venerdì 26 ottobre 2012

1,05: sveglia, dormiglione!

La Terra continua a cullarci, come fossimo bimbi che non vogliono dormire, piagnucolando capricci per non farlo.
E ci vanno di mezzo anche i bimbi buoni, che a quell'ora già stanno sognando e vorrebbero dormire felici fino all'indomani.
Se culli un bambino per farlo dormire, prima o poi crollerà, è una delle leggi della natura, a meno che i capricci non nascondano un malanno.
Se vai a cullare un bimbo che dorme, quello si sveglia e poi sono cavoli acidi per farlo riaddormentare.
Se poi, più che cullarlo, gli dai uno scossone al letto, oltre al delitto di interrompere un sogno, c'è la possibilità che lo spaventi di brutto e che, per almeno una mezz'oretta resti sveglio, allarmato.
Ore 1,05, "questo" bambino dormiva beato, sognando non ricorda cosa, ma sicuramente cose belle (gli incubi mai nulla li interrompe), quando, budubum-budubum-budubum, qualcuno aveva scosso il suo letto, con violenza.
"Blu, se non la smetti subito ti sfesso, porca gatta!".
Il tempo di rendersi conto che gatta non era, poiché chiusa fuori dalla stanza, e aveva pensato subito a mamma Terra che (all'animaccia sua!) si era messa a cullare il bimbo dormiente, con scosse rumorose.
Sveglia obbligata, buio pesto, luce saltata, a tentoni ricerca della torcia, miagolio straziante di Blu pestata nella ricerca allo scuro, salvavita a posto, ergo...
Ergo, non era stato svegliato solo lui.
Felpa sulle spalle, uno sguardo all'esterno: cielo stellato, uniche luci, insufficienti ad illuminare l'oscurità generale; sapeva che laggiù, verso il mare, c'era il paese, ma appariva come una distesa di pece che, senza l'interruzione dei lampioni del lungomare accesi, proseguiva nel mare stesso, all'infinito.
E silenzio. Assoluto, quasi a fare pendant col buio.
Il tempo di fumare una sigaretta (è un bimbo precoce, le cose schifose le sa apprezzare) e, visto il perdurare del buio e del silenzio, era rientrato in casa, ed era tornato a letto per riprendere il sonno interrotto.
Il sogno no: non ricordandone il punto d'intoppo, ne aveva cominciato un altro, ex novo.
Interrotto pure questo, di primissima mattina: squilli di telefono, "come state? tutto bene?".
Tutto bene, grazie.
Venerdì 26 ottobre 2012: il bambino si rende conto che oggi non è giornata, oltre il resto fa pure freddolino, nonostante il sole tra le nuvole faccia capolino.
Per oggi le cose belle e brutte, solitamente oggetto delle chiacchiere quotidiane, saranno accantonate, per parlare soltanto di questa cullata violenta che madre terra ci ha regalato.
Ciao a tutti.

domenica 21 ottobre 2012

Gatto fenice




Premessa, doverosa verso gli studiosi di scaramantica e di jettatologia applicata: i gatti neri portano sfortuna.
A se stessi.

E’ stata un’estate calda, caldissima, che lo dico a fare.
C’è chi dice sia stata la più calda degli ultimi trent’anni; per altri, studiosi conventuali (trappisti, cistercensi, benedettini, adoratori di Ra…), abituati a esplorare il passato fino alla cosiddetta particella di Dio, solo il big-bang della nascita dell’universo è stato superiore in calura, ma di pochi gradi (e comunque durati solo un secondo, mentre questa estate va avanti da mesi), che allora si basavano soltanto sulle percezioni della propria pelle. A questi studi, forse, oggi risale l’abbinata recente della percettibilità effettiva contrapposta ai gradi segnalati dagli strumenti; che, come tutti gli strumenti tecnologici, sono chiaramente fallaci e corrotti (pure loro).
Estate caldissima, niente pioggia, neanche a farci la danza .
Dando acqua alla terra, nel tentativo di salvare il salvabile dei pochi ortaggi sopravvissuti (con un vago senso di colpa, poiché so benissimo che l’acqua è un bene prezioso e c’è un sacco di gente che muore a causa della sua mancanza; senso di colpa peraltro mitigato dalla vista di persone che, imperterrite, lavavano le macchine, nei cortili e in strada, alla faccia dei richiami del podestà di turno e le sue minacce di sanzioni, regolarmente ignorati i primi e snobbate le seconde), innaffiando, col pisciolo al minimo per tacitare la coscienza, più e più volte avevo alzato gli occhi al cielo, inteso come volta celeste da cui, fino a prova contraria, dovrebbero scendere, almeno ogni tanto, delle gocce bagnate, volgarmente dette pioggia, alla ricerca di qualche nuvoletta che desse speranza di un buon rovescio a mitigare sete e calura.
Alza gli occhi ieri, alzali oggi, una bella notte (eufemistico: in realtà, visto il seguito, una notte maledetta), un po’ nel sogno un po’ nella realtà, avevo sentito un brontolio sordo e lontano di tuoni, preceduto da lampi (che intuivo più che vederli, attraverso lo strizzare degli occhi nell’ingenuo tentativo di non svegliarmi del tutto), seguiti dal ticchettio di goccioloni, picchiettanti argentini sui tegoli vecchi del tetto e su altro, già citati nella nota poesia, ma riferita, questa, al mese di marzo e non a un inizio di settembre.
Per abitudine ormai consolidata e  per esperienze brucianti precedenti in fatto di temporali, tutte le sere stacco la corrente del cancello elettrico del parcheggio e scollego il computer che, oltretutto, ha pure una presa antifulmine di sicurezza, che dovrebbe fare da filtro agli sbalzi anomali di tensione.
Avrebbe dovuto fare da filtro…
Lampi, tuoni, pioggia a catinelle: il tipico temporale estivo, quello invocato da mesi e ormai insperato.
Uno di questi lampi (miserabile schifoso fetente, e pure fellone), sottovalutato nella notte, con la certezza di avere adottato tutte le misure per essere al sicuro da brutte sorprese, che, come detto poco fa, già in passato avevano colpito a tradimento, mi ha scassato il pc (leggasi: porca canaglia) e dintorni. A parte il fatto che, anche risvegliato del tutto, non avrei potuto fare nulla per bloccare la saetta.



All’inizio fu la scheda madre: cambiata con tutta calma da un tecnico che della vita deve avere capito il meglio: mai fare oggi quello che si può fare domani (che deve essere la filosofia, per dire, applicata alla A3, nella tratta Salerno-Reggio Calabria, eterna incompiuta come strada, ma benissimo funzionante come voragine mangiasoldi).
Poi fu il modem, o router, o come diavolo si chiama, insomma quell’aggeggio che dovrebbe consentire i collegamenti adsl, internet, explorer, google, firefox… Uno scatolino che, svuotato delle frattaglie, avrebbe un buon uso come portasigari e niente più.
Da cambiare: stessa filosofia del “chi ha tempo aspetti quello successivo, è una materia che non si esaurisce, e quello di domani è sicuramente più fresco”.
Poi google ed explorer che non ne volevano sapere di darmi la linea; sembrava dialogassero tra loro a suon di messaggi criptati; in chiaro solo la pubblicità e le offerte di premi se avessi cliccato qui o cliccato là.
Per un mese e mezzo circa ho continuato ad alzare gli occhi alla volta celeste, non più per chiedere pioggia, ma per una serie quotidiana di perorazioni, che tornavano a me mittente censurate da una serie infinita di bip.


Bontà sua, nei giorni scorsi google mi ha concesso l’entrata a gmail, che mi ha consentito l’invio di messaggi di chiarimento verso amiche che lo avevano sollecitato tramite questo mezzo benemerito.
Blogger incagliato, insabbiato, vaporizzato… pagina bianca o invito, in rosso, a lasciar perdere. Ho battuto queste righe su office word 2007, sperando di rientrare quanto prima in possesso del mio blog, col dubbio che questo mi risulti totalmente cancellato o di non riuscire nel trasferimento di queste due righe di rientro in pista.
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A parte questo guaio non mi sono annoiato; in un paio di giorni ho letto “Una scuola come tutte le altre” di Perboni, che comunque anche in tempi normali mi sarei sciroppato velocemente, poiché troppo deliziosamente avvincente.
Ho ripreso a leggere “Storia d’Italia” di Cervi-Montanelli, che la lettura quotidiana dei blog mi aveva fatto accantonare.
E “Terroni” di  Pino Aprile, che leggo a spizzichi e mozzichi, poiché una lettura prolungata mi fa drizzare il pelo e mi fa andare in bestia.
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Poi la vendemmia...
Una schifezza, pochissima uva e pure brutta, quasi tutta rinsecchita dalla calura estiva (o dal malocchio di quelli del piano di sopra, coloro che non potendomi sputacchiare in testa lo avranno fatto verso la mia vite), soprattutto quella nera; si è salvata un po’ l’uva fragola, che mi piace solo da piluccare, visto che il dolciastro aromatico di quel vino proprio non mi va.
Nella raccolta abbiamo nutrito qualche miliardo di zanzare, che al dolce dell’uva preferivano l’amarevole del nostro sangue. Comunque qualcuna ha pagato il suo buon gusto con la vita.
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La bambina di casa (vent’anni a fine agosto) è partita per la capitale, diretta alla scuola per i test di ammissione, portandosi appresso la mononucleosi, scoperta solo una decina di giorni prima della partenza; curata malamente e malaccortamente dal medico con antibiotici non specifici, se la sta trascinando con mal di gola con placche, febbriciattola costante, stanchezza e inappetenza, tutti malanni che amici ottimisti (per esperienza vissuta) dicono accidenti che dureranno per mesi.
Nonostante ciò brillantemente ammessa.
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Angela, per chi sa di chi e di cosa parlo, sta bene.
Compatibilmente.
E in questa compatibilità sono racchiusi tutti quei paletti che fanno la differenza tra lo stare bene in piena libertà e lo stare bene in cattività, sia essa sanitaria, giudiziaria o economica.
La costrizione sanitaria e quella giudiziaria esistono da sempre, entrambe malamente sopportate, la prima perché comunque ineluttabile, la seconda con la fiducia (per noi popolino, o meglio popolame, di solito mal riposta e comunque sempre severissima, mentre per l’olimpo in tutte le sue branche è una fiducia che diventa subito certezza: di impunità) di trovare inquirenti e giudici che sappiano anche di legge, per i quali sia per tutti, indistintamente, dura lex, sed lex.
La cattività economica è la forma più recente di costrizione, non apertamente dichiarata, ma operante con maggiore efficienza che le due precedenti versioni di prigionia, con quei vincoli che obbligano a limitare la propria capacità economica per adeguarla a decisioni che altri prendono a nome e in nome nostro, il più delle volte con scelte sciagurate.
Dai giornali: la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali i tagli ai cosiddetti rappresentanti del popolo e dei manager pubblici da loro stessi sponsorizzati; sono invece costituzionali tutti i tagli messi in atto verso il popolo stesso. Sopra, tra quanto letto in questo infelice lasso di tempo, ho dimenticato “La Costituzione”: mi sono riletto i 139 articoli che la compongono, e pure i 18 capi delle Norme Transitorie. Cercavo una parola, che non sono riuscito a trovare: vergogna . Questo mi ha fatto capire perché non è presa in considerazione da nessun organo ‘costituzionale’: se in un testo, sacro e intoccabile per una minima parte di cittadini, quel termine non esiste, ne consegue che non è da prendere in esame, tanto meno da mettere in atto.
Per gli altri, tutti noi, vale il vecchio “tirare la cinghia”, fino a trovarcisi impiccati.
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Inoltre in questo mesetto abbondante ho avuto conferma che la morte non è la fine di una vita, ma soltanto una sua componente; a ben guardare, forse neanche la più importante.
Se ne sono andati in nove, nello spazio temporale di cinquanta giorni, per una superficie di poco più di circa duemila metri quadrati coperti; in una grande città, o anche in un piccolo paese, sarebbe una percentuale minuscola, ma in spazi e tempi così ristretti obbliga a pensare, giorno dopo giorno.
E sono considerazioni ricorrenti e ripetitive, fino a diventare quasi una forma di paranoia.
Alcune di queste persone erano conosciute per via di una frequenza quotidiana, perlomeno di vista; altre, che mai avevano potuto abbandonare il letto, assolutamente sconosciute.
Queste ultime, semplicemente numeri, di stanza e di letto.
All’arrivo, uno o l’altro, addetti o pazienti, dà la notizia: “Tizio/a se n’è andato/a”, e non sono necessarie altre specifiche.
Solo una volta, chiedendo di Vincenzo (era approdato là una quindicina di giorni prima, malmesso quel tanto da consentirne il ricovero, ma lucido e cosciente), che non vedevo più in giro e non avevo avuto modo di conoscere meglio, avevano risposto “se n’è andato”; non mi era sembrato così prossimo a quell’ultimo miglio, per cui avevo accennato una breve veloce croce nell’aria per avere conferma a una presa d’atto, ormai divenuta consueta.
Dicevo della sua lucidità, sapeva di dover morire, non  sapeva quando e come, ma aveva deciso perlomeno per il “dove”: a casa sua. Se n’era andato con i suoi piedi, nel vero senso dell’espressione.
Mentre batto queste righe, devo aggiornare il numero, i partenti sono diventati dieci: se n’è andata anche Cesira.
Poco meno di un anno fa era toccato al marito, Orazio, trovato morto un mattino di novembre, seduto in poltrona, a casa sua. Aveva visitato la moglie, chiodata in una carrozzina, mattino e pomeriggio per anni, portandole sempre qualcosa da mangiare e imboccandola, pulendone gli sbavamenti e sopportando giobbescamente le sue frequenti ire, non sapremo mai se e quanto consapevoli.
All’epoca, appresa la notizia, assolutamente inattesa, con un pizzico di cinismo da bookmakers della baiona (quello che consente di placare un po’ il magone che attanaglia cuore e stomaco), eravamo pronti a scommettere sulla sopravvivenza della moglie al massimo per un mese, tanto sembrava evidente la sua dipendenza dal suo Orazio. I nipoti lo avevano sostituito con una specie di badante, senza che lei mostrasse segni di insofferenza verso quel cambio.
E avremmo perso la scommessa.
La speranza, in posti come questo, finisce presto accantonata, e al suo posto subentra l’attesa.
Quando questa finisce, lacrime da versare non ce ne sono più: sono represse, quando e quanto possibile, nel tempo, un periodo che dura talvolta anni. D’estate escono dai pori, miscelate al sudore estivo, nella stagione invernale sono tiepida brina, che gli abiti più pesanti assorbono, rendendole invisibili.
Quando arriva l’ora, negli occhi resta solo l’umido fisiologico che impedisce la secchezza delle palpebre;  e un grande improvviso vuoto dentro, incolmabile per un certo periodo; poi anche quello si riempie con la rassegnazione a un evento supinamente subito.
Non c’è neanche lo spazio a scene di disperazione, consuete in queste occasioni, ma altrove, non qui. Non si danno le condoglianze: in un silenzioso abbraccio si trasmette la partecipazione finale a un dolore trascinato e condiviso nel tempo.
In rassegnata comune attesa.
Come si fosse nell’arena di un circo, lo spettacolo della vita deve continuare.




E’ una specie di post scriptum: sorgendo dalle ceneri, sono andato a vedere se il blog fosse in ordine; all’ultimo post, dedicato alle lacrime di Bossi (dubbio: forse il malocchio citato più sopra non fu opera di quelli dei piani alti del mio caseggiato…), visto l’alto numero dei commenti, sono rimasto colpito da quanti fossero, e, non ritenendo che le lacrime di questo signore richiedessero cotanta attenzione, me ne sono uscito con un “eh, la peppa!”.
Scorrendoli ho dovuto correggere con “eh, la madonna!”, dopo avere scoperto che la più parte erano richiesta di notizie sulla mia salute e sulla mia latitanza. Alcune ribadite per e-mail.
Che dire: umanamente dispiaciuto per i (forse brutti) pensieri offerti, felinamente lusingato per quelli ricevuti.
La parte umana e quella felina ringraziano, con un abbraccio e un bacio alla Botero, enormi.
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Finalino:post lunghetto, lo confesso, ma dopo un’astinenza di oltre cinquanta giorni, vorrei vedere chi non si sarebbe abbuffato. E comunque il lungo fa sempre elegante. Adesso vado a pasteggiare in giro per i blog, a vedere cosa mi sono perso. Ciao.