domenica 31 ottobre 2010

Prima di tutto

NO

alla caccia

NO

alle corride

NO    NO    NO

alla  vivisezione

Settimana di mobilitazione contro la vivisezione

Questo non è un post, è solo un miagolio. Oggi è festa, per favore trovate due minuti per visitare RIVOLUZIONE DEL PENSIERO di Ondina, quello è un post da leggere. Attentamente.

Un essere vivente che fa esperimenti su altri esseri viventi ha solo un nome: Mengele

lunedì 25 ottobre 2010

Sinistri cinque



Il palazzo dove eravamo andati ad abitare era isolato, di fronte c’era una grande piazza, senza fronzoli, con erba, terra battuta e pianticelle tutt’intorno.
Sul retro un grande campo, coltivato per lo più a mais; oltre questo c’era la linea ferroviaria.
A livello strada c’erano tre negozi: una fioraia, un tabaccaio e, in un locale più piccolo, un sarto.
Questa fioraia aveva stretto amicizia con mia moglie, che la andava ad aiutare, passandoci il tempo mentre io ero al lavoro.
L’amore per i fiori e la frequentazione l’avevano messa in grado di partecipare alle varie lavorazioni, imparando, come si dice, il mestiere.
Così quando la fioraia, per fatti suoi, aveva deciso di andare altrove, la proposta di rilevamento del negozio era stata quasi automatica.
Quando mi aveva accennato questa possibilità, non avevo mostrato alcun entusiasmo, sia perché il commercio non rientrava nelle mie simpatie, sia perché ero conscio che avrebbe limitato il mio tempo libero.
Alla fine, come sempre quando una donna si mette in testa qualcosa a cui si è contrari, avevo aderito.
Esami, iscrizione alla camera di commercio, registro iva e altre cartacce burocratiche: tutto superato con grande rottura di…
Il negozio, grazie anche a una certa trascuratezza della fioraia, era, come si dice, terra-terra.
Avevo vincolato il mio “sì” a una sola condizione: se, putacaso, lo avessimo portato a un buon livello, con un impegno tale da mettermi in obbligo di scegliere tra il mio lavoro e il negozio, avremmo ceduto questo, senza ‘se’ e senza ‘ma’.
Seguire un negozio, ancorché floricolo, con una 850 spyder, ovviamente, non era cosa.
Avevo scelto una via di mezzo tra un furgone e un’utilitaria adatta alla bisogna: una Simca 1100, quelle con una specie di bauletto posteriore e i sedili completamente ribaltabili, da formare un piano di carico accettabile.
Sulla vita (infernale) cui mi aveva costretto il negozio parlerò in post specifici. Qui continuo con i sinistri.
Tra gli obblighi dell’attività floricola c’era ‘anche’ quello di andare al mercato generale dei fiori, naturalmente situato dall’altra parte della città, oltre la distanza dal paese di cintura di partenza.
Questo mercato, riservato esclusivamente agli operatori del settore, apriva alle cinque e mezzo del mattino; per entrare era necessario un ‘pass’ da rinnovare anno dopo anno; l’entrata era controllata da guardie giurate, che facevano passare esclusivamente i titolari della carta.
Dimenticavo: la moglie non aveva la patente e non dimostrava nessun interesse a prenderla, tanto c’era il ciuchino che svolgeva tutte le funzioni di facchinaggio inerenti il negozio.
Più tutte le altre, naturalmente.
Come già accennato in precedenti post, il mio lavoro si svolgeva sempre di pomeriggio; ogni tanto ‘anche’ al mattino, e ogni altrettanto ‘anche’ la sera; in questi casi fino a mezzanotte.
Il mio pudore a parlare dei fatti miei, forse mi ha impedito di dire che, a parte la vita, il sonno è il mio bene più prezioso. Adesso lo sapete.
Torniamo agli incidenti.
Ultima decade di un ottobre, situato negli ultimi anni di tenuta del negozio, che nel frattempo stava arrivando al limite di troppo buon andamento, e quindi si approssimava la possibilità di cessione a suo tempo prevista.
In vista della festa dei Santi, ma soprattutto dei morti (che non sono una festività bensì una ricorrenza, ma per i fiorai sicuramente una lauta festività), ogni mattina sveglia alle cinque, caffè, e via andare verso il mercato.
Per me una quotidiana goduria, che non sto a raccontare altrimenti mi vien da piangere.
Strada umidificata da delicati fiorellini, tanto per stare in tema, di neve; un corso che era un’autostrada; a quell’ora solo io con la mia Simca; un semaforo, puntualmente rosso e puntualmente rispettato.
Su quel corso si affacciava una grossa fabbrica.
A quell’ora smontavano gli operai del turno di notte.
Erano in quattro su una macchina.
O l’autista aveva inserito il pilota automatico senza attivare il radar di bordo, o doveva avere preso bene la mira.
Causa il viscido del nevischio non avevo neanche sentito se ci fosse stata o meno la frenata.
Avevo solo visto nel retrovisore le luci che si avvicinavano, e la botta al didietro della macchina.
La testa della moglie aveva ciondolato in avanti e indietro; meno male che, essendo storicamente vuota, non aveva subito danni oltre al classico colpetto di frusta.
I quattro erano scesi, otto braccia allargate, come per dire”scusi, non l’abbiamo fatto apposta”:
Scambio di dati indirizzi telefono, e appuntamento all’indomani mattina, domenica, per definire meglio le cose.
Come detto, sotto i Santi la macchina era indispensabile, più per il negozio che per il mio lavoro; per questo avrei potuto prendere benissimo mezzi pubblici, pur se un po’ disagiati per via degli orari.
In giornata, visita al carrozziere: spiegate le mie necessità, lui con un po’ di martellate mi aveva rimesso in sesto il culetto della macchina, aveva cambiato la fanaleria posteriore e rimesso in strada quel tanto da poter viaggiare.
Santi e morti passati benino, a parte il mazzo del lavoro in negozio.
Dall’incidente erano passati una dozzina di giorni. Non ero ancora andato dal carrozziere, perché troppo impegnato su entrambi i fronti, lavoro e negozio.
Il posto di lavoro era situato su un lungo corso, rettilineo, abbastanza ampio da consentire un traffico agevole e, soprattutto, la possibilità di parcheggio senza problemi.
Quel pomeriggio avevo parcheggiato sulla sinistra, dietro la macchina di un collega; dietro di me, a distanza di una decina di metri, erano parcheggiate altre vetture di altri colleghi.
Nel tardo pomeriggio mi aveva chiamato il custode, allarmato, dal gabbiotto all’entrata:
“Guardi che le hanno bocciato la macchina…”.
Pensiero: “Abbiamo uno sparviero per custode!”.
Parola: “Guarda che è più di una settimana che me l’hanno bocciata…”.
“No no, adesso adesso…”.
Brevemente, per non smentirmi.
Ragazzo e ragazza avevano deciso di scambiarsi effusioni, evidentemente dopo avere puntato la mia già sderenata Simca.
E ci si erano fermati contro.
La ragazza con la testa aveva fracassato il parabrezza anteriore, abbattendolo del tutto; il ragazzo, una botta al torace e tanto spavento.
La mia povera macchina, bisderenata, era finita contro quella avanti a lei.
Se ci fossi stato dentro, sarei stato cotoletta dentro un panino.
Conclusione: per il didietro avevo beccato da due assicurazioni, per il davanti da una sola.
Insomma, perlomeno le spese le avevo salvate.

giovedì 21 ottobre 2010

È notte

L’è nòta

Fra e’fug dl’aröla
e la bóca de camén
i curiêndul’d falug
i stasêva a gala,
i s’impiêva, i s’amurtêva
coma lózal
chel zuga a gnascundëla
fra el spig de grân.

E tla faza dla nòta
la gratusa del stël
la fasêva el gatózal
a la pël de zil
par disté e’ côr
insunlì de sôl.

La vôs de silénzi
l’era pulida
coma ‘e són dôlz
d’ogni burdël.

Ti mur dla ca
nud et paröl
i spén dla fiâma
j’era cóz lôna
a spas in te bur.

In che mumént
i cavèl ed màma
i turnéva d’incânt
culôr de grȃn,
ôn mantël d’ôr
sôra a la spala.

Rósa ‘d vargógna,
coma ai sófi
de prem amôr,
li la zerchèva
la mân de su vëcc,
incôra chêlda
d’udôr et stala.

(Anonimo – 1981)


Per chi non conosce il plenilunio, il gatto l’ha letta così:

È notte

Fra il fuoco del focolare
e la bocca del camino
i coriandoli di faville
restavano a galla,
s’accendevano, si spegnevano
come lucciole
che giocano a nascondino
fra le spighe del grano.

E sulla faccia della notte
la grattugia delle stelle
faceva il solletico
alla pelle del cielo
per svegliare il cuore
insonnolito del sole.

La voce del silenzio
era pulita
come il sonno dolce
d’ogni bambino.

Sui muri della casa
nudi di parole
gli spini della fiamma
erano cocci di luna
a passeggio nel buio.

In quel momento
i capelli di mamma
tornavano d’incanto
color del grano,
un mantello d’oro
sopra la spalla.

Rossa di vergogna,
come al soffio
del primo amore,
lei cercava
la mano del suo vecchio,
ancora calda
d’odore di stalla.



giovedì 14 ottobre 2010

Sinistri quattro

Ci eravamo sposati, avendo ancora in dotazione la 850 spyder.
Avevamo trovato alloggio in un paese della cintura, un palazzo nuovissimo, tant’è che i mobili, regolarmente acquistati a rate, li avevamo portati nella nuova casa passando su gradini di marmo ricoperti ancora con paglia mista a calce, per non farli rovinare sia dai muratori ancora all’opera, che da traslocanti maldestri.
Prima dei mobili, pulizia dei pavimenti e delle tracce di calce; pranzo al sacco, con panini e birra.
Il tempo utile, per me, era al mattino.
La testé divenuta signora proseguiva al pomeriggio, in serata mi raggiungeva al lavoro, e tornavamo all’alloggetto ammobiliato, nido provvisorio in attesa di quello definitivo.
Il pisolino, dopo il panino e la birra, nella vasca da bagno, una maglia arrotolata per cuscino.
Il posto di lavoro era a una quindicina di chilometri; una strada fiancheggiata da campi coltivati con qualche abitazione, qua e là, mi portava verso il centro città.
Stessa strada, per anni. Solo d’inverno, per neve o ghiaccio, preferivo un corso centrale, più trafficato, ma anche più curato.
Nella strada campagnola, il vantaggio era il quasi nullo traffico; lo svantaggio grosso erano la brina scivolosa e la nebbia.

In quel periodo, due incidentucoli.

Fermo allo stop, sguardo a sinistra in attesa del passaggio di auto in arrivo.
Un tizio dietro, anche lui sguardo a sinistra; forse per avere più visuale, aveva deciso che tra lui e la linea di stop non c’era nessuno.
Sbaam!
Scambio di cortesie reciproco: per me, lui avrebbe dovuto guardare ‘anche’ davanti; per lui, semplicemente io non dovevo essere lì, fermo allo stop.
Per fortuna era assicurato, sinistro risolto.

Il secondo, dovuto alla nebbia.
Al pomeriggio, andando al lavoro, poteva capitare che ci fosse il sole.
Alla sera, in primavera autunno inverno, in contrasto con il sole del giorno, sovente c’era nebbia; e quando dico nebbia intendo quella che la panna montata è vetro trasparente.
In città, all’uscita dal lavoro, il fenomeno era assente, forse ridotto dalle correnti d’aria tra palazzi, che la dissolvevano al primo formarsi.
Quella era una sera di nebbia-nebbia.
Già fuori dalla città, trovato il muro, avrei dovuto tornare indietro e andare per la strada alternativa, sicuramente più limpida.
Lo avessi fatto avrei avuto meno da raccontare, provocando la delusione in chi legge.
Quindi occhi strizzati, finestrino abbassato per non fare appannare i vetri, testa quasi fuori alla ricerca di un barlume di striscia bianca sull’asfalto e… avanti popolo!
Un incrocio, più intuito che visualizzato.
Al di là dell’incrocio, attraversato centinaia di volte, non avevo notato che ci fosse una cabina telefonica.
Proprio sull’angolo, cementata sulla destra.
Non l’avevo notata in pieno giorno, potevo notarla in piena nebbia?
Infatti, nonostante andassi a non più di cento all’ora, sono andato a sbatterci contro, in pieno.
Preciso: i cento erano metri, all’ora.
Evidentemente era stata cementata con lo sputo, perché, con la bottarella si era abbattuta.
E se dico abbattuta non intendo come la torre di Pisa; lo intendo nel valore più completo che si dà a quel termine.
Secondo il codice della strada allora vigente, avrei dovuto fermarmi a prestare i primi soccorsi a una cabina morente.
Invece ho detto il solito “mannaggia!” con contorno abbondante, ho messo la marcia indietro per scendere dal gradinetto, e, stavolta andando ai cinquanta metri all’ora, mi sono dileguato.
Nella nebbia, ovviamente.
Danni alla macchina: poco o niente.
Lo racconto adesso, perché so che sia i danni da sinistro che l’omissione di soccorso, dopo un secolo vengono cancellati dalla prescrizione.
Eppoi, le cabine le stanno eliminando tutte: ho dato una mano qualche anno prima.



Ci sentiamo ancora, se vi pare.

mercoledì 13 ottobre 2010

Senza titolo

L’avrei fatto io,
sarebbe stato un ghigno,
ma stasera mi serve
un vero sorriso.
Ho pagato ben bene
una controfigura,
che per un sorriso
mi ha chiesto la luna.
La luna gli ho dato,
 ecchissenefrega,
il Toro ha vinciuto,
e questa è la festa!




martedì 12 ottobre 2010

Sinistri tre

La gloriosa “500” l’avevo sbolognata a un collega neopatentato, che nel giro di un anno l’aveva mandata alla rottamazione.
Con la Fulvia, già descritta nel primo capitolo, più che incidenti erano stati accidenti.
Avevo portato la papera (per via del colore giallo becco di papera, un po’ rospesca come sembianze) in officina, per una manutenzione ordinaria: cambio olio motore, controllo pasticche, livelli vari…
Ero andato a ritirarla in serata, quasi alla chiusura dell’officina; infatti una parte del cancello scorrevole era già stata avviata.
Per uscire, muso in avanti, mi si era presentato il classico dilemma che si presenta ogni volta che si deve passare in spazi troppo delimitati: passo, non passo, ma sì che passo…
Avevo preso le misure alla perfezione, impossibile sbagliare.
E infatti il lato guida era passato alla grande.
Fosse passato un cicinin meno alla grande, anche il lato passeggero sarebbe passato indenne.
All’altezza della maniglia della portiera di destra, c’era una specie di punzone che usciva dal telaio del cancello, forse come incastro nel cancello stesso al momento della chiusura.
Diagnosi: un buchetto di circa due centimetri, che aveva perforato la carrozzeria, senza danneggiare la maniglia e la serratura.
Il famigerato “che cazzo fai!” penso mi abbia seguito anche in questa occasione.
Avevo deciso, visto che l’integrità globale della vettura non era in pericolo, di non portarla in carrozzeria.
(Anche perché mi ero accorto che meccanici e carrozzieri, al momento del conto, non consideravano il danno; valutavano, di volta in volta, quanto il mezzo rientrasse nella “normalità”. La Fulvia era ritenuta abbastanza anormale da poterci calcare un po’ di più la mano: potevi essere un barbone, ma se avevi una Fulvia pagavi dazio).
Avevo deciso di curare a modo mio la ferita: un grumo di stoffa per chiudere il buco, tenuto fermo da due strisce di cerotto incrociate.
Meglio passare da stravagante che da imbranato.
Il secondo accidente, definitivo: autostrada, velocità poco più che discreta…
Forse se non ci fosse stato quel “poco più che”, il motore non si sarebbe fuso.
Prima colpi di tosse, sempre più violenti, poi il fumo dal cofano, mi avevano fatto capire che la poveretta era arrivata al capolinea. Capolinea situato alla prima piazzola utile.
Far rifare il motore mi sarebbe costato quasi come comprarne una nuova.

Ancora non ero sposato, quindi avevo optato per una “850 spyder”, sempre di casa Agnelli, sempre di seconda mano.
Verdone scuro.
Con questa niente incidenti, a parte la rottura di una coppa paraolio della ruota anteriore destra.
Come tutte le macchine pseudo-sportive, anche questa aveva un’altezza dal suolo quasi simbolica.
Ma la strada dove era successo il guaio avrebbe fatto saltare la paraolio anche a un trattore.
Agosto, ferie, mare.
Giorno: quattordici.
Con quella che era il mio amore (poi promossa a dolce metà, poi uniformata a mia signora, infine divenuta la scassa che è tutt’ora), avevamo deciso di salire dalla costa marina a un paese all’interno.
Per pura coincidenza, in quel paese abitavano i suoi genitori.
Anzianotti, ma ancora in gamba.
Si trattava di coprire una quindicina di chilometri, una strada fatta solo di curve. Non era asfaltata, e neppure sterrata: le curve della carreggiata avevano una degna concorrenza nelle buche della stessa.
Ma buche non da campo di golf; erano voragini nel terreno, e non erano occasionalmente provocate da un diluvio recente: erano buche naturalissime, da catalogare come “patrimonio dell’umanità”, tanto erano espressione di un passato antidiluviano.
Non le avevo contate, facciamo, a occhio e croce, che fossero quindicimila (e vado per difetto): 14.999 le avevo evitate, in ordine sparso.
Una no: combinazione, proprio la buca assassina.
Ricapitolo: quattordici agosto, coppa paraolio partita, in un paese semi-montano, che oltre ai pini (e ai cipressi del cimitero) credo vivesse vendendo le pelli dei lupi, poiché altro non poteva esserci…
E neanche la consolazione di un “cosa vuoi di più dalla vita?” che non era ancora salito agli onori degli spot.
Se ci fosse stato, più che a un amaro, avrei pensato a tre metri di corda e a un ramo d’albero robusto…
Nonostante tutto, il giorno dopo, quindici agosto, il fratello del mio amoruccio era sceso alla marina con una specie di motorino, aveva trovato la coppa, ed era riuscito a sistemare la macchina.
E’ una di quelle volte che uno si chiede perché gli esseri umani siano divisi in due sessi principali: se fossimo tutti unibisessuati, questa sarebbe stata l’occasione buona per chiedere al fratello di sposarmi al posto di sua sorella, che col cavolo sarebbe mai stata in grado di cambiare una coppa paraolio il quindici di un agosto qualunque.

Avevo pensato a un capitolino più breve, invece ho tracimato un pochino.
Pazienza, rimando a un prossimo seguito.

domenica 10 ottobre 2010

La scalogna

Stasera c'è una partita difficile, per un sacco di motivi.
Non che esistano partite facili, ma quella più prossima è sempre la più difficile.
E, visto che il 90° più recupero sono i minuti più pericolosi, quelli che fanno pensare intensamente e rabbiosamente alla sfortuna, noi che, per lunga esperienza, alla sfortuna ci crediamo, cerchiamo di far finta di non crederci, con questo messaggino scaramantico.

La scalogna

La scalogna c’è o non c’è, per me ce sta,
e se ce sta, c’è puro chi la porta,
e chi la porta ha il grugno d’ogni sorta,
 bello, brutto, straniero, non si sa.
Altro che gatto nero e incespicà!
Ma saperlo non è che ti conforta,
vano è il corno, né il ferro la fa morta,
né tanto meno te la puoi scansà.
Pe’ conto mio ti dò un pensiero chiaro:
prega tutti gli dei e fai da te,
stringiti i denti e succhiati l’amaro
che dolce non verrà come il caffè.
Ma non farmi a ‘sto punto lo scolaro:
la scalogna l’ammazzi sol da te!
Aldo Collacchioni (1981)


sabato 9 ottobre 2010

Semel in anno...

Recentemente, in un commento a un post, ho trovato una definizione dei bloggeristi che mi ha affascinato.
Diceva, nel cuore del commento: “I bloggeristi sanno creare una montagna da un granello di sabbia”.
Come dire: dal nulla sanno creare l’universo.
Fatta la premessa, passo al preambolo, girando talmente al largo che non so se arriverò lucido (?) al nocciolo.
Comincio dalle lingue e dai dialetti.
Abbiamo l’italiano come base, almeno fino a quando qualcuno non deciderà che, dopo la bandiera, anche l’italiano deve andare in pattumiera.
Con un risparmio sui docenti di questa materia, che diventeranno automaticamente inutili: altre braccia ritorneranno all’agricoltura, finalmente!
Collegati alla lingua madre, con un cordone ombelicale infinito nel tempo, ci sono i dialetti.
A loro volta, questi, sono frazionati in altri infiniti sottodialetti: ogni paesino ha un proprio idioma, che mantiene la base del dialetto principale, con modifiche che sembrano insignificanti, ma che caratterizzano però una città, un borgo, addirittura una frazione di quel borgo.
Un esempio, il primo che mi viene in mente, per indirizzare con maggior chiarezza (?) al già citato nocciolo.
A Torino, in Piemonte: un bambino, un adolescente, comunque uno più giovane, viene definito “CIT”.
A Cuneo, sempre Piemonte, circa 80 chilometri andando verso sud: lo stesso bambino, lo stesso adolescente, lo stesso comunque più giovane, viene definito “CIOT”.
Una differenza minima, irrisoria, che comunque delimita in maniera netta una distanza geograficamente quasi insignificante.
Saltiamo dalla frasca al palo, come si dice abitualmente.
Esistono i nomi, i cognomi, i soprannomi, gli pseudonimi…
Ed esistono, perloppiù ignorati, per “non saperlo” o “meglio tacerlo” i secondi nomi.
Di solito spuntano solo per coming out: una/o si sveglia una mattina e dichiara, urbi orbi e mezzacceccati, di avere un secondo nome, di conoscerlo dal sesto mese di gravidanza, ma di non averlo dichiarato prima, col timore che questo secondo nome potesse apparire come una forma di snobismo pseudo nobiliare, di sapore spagnoleggiante.
Può capitare, ma è rarissimo, che quel secondo nome comingoutato porti subito alla mente del lettore puro di mente e di cuore, malacarneèdebole, situazioni piacevolmente diversive dal tran-tran quotidiano.
Il/la portatore sano di quel secondo nome, respinge strenuamente (oh, quanto strenuamente!) l’abbinamento così abominevole : mette avanti la sua castità, la sua serietà, la sua illibatezza.
La sua santità.
Che poi sia santità cazzarola, e quanto lo possa essere, non riguarda questo post.
Che è solo una escussione filologica, che nulla ha a che vedere con pratiche trantrastiche, o come diavolo vengono definiti i rapporti culturistici tra rettili e sante.
Casualmente, avviene un altro coming out: salta fuori un nuovo secondo nome tra i bloggeristi.
(Ocio: non fate i furbi e andatevi a vedere la differenza tra outing e coming out, prima di mandare l’autore del post a stendere i panni; ci ho studiato tutto il giorno: a parte la torchiatura dell’uva, la Roby in visita all’università per l’indirizzo più appropriato, il rinnovo della patente della moglie, la risposta a Poste Italiane per l’accesso al sito, l’autospurgo che non arriva, la lettura di Perboni, non avevo niente da fare, per cui mi sono imparato).
Questo nuovo secondo nome è qualcosa che definire radioso è sminuente, poiché porta al ricordo immediato di un viso solare, di una voce caldamente fresca, fa subito pensare a fiumi puliti (certo non al Po, che da qualche anno sta diventando antipatico; ma dura poco, a forza di ampollate sta per finire),  a barche che vanno finché vanno, con l'invito a lasciarle andare…
Eccetera eccetera eccetera.
Il pensiero del raffronto tra i due secondi nomi è sorto spontaneo (Marzullo docet): un primo secondo nome obbrobriato da un peccatuccio, da un attimo di disattenzione conciliato da una cameretta ovale, e il secondo secondo nome che, se va bene, manco sa nuotare (e che, comunque, la corrente la porterebbe galleggiante fino alla foce, senza infierire), che raccoglie consensi affettuosi da madri, nonne, bisnonne, trisavole e pure dalla tivvù.
Una differenza abissale tra i due sottonomi.
Agli interventi commossi alla scoperta di questa nuova creatura, si è aggiunto il commento, ufficialmente felice ma vagamente insinuatorio del primo “secondo nome”, gettato come per caso in pasto al blog.
Con falsa noncuranza, fingendo di modernizzare il nuovo “secondo nome” concorrente, lo ha abbreviato, come si fa, per esempio, con Giovanni che diventa Gio’, con Giulio che diventa Giu’, eccetera.
Questo nuovo secondo nome, così abbreviato, mi ha incuriosito e sono andato a cercare cosa potesse avere suscitato il mio interesse.
Così sono arrivato a quel detto latino (lingua madre) che parla di qualcosa, non ricordo se bucatini gnocchi cappelletti o altro che abbondano in ORE stultorum.
Così a Roma e dintorni.
Sul litorale, verso Anzio, avevano parlato latino puro, fino a uno sbarco di clandestini provenienti da oltre un oceano non ben definito.
Accolti a braccia aperte dagli indigeni, in poco tempo avevano preso possesso della città, e, per creare una colonia con ricordi della loro provenienza, avevano modificato leggermente l’idioma ufficiale, con piccole variazioni che cambiassero il parlato senza modificarne il senso.
Si erano creati un dialetto su misura.
Così, sempre ad esempio, quei bucatini gnocchi cappelletti finivano abbondanti in ORY stultorum.
Sempre con lo stesso significato di base.
Peraltro non sono riuscito a trovare un collegamento accettabile tra loro nei due “secondi nomi” di cui ho trattato.
Pazienza, sarà stata una ricerca senza alcun riferimento, fatta per passare il tempo, assolutamente inutile e fine a se stessa.
Può essere che da qualche commento di menti illuminate ed aperte arrivi qualche indizio? 

giovedì 7 ottobre 2010

Era l'8 di settembre...

… ma già molto prima ero passato in libreria a prenotare un libro, la cui uscita a livello planetario era appunto prevista per l’otto del mese di settembre, testé trascorso.
Titolo, autore, editore; non avevo detto il prezzo per non apparire troppo saputello.
Quella libreria è frequentata da luminari del classico, dello scientifico, del turistico, del linguistico e dell’alberghiero.
Ero andato in tarda serata, per evitare di essere guardato con sufficienza, o addirittura con elegante disprezzo, da quella plètora di menti eccelse, nel sentire un titolo che non risulta(va) presente nell’Olimpo scientifico.
Avevo già avuto modo di esprimere la mia perplessità per la scelta di un parto librario fissata per l’8 settembre, che porta alla memoria un giorno non propriamente glorioso del nostro recente passato.
Scelte editoriali, non trattabili.
Oltre alla data infausta, l’uscita coincideva con la cosiddetta “scolastica”, ossia la cernita e la preparazione dei libri per l’imminente inizio del nuovo anno scolastico.
Folla di mamme, padri, zii, nonni, regolarmente accompagnati dai rispettivi virgulti: l’otto si presentavano a prenotare i tomi, quando la scuola avrebbe aperto i battenti il tredici.
I nostri, con tanto di acconto, li avevamo prenotati dal 24 di agosto. Lista-libri ritirata in segreteria, stampata, timbrata…
Dopo quella data, un giorno sì e l’altro pure, dai passaparola tra compagni, si apprendevano cambi di titoli, di edizioni, cancellazioni o ripristini.
Un fine estate passato in libreria. In quella libreria.
Stoicamente in fila per avere udienza dal libraio, per sentirsi ogni volta rimbrottare per libri già ordinati e rinfacciare la “nostra” disorganizzazione.
Otto settembre: fila dietro gli scalmanati ritardatari e:
“Dovrebbe essere uscito Perle, Perboni, Rizzoli…”.
“Sì, mi pare che sia arrivato, ma non ho avuto tempo di aprire tutti i pacchi, vede come sono preso con le scuole?”.
Lo vedo, tornerò più avanti.
Dall’8 settembre ai primi di ottobre di “più avanti” ne avrò fatti una dozzina.
L’ultimo, già vedendomi sulla porta, aveva allargato le braccia:
“Non ho ancora aperto gli altri pacchi; sono impegnato col ’servizio’ alle famiglie per la scuola. Abbia un po’ di pazienza…”.
In questo frattempo, tutta la penisola, le isole e le ex colonie avevano già fra le mani il benedetto libro: si sentivano le risate dall’Alpi alle Piramidi; perfino da L’Aquila, che non ha nessunissimo motivo di ridere, si sentivano ridacchiamenti sommessi, che almeno per qualche attimo distraevano dai ben noti guai del territorio.
Per farla breve, (caratteristica già universalmente riconosciutami), al rientro a casa, mi sono collegato a casa Rizzoli, ho ordinato il volume (causa poca praticità in queste operazioni, stavo per mandare l’ordine per 5 libri; non sapendo come correggere ho fatto che scollegarmi da internet, richiamando nuovamente con l’ordine esatto. Lontanissima ma nitida, come un’eco rinforzato, mi ronzava nell’orecchio un “mannaggia!”, di cui non sono stato in grado di capire né il perché né il percome).
Oggi, 7 ottobre, il corriere mi ha consegnato il libro.
Regolarmente pagato contrassegno.
Questo benedetto volumetto era ormai tanto agognato che mi ero predisposto una modalità di lettura che fosse al sicuro da ogni scassamento.
In bagno, sul mobiletto, divieto di turbativa durante le sedute.
L’unico posto, su tutto il territorio, che possa bloccare i tentativi di disturbo, altrimenti continui e sovente messi in atto solo per il gusto di rompere.
Abbiamo due bagni, se uno fosse stato occupato da me, con l’unico limite temporale della stanchezza alle natiche, sarebbe scattato l’invito a servirsi dell’altro bagno.
Se anche quello risultasse occupato, non più da me che non sono ubiquo, ma da altra persona, in caso di impellenza c’è sempre il giardino...
Ore 13,45: la paperella giovane rientra da scuola.
“Ro’, il libro è arrivato…”.
“Ah, bene, dov’è?”.
“Nel bagno di qua”.
(Per semplificare e sapere a quale bagno di volta in volta ci riferiamo, uno è ‘il bagno di qua’, l’altro, lapalissianamente, è ‘il bagno di là’).
Schizzata al bagno, rientro, a tavola, è tempo di mangiare.
La prima risata al “generazione bovinamente supina”, forse non ha capito che della sua generazione qui si parla.
Amatriciana nel piatto, due fili…
Risatissima: “Senti questa…”.
Un altro filo di pasta, ingollato col libro aperto in grembo, altra risata: “Senti quest’altra…”.
Devo precisare che questa paperella non sa sorridere: o ride del tutto o niente.
E sono scoppi di riso che non possono essere ignorati, perché fanno cadere dalla sedia a ogni loro esplosione.
Prima di arrivare al secondo, mi aveva già letto un quarto di libro, saltellando un po’ un po’ là; senza dimenticare l’ultima pagina del copri copertina: a fine anno ha la maturità, credo che anche lei avrà motivo di “pregare” come Lucia.
Ho recuperato il “mio” libro: credo che sovente, sciroppandomelo, mi troverò a pensare “questa l’ho già sentita”…
Per concludere, nel rendere il maltolto:
“Quando l’abbiamo finito, lo devo portare alla prof Berxxxx…”
“Perché proprio a lei?”.
“Perché vuole apparire la più ‘carogna’ (da chi abbia preso questo termine, proprio non lo so); ha già letto ‘Perle ai porci’ e si è sganasciata”.
Poi mi ha cazziato, perché quando le avevo parlato del concorso, mi aveva passato una cosina che, pur divertente, non avevo ritenuto all’altezza della concorrenza.
Le ho promesso di immetterla in un post, questo, per farla contenta, e anche per non trovarmi costretto ad andare io nel ‘bagno di là’ perché quello ‘di qua’ è occupato da lei.
Ne sarebbe capacissima.


A scuola, la sua compagna Martina, passandole accanto, scannuccia il suo diario; vede una sigla cerchiata OMG (Oh my God).
Martina: “Cosa vuol dire?”.
Roby: “Come, non lo sai?”.
Martina: “Certo che lo so, cosa credi: Organismo Modificamente Geneticato!”.




Abbiate pietà del gatto, fino alla prossima volta non lo faccio più.

sabato 2 ottobre 2010

Quasi quasi....


Quasi quasi, ma sparo 'n colp!




Quasi quasi, ma sparo 'n colp! 
L'hai decidu 'd fela finija, i veui maseme! 
'n colp 'd rivoltela, e voilà, le tut finì;
così podrai pi nén, mach sempre lamenteme,
stofìand coi li ch’an sento, stofiandme anca mi!
Ma sosì le pi nén vive, par dabon!
L'aria, l'acqua, e tut al rest a le inquinà;
it distingue pi nén dal gram lon ch'a le bon,
sa le mai vive 'n t'un pajs o nt' la sità!
Ma mi, quasi quasi, ma sparo 'n colp!
Tuti ij di ajé n'aument senssa rason,
aumenta 'l pan e a j'aumenta dco 'l tramvaj!
Aumenta la verdura, le tomatiche, ij povron,
aumenta 'l suchér, l'euli e dco ij giornaj.

Ma mi, quasi quasi, ma sparo 'n colp!
Aumento ij delinquént, le rapi-ne, j'assasin;
it ses nen sicur, gnanca an te chà!
e se quand quaidun 't son-a 'l ciochin,
Iasa püra soné, ma ti duverta pà!

Ma mi, quasi quasi, ma sparo 'n colp!
Le nén vive 'n coste brute condision;
con sempre l'incertessa dl'indoman!
T’sess gnanca pi sicur d'andé 'n pension,
con an tl'aria tut as bataclan…!!!

Ma mi, quasi quasi, ma sparo 'n colp!
Guère cite e guère grose daspertut…,
scioper... maladije... rivolusion...
‘S viv mach sempre con al sangiut,
e sempre da draonde 'n neuv bocon!

Ma mi, quasi quasi, ma sparo 'n colp!
Epura, sto brut vive, prima o pelli dovrà finì;
an tla scur dal ciel, je sempre 'n pò ‘d serén!
L'oslin sota 'l pugieul, l'ha torna fait so nì,
e dop al temporal, je torna 'l sol ch'a vén!

Forse a tireme 'n colp, i speto 'n moméntin!
Le primavera; ij pra son vért, che profum 'd ciclamin!
e l'arsigneul la ntla boschin-a a canta!
ij grij a la séira a fan so concertin,
j prus e j pom son già madur 'n sIa pianta!

Forse a tireme 'n colp, i speto ancora!
E peui, col gran piasì 'd fé ‘n bon disné,
con an grup d'amis, an bon-a compagnia,
che, quasi  quasi, 'n fa desmentié
l'idea 'd maseme  che l'avija!

Forse le mej che speta an momentin
prima 'd pié cola bruta decision,
ades i vat a deurme, e peui doman matin
vedroma se trovrai quaicos 'd bon!

E l'indoman matin, che sol! Che meravija
respiré a pien polmon l'aria pura dIa matin,
e tut antorn la natura ch'as desvija!!…
E mi vorija maseme, che cretin!!!!!

E peui na vos ch'a smijava dal ciel rivé,
ch'am disija "... Povr’ om, t'lass anco  nén capì
che ‘ntoca pié 'l mond parej coma ch'a lé,
e che t' peule propi nen cambielo ti!

Alora, dame da mént, lasa sté sta rivoltela;
seurt, va fora, va a fete dui grapin,
perché la vita, an fond, le ancora bela,
anche con pochi brav e tanti malandrin!

Ma peui perché masese, travaj inutil certament!
Je già quaidun che par lon le incaricà!
E quand cha sarà ora, che it sije o non content,
da Catlin-a e soa faussia, i ta scape propi pà!”.
Ma peui, ancheuj, perché spareme?
‘L Tor l’è rcurdasse dessi ‘n Tor,
nen n’asu o ‘n pitu o ‘n babi,
come capita trop ‘d sovent.
Ancheuj finalment à l’a vinciu!
Speruma mac ch’a sia la volta bun-a.

‘L colp ‘m lo tiro n’aota volta. 

                                                                 (Anonimo, integrato)


Per quei pochi che non conoscono il sardo, il gatto lo ha letto così:

Quasi quasi, mi sparo un colpo!
Ho deciso di farla finita, mi voglio ammazzare!
Un colpo di pistola, e voilà, è tutto finito;
così non potrò più  sempre solo lamentarmi,
stancando chi mi sente, e stancandomi da solo!

Ma questo non è più vivere, per davvero!
L’aria, l’acqua, e tutto il resto è inquinato;
non si distingue più dal cattivo quel che è buono,
cosa è mai vivere in un paese, o in una città!

Ma io, quasi quasi, mi sparo un colpo!
Tutti i giorni c’è un aumento senza ragione,
aumenta il pane e aumenta anche il tram!
Aumenta la verdura, i pomodori, i peperoni,
aumenta lo zucchero, l’olio e anche i giornali.

Ma io, quasi quasi, mi sparo un colpo!
Aumentano i delinquenti, le rapine, gli assassini;
non sei sicuro neanche dentro casa!
E  quando qualcuno ti suona il campanello,
lascia pure che suoni, ma non aprire!

Ma io, quasi quasi, mi sparo un colpo!
Non è vivere, in queste brutte condizioni;
con sempre l’incertezza del domani!
Non sei neanche più sicuro d’andare in pensione,
con nell’aria tutta sta baraonda…!

Ma io, quasi quasi, mi sparo un colpo!
Guerre piccole e guerre grandi dappertutto…,
Scioperi… malattie… rivoluzioni...
Si vive solo sempre col singhiozzo,
e sempre nuovi bocconi da ingoiare!

Ma io, quasi quasi, mi sparo un colpo!
Eppure, questo brutto vivere, prima o poi dovrà finire;
nello scuro del cielo, c’è sempre un po’ di sereno!
L’uccellino sotto il poggiolo è tornato a fare il  nido,
e dopo il temporale, c’è il sole che torna a venire!

Forse, a tirarmi un colpo, aspetto un momentino!
E’ primavera; i prati sono verdi, che profumo di ciclamino!
E l’usignolo là nel boschetto sta cantando!
I grilli alla sera fanno il loro concertino,
le pere e le mele son già mature sulla pianta!

Forse, a tirarmi un colpo, aspetto ancora!
E poi, col gran piacere di fare un buon pranzo,
con un gruppo di amici, in buona compagnia,
che quasi quasi mi fanno dimenticare
l’idea di ammazzarmi che avevo!

Forse è meglio che aspetti un momentino
Prima di prendere quella brutta decisione,
adesso vado a dormire, e poi domani mattina
vedremo se troverò qualcosa di buono!

E l’indomani mattina, che sole! Che meraviglia,
Respirare a pieni polmoni l’aria pura del mattino,
e tutto intorno la natura che si sveglia!
E io volevo ammazzarmi, che cretino!!!

E poi una voce che sembrava arrivare dal cielo,
che mi diceva: “Povero uomo, non hai ancora capito
che bisogna prendere il mondo per come è,
e che non lo puoi cambiare proprio tu!

Quindi, dammi retta, lascia stare la rivoltella;
esci, vai fuori, vai a farti due grappini,
perché la vita, in fondo, è ancora bella,
anche con pochi buoni e tanti malandrini!

Ma poi, perché ammazzarsi, è un lavoro inutile!
C’è già qualcuno che per quello è incaricato!
E quando sarà ora, che tu sia o no contento,
dalla morte e la sua falce,
non potrai proprio scappare!”.

Ma poi, oggi, perché spararmi?
Il Toro s'è ricordato d'esser Toro,
non un asino o un tacchino o un rospo,
come capita troppo sovente.
Oggi ha vinto, finalmente!
Speriamo solo che sia la volta buona!

Il colpo me lo tiro un'altra volta!