La Terra continua a cullarci, come fossimo bimbi che non vogliono dormire, piagnucolando capricci per non farlo.
E ci vanno di mezzo anche i bimbi buoni, che a quell'ora già stanno sognando e vorrebbero dormire felici fino all'indomani.
Se culli un bambino per farlo dormire, prima o poi crollerà, è una delle leggi della natura, a meno che i capricci non nascondano un malanno.
Se vai a cullare un bimbo che dorme, quello si sveglia e poi sono cavoli acidi per farlo riaddormentare.
Se poi, più che cullarlo, gli dai uno scossone al letto, oltre al delitto di interrompere un sogno, c'è la possibilità che lo spaventi di brutto e che, per almeno una mezz'oretta resti sveglio, allarmato.
Ore 1,05, "questo" bambino dormiva beato, sognando non ricorda cosa, ma sicuramente cose belle (gli incubi mai nulla li interrompe), quando, budubum-budubum-budubum, qualcuno aveva scosso il suo letto, con violenza.
"Blu, se non la smetti subito ti sfesso, porca gatta!".
Il tempo di rendersi conto che gatta non era, poiché chiusa fuori dalla stanza, e aveva pensato subito a mamma Terra che (all'animaccia sua!) si era messa a cullare il bimbo dormiente, con scosse rumorose.
Sveglia obbligata, buio pesto, luce saltata, a tentoni ricerca della torcia, miagolio straziante di Blu pestata nella ricerca allo scuro, salvavita a posto, ergo...
Ergo, non era stato svegliato solo lui.
Felpa sulle spalle, uno sguardo all'esterno: cielo stellato, uniche luci, insufficienti ad illuminare l'oscurità generale; sapeva che laggiù, verso il mare, c'era il paese, ma appariva come una distesa di pece che, senza l'interruzione dei lampioni del lungomare accesi, proseguiva nel mare stesso, all'infinito.
E silenzio. Assoluto, quasi a fare pendant col buio.
Il tempo di fumare una sigaretta (è un bimbo precoce, le cose schifose le sa apprezzare) e, visto il perdurare del buio e del silenzio, era rientrato in casa, ed era tornato a letto per riprendere il sonno interrotto.
Il sogno no: non ricordandone il punto d'intoppo, ne aveva cominciato un altro, ex novo.
Interrotto pure questo, di primissima mattina: squilli di telefono, "come state? tutto bene?".
Tutto bene, grazie.
Venerdì 26 ottobre 2012: il bambino si rende conto che oggi non è giornata, oltre il resto fa pure freddolino, nonostante il sole tra le nuvole faccia capolino.
Per oggi le cose belle e brutte, solitamente oggetto delle chiacchiere quotidiane, saranno accantonate, per parlare soltanto di questa cullata violenta che madre terra ci ha regalato.
Ciao a tutti.
venerdì 26 ottobre 2012
domenica 21 ottobre 2012
Gatto fenice
Premessa, doverosa verso gli studiosi di scaramantica e di jettatologia applicata: i gatti neri portano sfortuna.
A se
stessi.
E’ stata
un’estate calda, caldissima, che lo dico a fare.
C’è chi
dice sia stata la più calda degli ultimi trent’anni; per altri, studiosi
conventuali (trappisti, cistercensi, benedettini, adoratori di Ra…), abituati a
esplorare il passato fino alla cosiddetta particella di Dio, solo il big-bang
della nascita dell’universo è stato superiore in calura, ma di pochi gradi (e
comunque durati solo un secondo, mentre questa estate va avanti da mesi), che
allora si basavano soltanto sulle percezioni della propria pelle. A questi
studi, forse, oggi risale l’abbinata recente della percettibilità effettiva
contrapposta ai gradi segnalati dagli strumenti; che, come tutti gli strumenti
tecnologici, sono chiaramente fallaci e corrotti (pure loro).
Estate
caldissima, niente pioggia, neanche a farci la danza .
Dando
acqua alla terra, nel tentativo di salvare il salvabile dei pochi ortaggi
sopravvissuti (con un vago senso di colpa, poiché so benissimo che l’acqua è un
bene prezioso e c’è un sacco di gente che muore a causa della sua mancanza;
senso di colpa peraltro mitigato dalla vista di persone che, imperterrite,
lavavano le macchine, nei cortili e in strada, alla faccia dei richiami del
podestà di turno e le sue minacce di sanzioni, regolarmente ignorati i primi e
snobbate le seconde), innaffiando, col pisciolo al minimo per tacitare la
coscienza, più e più volte avevo alzato gli occhi al cielo, inteso come volta
celeste da cui, fino a prova contraria, dovrebbero scendere, almeno ogni tanto,
delle gocce bagnate, volgarmente dette pioggia, alla ricerca di qualche
nuvoletta che desse speranza di un buon rovescio a mitigare sete e calura.
Alza gli
occhi ieri, alzali oggi, una bella notte (eufemistico: in realtà, visto il
seguito, una notte maledetta), un po’ nel sogno un po’ nella realtà, avevo
sentito un brontolio sordo e lontano di tuoni, preceduto da lampi (che intuivo
più che vederli, attraverso lo strizzare degli occhi nell’ingenuo tentativo di
non svegliarmi del tutto), seguiti dal ticchettio di goccioloni, picchiettanti
argentini sui tegoli vecchi del tetto e su altro, già citati nella nota poesia,
ma riferita, questa, al mese di marzo e non a un inizio di settembre.
Per
abitudine ormai consolidata e per
esperienze brucianti precedenti in fatto di temporali, tutte le sere stacco la
corrente del cancello elettrico del parcheggio e scollego il computer che,
oltretutto, ha pure una presa antifulmine di sicurezza, che dovrebbe fare da
filtro agli sbalzi anomali di tensione.
Avrebbe
dovuto fare da filtro…
Lampi, tuoni,
pioggia a catinelle: il tipico temporale estivo, quello invocato da mesi e
ormai insperato.
Uno di
questi lampi (miserabile schifoso fetente, e pure fellone), sottovalutato nella
notte, con la certezza di avere adottato tutte le misure per essere al sicuro
da brutte sorprese, che, come detto poco fa, già in passato avevano colpito a
tradimento, mi ha scassato il pc (leggasi: porca canaglia) e dintorni. A parte
il fatto che, anche risvegliato del tutto, non avrei potuto fare nulla per
bloccare la saetta.
All’inizio
fu la scheda madre: cambiata con tutta calma da un tecnico che della vita deve
avere capito il meglio: mai fare oggi quello che si può fare domani (che deve
essere la filosofia, per dire, applicata alla A3, nella tratta Salerno-Reggio
Calabria, eterna incompiuta come strada, ma benissimo funzionante come voragine
mangiasoldi).
Poi fu
il modem, o router, o come diavolo si chiama, insomma quell’aggeggio che
dovrebbe consentire i collegamenti adsl, internet, explorer, google, firefox…
Uno scatolino che, svuotato delle frattaglie, avrebbe un buon uso come
portasigari e niente più.
Da
cambiare: stessa filosofia del “chi ha tempo aspetti quello successivo, è una
materia che non si esaurisce, e quello di domani è sicuramente più fresco”.
Poi google
ed explorer che non ne volevano sapere di darmi la linea; sembrava dialogassero
tra loro a suon di messaggi criptati; in chiaro solo la pubblicità e le offerte
di premi se avessi cliccato qui o cliccato là.
Per un
mese e mezzo circa ho continuato ad alzare gli occhi alla volta celeste, non
più per chiedere pioggia, ma per una serie quotidiana di perorazioni, che
tornavano a me mittente censurate da una serie infinita di bip.
Bontà
sua, nei giorni scorsi google mi ha concesso l’entrata a gmail, che mi ha
consentito l’invio di messaggi di chiarimento verso amiche che lo avevano
sollecitato tramite questo mezzo benemerito.
Blogger
incagliato, insabbiato, vaporizzato… pagina bianca o invito, in rosso, a
lasciar perdere. Ho battuto queste righe su office word 2007, sperando di
rientrare quanto prima in possesso del mio blog, col dubbio che questo mi
risulti totalmente cancellato o di non riuscire nel trasferimento di queste due
righe di rientro in pista.
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A parte
questo guaio non mi sono annoiato; in un paio di giorni ho letto “Una scuola come tutte le altre” di
Perboni, che comunque anche in tempi normali mi sarei sciroppato velocemente,
poiché troppo deliziosamente avvincente.
Ho
ripreso a leggere “Storia d’Italia”
di Cervi-Montanelli, che la lettura quotidiana dei blog mi aveva fatto
accantonare.
E “Terroni” di Pino Aprile, che leggo a spizzichi e mozzichi,
poiché una lettura prolungata mi fa drizzare il pelo e mi fa andare in bestia.
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Poi la vendemmia...
Una schifezza,
pochissima uva e pure brutta, quasi tutta rinsecchita dalla calura estiva (o
dal malocchio di quelli del piano di sopra, coloro che non potendomi
sputacchiare in testa lo avranno fatto verso la mia vite), soprattutto quella
nera; si è salvata un po’ l’uva fragola, che mi piace solo da piluccare, visto
che il dolciastro aromatico di quel vino proprio non mi va.
Nella
raccolta abbiamo nutrito qualche miliardo di zanzare, che al dolce dell’uva
preferivano l’amarevole del nostro sangue. Comunque qualcuna ha pagato il suo
buon gusto con la vita.
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La
bambina di casa (vent’anni a fine agosto) è partita per la capitale, diretta
alla scuola per i test di ammissione, portandosi appresso la mononucleosi,
scoperta solo una decina di giorni prima della partenza; curata malamente e
malaccortamente dal medico con antibiotici non specifici, se la sta trascinando
con mal di gola con placche, febbriciattola costante, stanchezza e inappetenza,
tutti malanni che amici ottimisti (per esperienza vissuta) dicono accidenti che
dureranno per mesi.
Nonostante
ciò brillantemente ammessa.
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Angela,
per chi sa di chi e di cosa parlo, sta bene.
Compatibilmente.
E in
questa compatibilità sono racchiusi tutti quei paletti che fanno la differenza
tra lo stare bene in piena libertà e lo stare bene in cattività, sia essa
sanitaria, giudiziaria o economica.
La
costrizione sanitaria e quella giudiziaria esistono da sempre, entrambe
malamente sopportate, la prima perché comunque ineluttabile, la seconda con la
fiducia (per noi popolino, o meglio popolame, di solito mal riposta e comunque
sempre severissima, mentre per l’olimpo in tutte le sue branche è una fiducia
che diventa subito certezza: di impunità) di trovare inquirenti e giudici che
sappiano anche di legge, per i quali sia per tutti, indistintamente, dura lex,
sed lex.
La
cattività economica è la forma più recente di costrizione, non apertamente
dichiarata, ma operante con maggiore efficienza che le due precedenti versioni
di prigionia, con quei vincoli che obbligano a limitare la propria capacità
economica per adeguarla a decisioni che altri prendono a nome e in nome nostro,
il più delle volte con scelte sciagurate.
Dai
giornali: la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali i tagli ai
cosiddetti rappresentanti del popolo e dei manager pubblici da loro stessi
sponsorizzati; sono invece costituzionali tutti i tagli messi in atto verso il
popolo stesso. Sopra, tra quanto letto in questo infelice lasso di tempo, ho
dimenticato “La Costituzione”: mi sono riletto i 139 articoli che la compongono, e
pure i 18 capi delle Norme Transitorie. Cercavo una parola, che non sono
riuscito a trovare: vergogna . Questo
mi ha fatto capire perché non è presa in considerazione da nessun organo
‘costituzionale’: se in un testo, sacro e intoccabile per una minima parte di
cittadini, quel termine non esiste, ne consegue che non è da prendere in esame,
tanto meno da mettere in atto.
Per gli
altri, tutti noi, vale il vecchio “tirare la cinghia”, fino a trovarcisi
impiccati.
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Inoltre in
questo mesetto abbondante ho avuto conferma che la morte non è la fine di una
vita, ma soltanto una sua componente; a ben guardare, forse neanche la più
importante.
Se ne
sono andati in nove, nello spazio temporale di cinquanta giorni, per una
superficie di poco più di circa duemila metri quadrati coperti; in una grande
città, o anche in un piccolo paese, sarebbe una percentuale minuscola, ma in
spazi e tempi così ristretti obbliga a pensare, giorno dopo giorno.
E sono
considerazioni ricorrenti e ripetitive, fino a diventare quasi una forma di
paranoia.
Alcune
di queste persone erano conosciute per via di una frequenza quotidiana,
perlomeno di vista; altre, che mai avevano potuto abbandonare il letto,
assolutamente sconosciute.
Queste
ultime, semplicemente numeri, di stanza e di letto.
All’arrivo,
uno o l’altro, addetti o pazienti, dà la notizia: “Tizio/a se n’è andato/a”, e
non sono necessarie altre specifiche.
Solo una
volta, chiedendo di Vincenzo (era approdato là una quindicina di giorni prima,
malmesso quel tanto da consentirne il ricovero, ma lucido e cosciente), che non
vedevo più in giro e non avevo avuto modo di conoscere meglio, avevano risposto
“se n’è andato”; non mi era sembrato così prossimo a quell’ultimo miglio, per
cui avevo accennato una breve veloce croce nell’aria per avere conferma a una
presa d’atto, ormai divenuta consueta.
Dicevo
della sua lucidità, sapeva di dover morire, non
sapeva quando e come, ma aveva deciso perlomeno per il “dove”: a casa
sua. Se n’era andato con i suoi piedi, nel vero senso dell’espressione.
Mentre
batto queste righe, devo aggiornare il numero, i partenti sono diventati dieci:
se n’è andata anche Cesira.
Poco
meno di un anno fa era toccato al marito, Orazio, trovato morto un mattino di
novembre, seduto in poltrona, a casa sua. Aveva visitato la moglie, chiodata in
una carrozzina, mattino e pomeriggio per anni, portandole sempre qualcosa da
mangiare e imboccandola, pulendone gli sbavamenti e sopportando giobbescamente
le sue frequenti ire, non sapremo mai se e quanto consapevoli.
All’epoca,
appresa la notizia, assolutamente inattesa, con un pizzico di cinismo da bookmakers della baiona (quello che
consente di placare un po’ il magone che attanaglia cuore e stomaco), eravamo pronti
a scommettere sulla sopravvivenza della moglie al massimo per un mese, tanto
sembrava evidente la sua dipendenza dal suo Orazio. I nipoti lo avevano
sostituito con una specie di badante, senza che lei mostrasse segni di
insofferenza verso quel cambio.
E avremmo perso la scommessa.
La
speranza, in posti come questo, finisce presto accantonata, e al suo posto
subentra l’attesa.
Quando
questa finisce, lacrime da versare non ce ne sono più: sono represse, quando e
quanto possibile, nel tempo, un periodo che dura talvolta anni. D’estate escono
dai pori, miscelate al sudore estivo, nella stagione invernale sono tiepida
brina, che gli abiti più pesanti assorbono, rendendole invisibili.
Quando
arriva l’ora, negli occhi resta solo l’umido fisiologico che impedisce la
secchezza delle palpebre; e un grande
improvviso vuoto dentro, incolmabile per un certo periodo; poi anche quello si
riempie con la rassegnazione a un evento supinamente subito.
Non c’è
neanche lo spazio a scene di disperazione, consuete in queste occasioni, ma
altrove, non qui. Non si danno le condoglianze: in un silenzioso abbraccio si
trasmette la partecipazione finale a un dolore trascinato e condiviso nel
tempo.
In
rassegnata comune attesa.
Come si
fosse nell’arena di un circo, lo spettacolo della vita deve continuare.
E’ una
specie di post scriptum: sorgendo
dalle ceneri, sono andato a vedere se il blog fosse in ordine; all’ultimo post,
dedicato alle lacrime di Bossi (dubbio: forse il malocchio citato più sopra non
fu opera di quelli dei piani alti del mio caseggiato…), visto l’alto numero dei
commenti, sono rimasto colpito da quanti fossero, e, non ritenendo che le
lacrime di questo signore richiedessero cotanta attenzione, me ne sono uscito
con un “eh, la peppa!”.
Scorrendoli
ho dovuto correggere con “eh, la madonna!”, dopo avere scoperto che la più
parte erano richiesta di notizie sulla mia salute e sulla mia latitanza. Alcune
ribadite per e-mail.
Che
dire: umanamente dispiaciuto per i (forse brutti) pensieri offerti, felinamente
lusingato per quelli ricevuti.
La parte
umana e quella felina ringraziano, con un abbraccio e un bacio alla Botero,
enormi.
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Finalino:post
lunghetto, lo confesso, ma dopo un’astinenza di oltre cinquanta giorni, vorrei
vedere chi non si sarebbe abbuffato. E comunque il lungo fa sempre elegante. Adesso vado a pasteggiare in giro per i
blog, a vedere cosa mi sono perso. Ciao.
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