lunedì 22 novembre 2010

Scontro frontale






Anturium rossi
 La Simca 1100, col culetto rimesso a nuovo, svolgeva il suo lavoro con onore; a parte i due fattacci, non ricordo mi abbia mai lasciato per strada. Se è successo, è stato per piccolezze, per ricordarmi che lei, comunque, era solo una macchina.
Tra mercato dei fiori all’alba, consegne in campagna, in città e in ogni luogo umanamente raggiungibile, lei si stava guadagnando una onorevole rottamazione, mentre io mi ritrovavo ormai con un mazzo a galleria.
Prima della cessione del negozio, come previsto in caso del troppo che stroppia, era successo un fatterello, che inserisco tra gli incidenti, perché tale fu, ma non con la macchina.
In città era stato assassinato un personaggio importante.
Più che altro era conosciuto dagli addetti ai lavori del settore.
Per dire, se prima dell’omicidio, in un negozio o al mercato o per strada, qualcuno avesse chiesto chi fosse, sicurissimamente la risposta sarebbe stata un “boh!”.
Senza il ‘probabilmente’ che di solito rivela un dubbio sulla eventuale risposta.
Dopo l’omicidio, che fu atto di terrorismo, il suo nome era finito sulla bocca di tutti.
E, come sempre succede ‘dopo’, anche per chi non sapeva della sua esistenza, era stata colpita “una persona per bene”.
Superiamo queste considerazioni, che mi sono servite solo a riempire il post e ad allungarlo un pochino, non brevilineo come al solito.
Anche per evitare che l’editore mi rinfacci di risparmiare, come sempre, sulle parole, nonostante queste mi costino niente.
Al negozio era stata affidata la confezione di una corona di fiori, da una ditta importante, operante nel settore del defunto.
Ovviamente, punto d’onore sarebbe stato farla bellissima, anche perché la concorrenza nel ramo era spietata, e una figura mediocre sarebbe stata difficile da sopportare, commercialmente parlando.
A darci una mano, in caso di lavori impegnativi, c’erano alcune amiche, abitanti nelle vicinanze.
E c’era anche un collega di lavoro, che abitava in zona, che inizialmente era venuto più per valutare il reddito del negozio che per amore dei fiori in sé.
E così se una rosa era venduta a tot lire, era interessato al prezzo d’acquisto e al ricarico che andavamo ad applicare.
Ma lo faceva senza malizia, solo per una curiosità che rasentava il ficcanasaggio.
Comunque, vieni oggi vieni domani, anche lui si trovava ogni tanto coinvolto nelle confezioni o nelle consegne.
Va detto che, sia lui che le amiche, ci costavano un ‘grazie’, un caffè, talvolta una pizza, quando si fermavano ‘al lavoro’ fino a tarda sera.
Questo per evitare insinuazioni di ‘lavoro nero’ o cinese.
Tornando alla corona: l’avevamo ‘progettata’ enorme, piena zeppa di orchidee catlee e anturium rossi bianchi e verdi, con palme che avrebbero dato una circonferenza da brivido.
Una corona da far resuscitare un morto, anche solo per il tempo di vederla prima di tornare al suo riposo.
Per portarla avevo chiesto la station wagon del tabaccaio (anche lui coinvolto nella creazione), poiché sulla Simca non ci stava.
Ben fermata sul tetto, cavalletto di sostegno ripiegato all’interno, ero partito con il collega alla volta della camera ardente, predisposta nella hall della sua ditta.
Già all’arrivo, forze dell’ordine all’esterno che neanche alle partite di calcio: comunque più che giustificate, il periodo era veramente brutto.

Anturium bianchi
All’interno, nei pressi della bara e negli immediati dintorni grossi personaggi parlottavano tra loro, commentando il delitto, o magari parlando di fatti loro, come succede a tutti i funerali.
Avevamo portato prima il cavalletto, adocchiando uno spazio bene in vista, in modo che l’opera d’arte desse buon onore al morto e ottima gloria al nostro negozio.
Piazzata con un po’ di fatica la corona, che, oltre a essere grande, era pure pesantina e scomoda da manovrare, si trattava di dare gli ultimi ‘ritocchi’: sistemazione delle palme, che durante il percorso si erano un po’ spostate, qualche fiore da rimettere in riga, controllo della fissicità del nastro…
Nel frattempo, i personaggi importanti erano diventati una piccola folla, per cui le operazioni di ‘sistemazione’ dovevamo farle senza mostrarci troppo, per non turbare la seriosità del momento.
Il collega sul retro della corona, e attraverso le palme guardava i presenti, cercando di individuare quelli conosciuti.
Io ero sul davanti, dove davo, discretamente, gli ultimi ritocchi dell’artista.
Lo avevo chiamato, sottovocissimo, forse per passarmi un accessorio.
Lo avevo chiamato talmente sommesso da essere convinto che potesse non avermi sentito.
Per fare prima ero partito veramente in quarta, come si dice, per andare a prendere ciò che mi serviva, spingendo con forza la testa tra le palme, che erano piuttosto rigide.
Aveva sentito.
E anche lui, sempre per fare prima, si era tuffato a testa prima per venire sul davanti e portarmi quanto chiesto.
Il diametro totale della corona, palme comprese, si avvicinava ai quattro metri, quindi con un’area complessiva da consentire gare di ciclismo su pista.
Ora, quante possibilità potevano esserci di uno scontro violento in tanto spazio disponibile?
Non sto a fare percentuali, perché quell’unica possibilità si era avverata.


Fiori di zucca
Due zucche, sbattute una contro l’altra con forza brutale si sarebbero spappolate, silenziosamente.
Le nostre non si erano spappolate, ma avevano fatto un botto tale che le onorevoli persone presenti si erano voltate a guardare, magari nel timore che fosse in essere un attentato.
Eravamo finiti entrambi seduti in terra, dietro la corona, ciascuno cercando di rimettere a posto le rispettive scatolette craniche, così crudamente massaggiate.
La situazione era chiaramente drammatica.
Era divenuta tragica quando, dopo lunghissimi minuti, ci eravamo guardati, un occhio per volta, ed avendo preso atto di essere entrambi sopravvissuti, ci eravamo messi a ridere.
Quel ridere che talvolta è alternativo al piangere.
Per quanto soffocato, aveva provocato in qualcuno prossimo alla corona un “ssshhh!”, disapprovante la mancanza di rispetto verso il defunto e verso le autorità presenti.
Uscire, ormai, non potevamo più; per cui cercavamo di non guardarci, di fingere di prestare attenzione alle omelie che intanto avevano avuto inizio.
Purtroppo, ogni tanto, già il pensiero provocava la ridarella.
In quegli attimi di disattenzione, comunque, quel ridere soffocato, con un po’ di buona volontà da parte di chi sentiva, poteva essere scambiato per singhiozzi, repressi dal pudore della messa in mostra del dolore.
Dolore per il defunto, ovviamente, non per le nostre zucche ammaccate.

mercoledì 17 novembre 2010

Coincidenze

Io non credo molto alle coincidenze.
Penso che ogni parola, detta o scritta, abbia sempre un motivo, quando viene emessa, postata o stampata.
Che siano benedizioni, ovvero accidenti, quando vanno a ‘buon’ fine (soprattutto questi ultimi) mi lasciano perplesso.
Per tentare di chiarire questa nebbia, vado a raccontare un fatterello che ‘potrebbe’ essere preso per coincidenza, se non fosse che, come detto prima, alle coincidenze non credo per niente.
Premessa: da giovedì scorso, il gatto è sparito dal suo blog e dai commenti agli amici degli altri blog.
Che in questo lasso di tempo hanno potuto sbizzarrirsi senza peli di gatto lasciati qua e là.
Bene, il sospirone di sollievo portatomi dal vento di tramontana che perseguita la mia zona, finisce qui.
Prego guardare il palmo teso della mano sinistra, volto all’ingiù, sollevato più in alto possibile, per renderlo ben visibile all’arbitro, ai guardalinee e al quarto uomo; puntato sotto questo palmo c’è l’indice della mano destra, a indicare time, please!

E, tempo al tempo, partiamo dall’inizio.

Martedì 9 di novembre, in un autunno ormai affermato, un illustrissimo Prof aveva immesso nel suo blog un post che nella sostanza indicava la sua profondità di pensiero, già nota e apprezzata dentro e fuori le mura.
Quel post stava già bene di suo, nel descrivere un’operazione al limite della coprofagia.
Per dare maggiore visibilità a questo suo seminato, il Prof lo aveva dotato di una foto che faceva a pugni con il suo meritorio vezzo di pubblicare (a sostegno figurativo della maggior parte dei suoi scritti) figure angeliche, fiori del nostro tempo, nel pieno rigoglìo della loro bellezza, con curve, rientranze, carnose tettoie e polposi pistilli.
Insomma, il meglio che questo mondo, infame per tutto il resto, poteva offrire.
Nel post di cui parlo, il corredo fotografico era, a dir poco, eufemisticamente vomitevole.


Dirò di più: era letteralmente vomitevole (vedere blog Perle ai porci, post Crisi di rigetto).
Tra i commenti favorevoli, il primo diceva:
“Questo post fa veramente schifo. Mi piace!”.
E il Prof, per non smentire la sua fama di equo e solidale, apprezzava il ‘buon gusto’ della commentante.
Un po’ più sotto, avevo espresso il mio modesto parere sul post, rimarcando la ‘scelleratezza’ della foto, in contrasto con le abitudini ‘floreali’ dell’illustre Prof.
Aggiungendo (ahimé! ahimé!) che solo a una “depravata” potevano piacere sia il post che il figuro a corredo di questo.
A strettissimo giro di commenti, tra le altre considerazioni, mi era arrivata la risposta:


“Tra un po’ al gatto MANCHERO’ IO, altroché il buongusto!” (sic!).

(Come tutti sanno il sic! significa: "così", paro paro, tutto maiuscolo compreso).
Il primo pensiero: è possibile che una commentadora, solo perché mi sono permesso di aggiungere un affettuosissimo “depravata” ai suoi già innumerevoli titoli pensasse al suicidio?
Esclusa da subito l’improbabile ipotesi, ho pensato:
a) mi caccia a calci in culo dal suo blog (mi banna, come pare si dica nel mondo bloggaiolo);
b) se casualmente passerà nel mio blog, lo farà esclusivamente per venirmi a sputare in un occhio, nei giorni di festa in tutti e due.
Se entrambe le ipotesi si fossero verificate, avrei acceso in anticipo il caminetto (il tempo è già da camino 'appicciato'), appositamente per creare un secchio di cenere, e con questo cospargermi le due teste a disposizione, pur di farmi perdonare.
Per la cronaca: il post di ‘benedizione’ risulta postato alle ore 19,58 del fatidico 9 di novembre citato all’inizio.
Il 10 stesso mese, mercoledì, era trascorso tranquillo; un’ombra di sole aveva allietato la giornata, in contrasto con quanto avveniva in altre parti del Paese.
Giovedì 11: mattinata più o meno serena, cielo più o meno azzurro, nuvolette qua e là rendevano la giornata quasi primaverile.
Pomeriggio: mentre facevo il solito rilassante pisolino, all’improvviso il cielo, azzurrino al momento della mia scesa nel letto, si era oscurato di brutto, tuoni e lampi, prima in lontananza, poi dritti sulla nostra testa…
E fu acqua, non a catinelle bensì ad autobotti; e grandine e vento da far paura.
Ero sceso nel garage, sperando che la griglia all’entrata riuscisse a smaltire il torrente che veniva giù dalla discesa verso l’interno.
Così avevo assistito, impotente, alla diretta di un mini tsunami: in un attimo una decina di centimetri d’acqua avevano allagato il garage, penetrando da sotto le serrande anche nei box.
Sarà durato un quarto d’ora, poi… la quiete dopo la tempesta.
Avevo chiamato la moglie, e ci eravamo messi a scopare…
… l’acqua fuori, facendola risalire fino alla griglia, il cui alveo nel frattempo si era svuotato.
In un paio d’ore, a piedi nudi e calzoni arrotolati alle ginocchia, almeno il grosso l'avevamo respinto.
Un caffè ristoratore, una sigaretta ossigenante, e ero andato al computer per prendere un po’ di fiato leggendo le ultime del mondo blogger.


“Tra un po’ al gatto MANCHERO’ IO, altroché il buongusto!”.

Il modem era spento, e non lo avevo spento io.
Preso dalla rottura delle acque, avevo dimenticato di staccare tutto, come faccio sempre appena il maltempo diventa rischioso.
Accendi-riaccendi, pigia-ripigia, schiaccia-rischiaccia: niente da fare.
Volevo provare a resettare, ma col modem spento sarebbe stato come resettare un cadavere.
Niente telefono fisso, zero adsl.
Venerdì 12: chiamato il gestore, segnalata la disgrazia, la ragazzuola, gentilissima, passa il mio guaio al settore tecnico, ci vorranno circa cinque giorni per ricevere risposta.
Una musichetta che conosco purtroppo molto bene.
Sarebbe venuto Nicola, o Amedeo, o chissà chi?
Venerdì non conta, sabato e domenica non lavorano, se ne sarebbe parlato, se andava bene, il giovedì successivo.
Lunedì, invece (pioggia, stavolta motivata dalla prontezza del riscontro), era venuto il tecnico telecom, un illustre sconosciuto.
Un paio di prove e sentenza inappellabile: modem fottuto.
Ovviamente non ne aveva uno di ricambio, fossi stato con telecom me lo cambiava subito. Avrebbe inoltrato la richiesta di cambio dell’aggeggio. No, i tempi di consegna non li conosceva, la telecom li cambia subito. La telecom è sempre la telecom, altra musica…
Nel paese vicino c’è una specie di punto vendita di attrezzi informatici, dove tra l’altro avevo acquistato a suo tempo il modem testé defunto.
Spiegata la situazione, dichiarato bugiardescamente che decine di persone aspettavano, lupacchiotti affamati, la mia confortante parola, il titolare mi aveva fornito un modem provvisorio, in attesa di quello nuovo dalla sede centrale.
Dopo il collegamento (stranamente andato subito a buon fine), la prima domanda che mi ero fatto è stata:
“Dove ero rimasto?”.
Per rispondere ero andato a dare una passata ai vari blog, ripassando velocemente anche i commenti, per cercare di vedere dove si era fermato il mio distribuito di pillole di saggezza.
Arrivato al post già citato, a momenti mi si fulminava anche il modem provvisorio.


“Tra un po’ al gatto MANCHERO’ IO, altroché il buongusto!”.

Coincidenza?
Sei giorni di galera, in isolamento, regime 31bis ché il 41, sempre bis, era esagerato.
Con un cane, anch’esso galeotto (trovato nel blog della santa, ulteriore indizio che lei sa…), per compagno di cella…


Nelle ore d’aria sono andato a ripulire la spiaggia, raccogliendo legname che la mareggiata aveva spinto fin sul lungomare.
Per la prima settimana di freddo avrò combustibile per alimentare il caminetto. E…

…nel camin farò una pira
di legna salmastra,
e sulla fiamma salata 
vedrò, lassù in cima,
bruciare una santa.

Dolce il suo viso,
ghignante il sorriso,
dirà con affetto:
“Gatto dannato,
io vado arrosto
ma te ti faccio lesso”.

HELP!

Post-post: nel giro d’orizzonte sono capitato nel blog Ritratti di animali bysa, creato e diretto da Samantha Abis; c’è un post molto bello e interessante, Festa del Gatto nero.
Da visitare, leggendo correttamente il DEL, da non confondere con AL, che sarebbe un gatticidio, perseguito perfino dal codice penale.

mercoledì 10 novembre 2010

Legge Bacchelli

Atto I

La legge Bacchelli (n. 440 dell’8 agosto 1985) fu istituita per dare sostegno a personalità che, distintesi nel mondo della cultura dell’arte dello spettacolo dello sport, al termine delle rispettive carriere si trovino in condizioni disagiate.
Personalmente la ritengo una legge anticostituzionale, in riferimento all’articolo (che non cito, poiché è talmente ignorato che tutti lo conoscono) che dichiara l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo Stato.
Prevedendo interventi specifici per determinate categorie, esclude le altre, creando una discriminazione di fatto.
Il fatto che sia venuta alla luce nell’afa di agosto (che nell’85 era afa vera e caldo da solleone, non come il tepore estivo attuale) mi fa dubitare che sia nata nella frescura mentale che sarebbe indispensabile al momento di emissione di una qualunque legge dello Stato.

Atto II

Un paio di giorni fa, un certo F.C. (per la legge sulla privacy evito di citare nome e cognome per esteso; anche questa penso sia una legge sbagliata, o almeno fuori luogo, visto che nella caterva di nostre leggi è l’unica che viene rispettata, fino al parossismo), che di soprannome fa “il Califfo” (un soprannome non aggira la legge citata poco fa; l’individuazione del soggetto è criptata dal fatto che di Califfi siamo pieni. Uno è il Califfo Massimo, non il buon D’Alema nonostante anche lui abbia una discreta dose di califfità, che esplicita questo titolo in tutte le potestà attribuite appunto ai califfi), orbene questo F.C. Califfo ritenendo di appartenere alla ristretta cerchia dei benefattori culturali di questo Paese, ha richiesto l’accesso alla legge citata in apertura.
In una intervista a un noto quotidiano, e a voce in interventi televisivi, il Califfo ha detto espressamente di avere sperperato miliardi, di avere “avuto” oltre mille donne (ritengo che qui si sia frenato, secondo me “femmine” sarebbe stato più adeguato; le donne, pur conoscendole poco, credo siano altra cosa), di essere caduto fratturandosi, se non ricordo male, tre vertebre.
Questo incidente gli impedisce l’esibizione nelle piazze, fatto che lo priva del sostentamento e dello stile di vita cui era abituato.
Un senatore, Domenico Gramazio, ha preso a cuore la faccenda, ha rispolverato la legge citata e l’ha già presentata al ministro della cultura, Bondi, che si è impegnato a iniziare l’iter per l’assegno del vitalizio.
E’ di stamattina l’interessamento del governatore della regione Lazio, Polverini, che si è impegnata, cuore in mano, a dare adeguato sostegno al vivere dignitoso di F.C. Califfo.
Alla quale, in fase di ringraziamento, il nostro ha promesso di dedicare una canzone, perché “è una bella gnocca”.
Il Gramazio, in particolare, ha espressamente escluso che il fatto che F.C. “sia di destra da tempi non sospetti” abbia influenzato il suo pronto e disinteressato intervento, suscitato invece soltanto da spirito umanitario verso un Califfo che ha onorato la cultura italiana.
Va da sé che altrettanto spirito aleggia sul Bondi e sulla Polverini.
Dice F.C. che si trova costretto a vivere con ventimila euro l’anno di diritti d’autore, di dover pagare l’affitto, per il mangiare di arrangiarsi per strada (o cassonetti o Caritas o a scrocco, presumo).
Il vitalizio, se (ma è un dubitativo pro-forma, con questi spingitori ci sarebbe da protestare se non glielo danno) glielo dovessero assegnare, avrebbe altri circa ventiquattromila euro all’anno.
Occhio e croce, per chi non sa di matematica, quarantacinquemila euro l’anno.
Da arrotondare con qualche scesa in piazza, ogni tanto.

Atto III

Sempre due giorni fa, leggo (a me piace leggere tutto) in un blog che poi cito, una lettera aperta che mi è sembrata talmente incredibile da poterla ritenere vera. Anche se mi piacerebbe non lo fosse.
La sintetizzo (guardate che vi ho sentito: maledetto gatto, se sintetizza il bel tempo non torna più!).
L’ha scritta un signore, M.C., di 48 anni, indirizzata ai più alti organi dello Stato.
Questo signore lavorava dall’85 alla sede RAI/Abruzzo, distaccato alla segreteria del TGR.
Nel febbraio 2010 gli viene diagnosticato un tumore al pancreas; da quel periodo è in malattia.
Uno dice: poveretto, speriamo che se la cavi.
Beh, non è questo il suo cruccio. La sua angoscia, che nella lettera espone senza mezzi termini, è dovuta a una legge (santa legge, come la Bacchelli) che prevede dopo 208 giorni di malattia (circa sette mesi) la decurtazione dello stipendio del 50%; dopo i successivi 8 mesi al 50%, lo stipendio verrà azzerato, e resterà azzerato fino allo scadere dei 24 mesi.
Con l’invalidità riconosciuta al 100%.
Dopo tale data la ditta (la RAI, stiamo parlando di RAI, di cui sparlare è come sparare sulla Croce Rossa) potrebbe procedere al suo licenziamento, sempre in ossequio alla stessa legge che gli sforbicia lo stipendio.
La sforbiciata, visto che parlare di cifre non è reato, lo porterà a 700/1000 euro mensili contro lo stipendi pieno di circa 2000 che percepiva.
Nella lettera M.C. parla anche di incongruenze che fanno accapponare la pelle: per favore, andate a leggerla per esteso.
La trovate su LIBERAL VOX dell’8 novembre scorso, il titolo del post è “Vivere col cancro con mezzo stipendio”.

Atto IV

Due vergogne a confronto.
Una strettissimamente personale (che coinvolge la cerchia che la sostiene), che la mancanza di dignità rende odiosa, nelle motivazioni e nella eventuale applicazione. Gli istrioni mi divertono, i marpioni mi irritano.
L’altra, non è vergogna di M.C.: è vergogna in primis della RAI e, a seguire, nostra, di tutti noi.

mercoledì 3 novembre 2010

Il canto del gallo




ËL CANTÈ DËL GAL
Coma chiel fasìa già tute le matin
ëdcò col di l’ha comensà a canté:
drinta sò gioch, sensa gnun sagrin,
la soa testa drita mach për saluté.

La soa bela crësta rossa bin solià
a dasìa ciàir ël sens ëd la coron-a:
përchè ’d col polì, chiel, a l’era ’l rè
e a lo controlava pròpi ’d...përson-a.

Andrinta na cort, ciàira e luminosa,
a-i caminava col nòbil bin soagnà:
con ël sò pass leger a spassigiava
blagand con soe piume bin pëntnà.

Chiel as fasìa bel con soe galin-e
ch’a lo cudìo pien-e d’amirassion:
për ël blagheur a j’ero soe...regin-e,
ma a deuvìo capì bin la situassion.

Ma ’n brut di ij làder a son passà
e dal polì l’han piàit tute le galin-e:
chiel për soa fortun-a a l’é scapà,
ma col brut di l’ha fai-je ...pròpi fin-e.

Për un pò ’d temp l’ha pa pì cantà
con ël sò cheur pien ëd soferensa:
peui con cole pole neuve l’ha trovà
na rason neuva për soa esistensa.

Al fond ëd costa stòria j’é na moral
ch’a val s’a-i é ’l sol e con la brin-a:
për podèj sempre sente canté ’n gal
basta ch’a-i sia davzin...soa galin-a.

                                                                                                                                        (Attilio Rossi)
   


Il gatto l’ha tradotta dal chicchirichese, miagolandola così:

IL CANTO DEL GALLO

Come lui faceva tutte le mattine
anche quel giorno ha cominciato a cantare
dentro il suo pollaio, senza alcun pensiero,
con la sua testa dritta solo per salutare.

La sua bella cresta rossa ben eretta
dava chiaro il senso della corona:
perché di quel pollaio, lui, era il re
e lo controllava proprio di persona.

Dentro la corte, chiara e luminosa,
ci camminava con portamento nobile:
col suo passo leggero passeggiava
mostrando le sue piume ben pettinate.

Lui si faceva bello con le sue galline
che lo accudivano piene d’ammirazione:
per il damerino erano le sue… regine,
ma dovevano capire bene la situazione.

Ma un brutto giorno i ladri son passati
e dal pollaio han preso tutte le galline:
lui per sua fortuna se n’è scappato,
ma quel brutto giorno è stato la fine.

Per un po’ di tempo non ha più cantato
con il suo cuore pieno di sofferenza:
poi con le pollastre nuove ha trovato
una nuova ragione per la sua esistenza.

Alla fine di questa storia c’è una morale
che vale se c’è il sole e con la brina:
per poter sempre sentire cantare un gallo
basta che ci sia vicina… la sua gallina.



La morale della poesia è chiara: se c’è la gallina il gallo canta, sennò nisba.

A chi è piaciuta la poesia, dovrebbe piacere anche la favoletta che segue.


C’era una volta un gallo che aveva ricevuto in comodato d'uso gratuito, per un tempo determinato (si pensa, si crede, si spera) un Palazzo, e ne aveva fatto un pollaio: per poter cantare a piena gola non si era limitato a una sola gallina, ne aveva volute tante, e tutte lo consideravano un re, il loro re.

Lo stesso gallo possedeva una Villa, altro pollaio: anche qui voleva galline a josa, sempre per amore e per meglio cantare (Ar core non si comanda, diceva).


Aveva anche un’altra villa, isolana, pollaiola pure questa; per non pagare l’Ici l’aveva chiamata Certosa, inserendola tra i beni ecclesiastici esentati dall’odiata imposta. Più che una villa era un paese, in riva al mare, attrezzato di tutto: potevano mancare le galline? No, e lì ci portava le meglio, le più… più!


Per non farsi mancare niente aveva comprato anche una Vecchia capanna, oltreoceano (gli indigeni la chiamano Antigua, per non passare da maccaroni): qui le immancabili galline erano esotiche, sode, abbronzate e non chiedevano il versamento dei contributi dovuti dalle colf.


Cielo, non che per le altre versasse contributi: distribuiva posti di comando, dove le galline potevano sbizzarrirsi, per quanto un cervello di gallina consentisse di fare.


Per altre, esauriti gli ambìti posti di vertice, c’era l’approdo sicuro in televisione, che era un pollaio particolare, a suo tempo acquistato per amplificare i suoi chicchirichì.


Per non apparire un despota, si era circondato di polli e capponi, che potevano chicchireggiare a comando o su delega; talvolta sembrava lo facessero di propria iniziativa, e il gallo, fintamente incazzato, li puniva severamente, promuovendoli a più alti incarichi.


La favola finisce qui.

Come tutte le favole dovrebbe avere una morale. Questa non ce l'ha.

La morale di coloro cui è diretta è morta, la dignità è sepolta, la vergogna non esiste più.