla grande rivoluzione della parità, attento, invece, a linee di confine ben demarcate in nome del proprio, illuso, vantaggio. Noi, preparate ai compromessi, alla resa, a cambiarci d'abito e rimboccare il mattino con rinnovata pazienza o rammarico frenato dal quieto vivere: questo è il nostro otto marzo quotidiano. Un quotidiano intenso di piccoli passi, amore, forza e dignità, notti insonni e ninna nanne, lavori pesanti e mal pagati, letti sfatti e lividi tremanti di pioggia, piatti caldi zitti di complicità. Noi vorremmo non festeggiare perché la normalità è fuori dai riflettori e, se non esiste la 'festa dell'uomo', quella della donna sa di contentino mascherato di ipocrisia. Non vogliamo una festa che ci ricordi quanto siamo state, e siamo ancora, considerate 'diverse', 'inferiori', 'deboli', 'cose' da gestire, possedere, umiliare, vendere e massacrare. Non vogliamo nient'altro che i nostri diritti. Uguali per tutte. Uguali a quelli dell'uomo. E i diritti non si festeggiano, sono definiti 'inalienabili' e vengono riconosciuti ad ogni essere umano, senza alcuna differenza di genere. Ci sono stati sottratti, negati, sono stati equivocati a tornaconto di una società in cui l'uomo avesse le redini e il controllo su tutto. E questo si chiama sopruso. Sopportarlo ci è costato, e ci costa, tanto. No. Noi non lo vogliamo un giorno per 'celebrare' ciò che dovrebbe essere, da sempre, indiscusso e indiscutibile. Non un'eccezione. Né una conquista. Come ogni conquista fatta dalle donne: eccezionale non dovrebbe essere più.