domenica 19 marzo 2023

"L'ablazione", visita a un testo difficile

Non credo sia stato facile scriverlo, questo libro; non è facile da leggere, e risulta difficile da digerire. E da capire a fondo, salvo conoscerne a priori il peso e la portata. E, in questo caso, anche il commentarlo diventa affatto semplice.
Se quello che racconta fosse stato esposto da un medico, meglio da un chirurgo, meglio ancora da un chirurgo urologo, avrebbe il sapore di un romanzo frutto di fantasia medica, in cui la descrizione avrebbe avuto forzatamente una sua freddezza professionale, le sensazioni e le paure sarebbero state frutto di una ripresa, di una videata, di una presa indiretta di quanto fosse stato raccontato da un paziente di fantasia.
Parla, il testo, di un matematico che affida a uno scrittore famoso la descrizione del suo accidente, nella parte fisica e in quella psicologica. Per cui dopo un breve preambolo di questi, in cui anticipa lo sviluppo del testo, fa passare il protagonista alla prima persona singolare, dando a tutto il sapore di un disagio profondo, dovuto alla scoperta di un tumore, di un brutto tumore, che dai primissimi, quasi ignorati, segnali segue la sua evoluzione diagnostica, poi alle cure messe in atto per eradicarlo, e alle prestazioni successive all'intervento per tenere sotto controllo quanto salvato. Controlli che ravvivano in lui i timori di una ricaduta che sarebbe fatale.
Tutta la parte 'tecnica', sanitaria, del racconto risulta essere supporto a un rimescolamento di sensazioni, di paure, di prese di coscienza che niente sarà più come prima. Mai più...
Mi sono andato a guardare l'etimologia precisa del termine ablazione che dà il titolo a questo libretto: di primo acchito ho trovato che si riferisce a particolari interventi mini invasivi relativi a fatti cardiaci. Che già non è che sia proprio zucchero filato...
No, l'ablazione di cui si parla riguarda una parte del corpo umano maschile che, a torto o a ragione, ha per la mente dell'uomo un'importanza capitale. Forse sarebbe stato più esatto, più rispondente, dire asportazione, ma capisco che avrebbe potuto fuorviare il lettore che si fosse fermato al solo titolo; sostantivo che peraltro viene richiamato nel testo.
Infatti di asportazione si tratta: della prostata. Ossia della parte mascolina dell'uomo, quella su cui si basa l'ancestrale valutazione della sua virilità.
Racconta il dramma di un uomo che, intorno ai sessant'anni, si ritrova all'improvviso con un tumore prostatico. Parla dei primi sintomi con dovizia di particolari, gli esami, la vergogna della messa a nudo di parti di sé prima occulte, dell'introduzione rettale per arrivare alla diagnosi finale che non dà possibilità di scelta.
Bisogna inoltrarsi nella lettura, soffrendo con il protagonista, partecipando alle sue sofferenze fisiche, ma soprattutto partecipando alla sua lenta presa di coscienza che la dipendenza da una ghiandola non può essere il destino di una vita. E infatti alla fine si adegua, superando periodi depressivi alternati ad attimi di speranza per una soluzione favorevole a una vita, nonostante tutto, degna di essere vissuta. 
Un calice, da sorseggiare fino all'ultima goccia, ancorché si tratti di un calice di fiele.

Dicevo all'inizio delle difficoltà di scrittura, di lettura e di comprensione del testo.
Ebbene, non è che il commento possa essere di facile stesura. Anzi, più che commento, mi piace pensare che si tratti di una integrazione, di un completamento, ma anche di chiarimento di alcune dissimiglianze che ho avuto modo di rilevare.
Ci sono passato, e in maniera ancora più estesa di quella raccontata nel libro. Forse è uno dei pochi argomenti di cui posso trattare con assoluta 'competenza' diretta, contro altri che ho avuto modo di esporre per sentito dire o rubato da letture o da lontani ricordi. Non che quegli altri racconti di vita vissuta non mi siano cari, ma lo sono, anche i più coinvolgenti, in una forma direi dolcemente amara.
La parte 'tecnica' del racconto è una ripetizione quasi similare a quanto da me passato. Salvo alcune differenze sostanziali, giustificate da un paio di fattori importanti: l'età del paziente e la locazione degli interventi che lo hanno rimesso in pista. In più, come detto, un 'lavoretto' con base più estesa di quella descritta.
L'età: contro i suoi sessant'anni c'erano, all'epoca del mio guaio, i miei quasi settantacinque. Un'età cui di solito si tende a dare un limite temporale prossimo, a meno di essere politici d'alto bordo o cardinali di santa romana chiesa. Quel limite temporale viene evidenziato in occasione dei compleanni: i cento anni di vita, sana ricca serena, si fanno anche ai neonati; quando affidati al buon cuore del padreterno, questi cento anni di augurio ci si accorge che si tratta di un lenzuolo che si va spostando, per cui dalla copertura dei piedi tende a salire, ormai prossimo a diventare sudario. Lasciando i piedi scoperti per poter legare all'alluce il cartellino di riconoscimento.
Il protagonista viene 'diagnosticato' e curato in Francia, a Parigi; io mi trovavo in Italia, e questo sarebbe stato un fatto positivo, visto che avrei potuto essere, che so, residente in Africa o in Siberia. Purtroppo sono stato colpito, e quasi affondato, nella parte italiana che della sanità ha fatto un'ipotesi opzionale, in cui la fortuna e il padreterno hanno un peso preponderante.
Cerco di farla breve, sintetizzando per quanto possibile la parte prettamente sanitaria.
I sintomi iniziali furono gli stessi del racconto, minzioni notturne frequenti, poi dolorose, poi con il sangue in bella vista, senza bisogno di esami al microscopio. Non c'era in zona un ambulatorio urologico, il medico di base mi aveva indicato un urologo a pagamento che periodicamente visitava presso il suo studio. Mal me ne incolse: dopo avere frantumato la mia verginità anale, dopo avere effettuato ecografie pelviche e addominali, per circa sei mesi mi aveva fatto prendere delle pillole, avendo diagnosticato una prostatite, secondo lui curabile con farmaci.
Poi un botto di fortuna: alla residenza sanitaria dove era ricoverata mia moglie era arrivato un medico, urologo, che operava in una struttura privata in convenzione, un po' fuori mano, difficile da raggiungere. Aveva intuito dagli esami che c'era qualcosa di più che una infiammazione, aveva contattato un urologo suo conoscente all'ospedale provinciale per effettuare con urgenza una cistoscopia esplorativa. 
Questa visita la devo raccontare, poiché credo sia unica nel suo genere. 
Mi ero presentato all'indomani in ospedale e mi avevano appoggiato in attesa nell'ufficio di questo primario, con la mia cartellina. Intanto sulla scrivania, in bella evidenza, c'era un portacenere pieno di cicche e un pacchetto di americane: fumo, quindi la cosa non avrebbe dovuto sconvolgermi più di tanto, ma vederle lì mi aveva mandato in crisi. Quando era arrivato, mentre esaminava i miei dati aveva ricevuto la telefonata di un parente che chiedeva notizie per una persona affidata alle sue attenzioni. L'aveva liquidato in maniera secca, quasi alterata; per poi dire a me, letteralmente: "Proprio non sopporto le persone ansiose". Mi ero salvato per un pelo. Sapendo che poco dopo mi avrebbe messo le mani addosso, anzi dentro, non avevo reagito. Non ero ansioso, ero talmente terrorizzato che non potevo permettermi di essere anche ansioso. Nel mentre masticavo i battiti del cuore per non rendermi odioso, ma fossi stato su una graticola a piena fiamma mi sarei scottato di meno...
Cistoscopia: introduzione di un tubicino nel pene, munito di minitelecamera per vedere l'interno. Il dolore aveva ammortizzato la vergogna dello stare a gambe spalancate a mo' di partoriente. Il primario che guardava il monitor, un mediconzolo che rigirava l'apparecchio (non ci giurerei, ma mi pareva fischiettasse), commenti affatto in sordina... C'era qualcosa.
Aveva dettato al manovratore la diagnosi, e mi ero reso conto che costui doveva essere più cieco di una talpa: occhiali con lenti spesse quanto bastava, nello scrivere a mano quanto suggerito stava a non più di un paio di centimetri dal modulo. 
Esperienza sconvolgente...
Avevo portato il foglio all'ormai mio urologo di fiducia, che mi aveva preannunciato la necessità di una ulteriore cistoscopia, con prelievo di reperto da esaminare; non aveva esitato a ipotizzare la presenza di un tumore, di cui l'esame bioptico avrebbe definito la vastità e la potenza.
Mi aveva indirizzato alla clinica in cui lui operava, dandomi tutte le dritte per raggiungerla. E là avevo avuto una dimostrazione di una efficienza sanitaria cui non ero aduso. Anche perché non avevo precedenti validi come riferimento.
Appuntamento all'entrata alle 8,30 del mattino. Per vizio congenito sulla puntualità, alle 8,15 ero all'entrata, registrazione, prelievi ematici e urine, RX torace, ecografia pelvica, posto letto... in meno di due ore. Una specie di catena di montaggio che mi aveva ricordato la Fiat Mirafiori di Torino di un tempo lontano, applicata alla sanità. Caso unico, non raro, mai rilevato prima, né poi.
Un infermiere mi aveva depilato accuratamente il pube. Guardandomi dopo la rasatura, avevo visto tra le gambe un galletto amburghese. Spennato. Defunto.
Anestesia con lombare, difficoltà a trovare spazio tra le vertebre ormai in unica soluzione senza cartilagini in cui infilare con facilità l'ago, diversi tentativi, alla fine mi ero sentito gonfio come un pallone aerostatico pronto a salire verso l'alto dei cieli.
In corso di perlustrazione, l'urologo parlava, forse per rasserenarmi; fino a quando, girando il monitor verso di me "Guarda, Pietro, la tua vescica dal di dentro": una piccola stanza di un abominevole colore rosato mi aveva fatto salire conati di vomito. Digiunissimo, solo conati, subito repressi.
Poi quasi tutto di routine. Reperto positivo, incontro con un noto medico specialista di chirurgia oncologica, sentenza senza appello: cistectomia radicale. La sera prima dell'intervento avevo avuto un lungo colloquio con il chirurgo che mi aveva spiegato i dettagli: si trattava di asportare sia la prostata che la vescica, in un colpo solo, rimuovendo eventuali linfonodi infettati. Nel corso dell'operazione sarebbe stato creato un condotto urinario la cui foce sarebbe stata nell'addome, alla destra dell'ombelico. Una sacca apposita, da incollare intorno al condotto stesso, avrebbe raccolto l'emesso, da vuotare di volta in volta nel water. Per la notte, un cordoncino ombelicale avrebbe immesso le urine notturne in altra sacca più capace, da vuotare al mattino.
Lunedì 13 ero entrato in reparto; lo stesso giorno e il seguente erano stati dedicati ai preparativi, con tutti gli esami di laboratorio previsti per il caso, compreso il nuovo depilamento puberale, affidato all'interessato con supervisione successiva di un infermiere. Per il giorno 15, mercoledì, era prevista la danza; digiuno dalla sera precedente, già bardato alla bisogna, c'era stato un problema a un intervento precedente, per cui il rendez-vous era saltato, con rinvio al giorno successivo. E il cuore, nonostante tutto, continuava a battere, apparentemente sereno, forse intontito da calmanti pre-anestetici...

Una manciata di ore l'intervento, che mi aveva lasciato in dote un cesareo verticale da poco sotto l'ombelico a poco sopra l'attacco del pene; che era stato lasciato, forse a futura memoria di un qualcosa che fu. Le calze antitrombo, un catetere per lo spurgo del siero dal pene, uno alla ferita, uno al nuovo condotto urinario; più l'ago della fleboclisi, un aggeggio per la pressione pinzato all'indice e la cannuccia dell'ossigeno alle narici. Tutto nella norma di questi trattamenti. 
Obbligatoriamente allettato supino, immobile, mi ero sentito come una delle mummie visitate all'Egizio di Torino. Una decina di giorni era durata la lenta salita al Calvario.
Tre mesi dopo, al primo controllo oncologico era stato messo in preventivo qualche ciclo di chemioterapia adiuvante; ma una sopravvenuta insufficienza renale, prima acuta al punto da far pensare alla fine della favola, poi divenuta cronica, stabilizzata su valori ancora fuori norma ma tollerabili, avevano dissuaso dal procedere. L'alternativa futura sarebbe stata: tentare di combattere una eventuale recidiva tumorale con la chemio, col rischio fondato di inciuccare del tutto i reni, finendo in dialisi.
Sono passati otto anni, fra poco farò l'ennesimo controllo, il timore è lo stesso della prima volta, anche la mancanza di sintomi non ne attenua l'ansia.
Fine della parte prettamente sanitaria.

La più parte del libro, pur accurata nella esposizione sanitaria, è dedicata soprattutto allo sbandamento psicologico del protagonista, alla sua lotta, al suo pensare e recedere da pensieri suicidi, alla disperazione per un evento chiaramente traumatico, al rimpianto continuo e persistente della donna come femmina, per lui che non si riteneva più, e in effetti fisicamente non era, maschio.
Prima di arrivare alla conclusione che come una donna resta donna anche senza seni, anche senza utero e ovaie, un uomo resta uomo anche senza prostata. E pure senza vescica. Sentirsi, ed essere, Uomo e Donna è un fatto prettamente mentale, non può essere legato a uno o più pezzi anatomici presenti ovvero asportati da un corpo che, al di sotto del cervello, è una composizione di sole ossa e frattaglie, avviluppate in un sacco di pelle.

Come mi ci sono sovrapposto con la parte qui appena descritta, sarebbe più semplice, ancorché più pratico, ribadire nel commento alla parte psicologica le stesse sensazioni, la stessa ribellione a un fatto compiuto che mi ha privato di due pezzi importanti dell'ingranaggio. 
Bene, mi sento un po' in colpa nell'andare a raccontare di reazioni diverse da quelle che è facile ritenere bagaglio doloroso per tutti, o quasi, coloro che hanno subito questa sventurata ablazione.

La perdita della cosiddetta virilità: nel colloquio con l'oncologo la sera prima dell'intervento, nel valutare un possibile perché a quanto successo, questi aveva ipotizzato che il malanno potesse essere dovuto (anche) a una situazione stressante, non necessariamente diagnosticata o diagnosticabile. 
Da quasi quattro anni ormai il mio stress aveva un nome: mia moglie. Dopo la batosta che l'aveva colpita, e di rimbalzo me, prima e dopo il ricovero nella residenza sanitaria, la tensione era stata sempre allo zenit e pure oltre; una tensione di preoccupazione che non aveva avuto momenti di tregua. Quindi può essere che (anche) quello abbia influito su quanto poi avvenuto. (Se venisse accertata un'attinenza, dovrò predisporre le carte in modo da chiederle, quando ci ritroveremo se va bene in Purgatorio, i danni per procurato stress seguito da menomazione colposa).
Non avevo mai tradito mia moglie nei più di quarant'anni precedenti, ancora meno mi sarei sognato di farlo con lei in quelle condizioni. Per la verità, non essendo proprio un fiore, api che nel corso degli anni abbiano cercato di suggermi ce ne sono state poche; e con quelle poche ho sempre glissato, magari lasciandole nel dubbio di un'appartenenza ad altra sponda; che, peraltro, mi avrebbe lasciato indifferente. Avevo colleghi più giovani di me, pure sposati, cui la lontananza da casa dava la necessità assoluta di una sveltina fuori porta. Fuori porta, il mio sogno era tornare appena possibile a casa mia, da mia moglie, al mio letto, al mio desco, al mio gatto. Ero chiaramente un 'diverso', ma la cosa non mi tangeva, come non mi tange a tutt'oggi...
Questo per dire che quanto alla perdità di una virilità attiva mi ero allenato per una quattrina d'anni, per cui quella non sarebbe stata una tegola o un fulmine a ciel sereno; anche se sereno quel cielo non era. 
In questo periodo avevo avuto le mie polluzioni notturne di adolescenziale memoria, presumibilmente provocate da sogni chiaramente hard; con la differenza che quelle in gioventù erano accolte con terrore nel timore che si trattasse di minzioni che, in collegio, mi avrebbero destinato alla lista dei piscialetto, che avrebbe portato a sveglie periodiche nel corso della notte e ad umilianti esposizioni diurne nei tempi di ricreazione. Invece in quelle ultime avevo raggiunto la consapevolezza che di semplici sfoghi umorali si trattava, ne prendevo atto e cambiavo la mutanda.

La sacchetta per le urine: dopo un breve periodo di assuefazione, meglio di accettazione, ho visto il lato positivo della vicenda. Mai più attese saltellanti fuori da un bagno occupato, o risvegli notturni per lo scarico vescicale. Inoltre, so che molti della mia età soffrono di perdite poco controllabili che li costringono alla portatura di pannoloni che, se impregnati, possono diffondere aromi pungenti e sgradevoli, nonché a cambi non previsti in momenti affatto opportuni. A me non servono.

Pensieri suicidi? No, ma non nego che ne avrei potuti avere, se solo fossi stato in grado di intendere al momento della presa d'atto che qualcosa di me se n'era andato. 
È successo che un paio di mesi dopo la dimissione dall'ospedale, mi ero ritrovato con la citata insufficienza renale nella fase acutissima, tanto che aveva fatto pensare a una dipartita ormai prossima. Febbre alle stelle, tachipirina a manciate, per una decina di giorni ero stato un falso senziente. Erano gli stessi giorni (16, 17, 18, 19 di giugno) che avevano finito per chiudere gli occhi a mia moglie, con me totalmente fuori causa. Ecco, fossi stato in condizioni di intendere e di volere, un pensierino al suicidio forse ci sarebbe potuto stare. 
Avevo perso un pezzo di me, per me stesso vitale: mia moglie. 
Il resto erano state frattaglie, che forse avranno fatto felici i felini che bazzicano nei pressi degli ospedali.

Alla soglia degli 82 vivo il presente e guardo al futuro, con la certezza di un passato che mi ha reso ricco di ricordi. Questo commento fa parte di quelli, anche se devo ammettere non essere tra i più appetibili.

Per chi fosse curioso di verficare la rispondenza a quanto qui esposto: 
L'ablazione, di Tahar Ben Jelloun, edito da Bompiani, 106 pagine, su Amazon 6 €.   

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