mercoledì 29 dicembre 2010

AUGURI

Ho poco tempo,

gli auguri li faccio da qui,

prima o poi arriveranno a tutti,

tanti che siano, non bastano mai.

Vanno bene per la salute,

vanno bene per i portafogli,

vanno bene per la serenità,

in famiglia e nella società;

andrebbero bene anche per la politica,

ma la vedo assai dura,

è un genere che ormai fa solo paura

(oltre che schifo).

La cosa importante è che sul ponte

non sventoli mai la bandiera bianca.

A U G U R I

2011



domenica 19 dicembre 2010

Una prece per la pace



La pace è cercata da tutti, a parole,
citata assai, con cuore ed amore.
C’è chi per lei prega e in lei ci spera,
ma più si va avanti più è una chimera.
Per difender la pace si fa la guerra,
gente ammazzata che va sottoterra.
Siam tutti armati, tutti in difesa,
guardiamo in cagnesco la mano tesa.
Con pietre o lame o bombardieri,
la pace uccidiamo, oggi come ieri.
Millanta morti portan la scritta
‘riposa in pace’; ma la pace è finita.
E questa pace, il micio orante
chiede che sia immantinente.

Ma c’è una pace che non si sogna,
è quella dei sensi, nessuno l’agogna.
Si gioca solo una partita, con il pallone
che corre, veloce, cercando il suo clone.
Si scende in campo, novanta minuti,
o son novant’anni, quelli vissuti.
Poi c’è il recupero, poi i supplementi,
più passa il tempo più sono pesanti.
Poi, senza sosta, ci sono i rigori,
a bruciare, stentati, gli ultimi ardori.
Si può provare con la pastiglietta,
per farne una in più, ma poco conta.
Forse si riesce ancora a godere,
ma non è più lo stesso piacere.
Non è più l’amore a dare la spinta,
solo la chimica fornisce la grinta.
Si procede al lancio della moneta,
sia testa o croce più non importa.
C’è pure il rischio dell’antidoping,
se è positivo si deve fare outing.
E’ sempre un vanto l’esser virile,
ma con l’aiutino diventa puerile.
L’arbitro fischia, il tempo è scaduto,
il passo è incerto, il capo canuto.
Si lascia il campo, per fine partita,
c’è un’altra gara, questa è finita.
Si va in trasferta, c’è un manto di terra,
la pace è raggiunta, finita è la guerra.
Per questa pace il gatto ha una data,
alle greche calende sia rimandata.

La foto del micio pregaiolo è stata rubata, previo consenso,
dal blog “Gatti e Misfatti” di Mamit,
che qui ringrazio, abbraccio e sbaciucchio natalinevolmente.

La dedica, rigorosamente anagrammata, è in ETICHETTA

lunedì 13 dicembre 2010

Alla donna




Donna, scruto i tuoi occhi di speranza,

mutati da un passato di paure,

che ti volle sempre debole,

sempre schiava d’un Dio, che era uomo.

Non fermasti mai il tuo cammino,

poiché tu eri anche lì, sola,

dove lo stesso Cristo esangue,

decise di spirare a questa terra,

ma tu, col fardello che ti lasciava,

continuavi ad adorare quel viso morto.

E nessuno volle ascoltare il tuo messaggio,

e ancora sola non t’arrendevi,

lasciavi una carezza, ad un figlio che moriva,

baciavi sulla fronte un marito che partiva,

e nello strazio del tuo dolore,

continuasti a rammendare quel lenzuolo.

E il tuo pianto, la tua collera,

a nessuno mai fece pena,

bruciata come strega in una piazza,

lapidata, per la rabbia d’un marito,

violentata da un branco senza volto.

Non c’è giustizia in questa storia,

c’è un passato, che nel tempo si tramuta,

ma non cambia o non vuol farlo.

E quella donna, che nel buio d’una stanza,

accarezza, sul suo ventre, il suo bambino,

spera che quel futuro, che porta in grembo,

sappia sempre da dove è nato,

poiché egli sappia, che se Dio stesso

nacque uomo, fu sempre donna il suo passato.


Gosefe, 20 Luglio 2009


Per oggi non avevo previsto post, poi ho trovato questo video, che mi ha fatto salire il sangue agli occhi. Ieri, girovagando tra i blog, ero incappato in quello di Gioia, La verità, vi prego, sull'Amore, che parla di violenza alle donne. Volevo portarlo qui per divulgarne la lettura, un po' più avanti, ma questo video ha sovvertito i miei piani. Là si parla di violenza omicida, riferita a fatti recentissimi di pura follia. La violenza non è solo follia omicida, la violenza è qualunque atto offensivo verso il prossimo, peggio se rivolto verso la donna. E non è un fatto di razza o colore, quello che mostra il filmato è un'offesa verso l'unica razza esistente in terra: la razza umana. Invito chi mi legge ad andare sul link di Gioia, sommare le due forme di violenza, e fare contro di essa battaglia all'ultimo sangue. Sono con Brown quando ritiene la donna il Graal dell'umanità, e maledico chiunque, in qualunque modo, ne violenti la sacralità.

Dimenticavo: la donna è stata condannata a cinquanta frustate perché aveva indossato 'abiti indecenti', definiti tali un pantalone o una gonna troppo corta. E' insignificante nel giudicare l'assurda violenza, ma è stata frustata senza avere avuto un processo, e i due "prodi" che l'hanno punita erano poliziotti.

mercoledì 8 dicembre 2010

Fiore rubato


In illo tempore è l'incipit usuale di molti racconti evangelici. Indica un tempo senza tempo, comunque inteso come lontano, molto lontano. Ebbene, a quel tempo, tra le svariate attività che hanno occupato la mia vita, immagazzinate poi come esperienze, c'è anche quella di fiorista.
Attenzione: fiorista, non fioraio. Venditore di fiori, non coltivatore degli stessi, anche se nell'uso comune i due termini si equivalgono. Mai avuto il pollice verde; semmai il mio pollice era nero... di inchiostro.
Anche definirmi fiorista, a dire il vero, è una forzatura, un alzarmi di grado assolutamente abusivo... In realtà ero un aiuto-fiorista, e perfino così quell'abito mi starebbe molto largo.
Era andata così: lei, la moglie, aveva voluto la bicicletta del negozio di fiori e io dovevo pedalare.
Nel vero senso della parola: non aveva la patente e non la voleva, da qui le levatacce prima dell'alba per portarla al mercato specifico per fioristi, le consegne delle varie composizioni o piante, il disbrigo delle pratiche burocratiche che, a confronto del peso specifico di quell'attività, erano più pesanti che le alzate mattutine (per fortuna non a cadenza quotidiana).
Un'attività che, volente o nolente, ha lasciato ricordi che hanno caratterizzato un discretamente lungo periodo della vita lavorativa.
Piacevoli e anche amari.
Ripropongo uno di quei ricordi, uno tra quelli che più hanno lasciato il segno
.
Ho rubato un fiore 



I capelli li ho ancora tutti, o quasi.
Sommo oltraggio alla mia fede granata, sono bianchi e neri, sale e pepe; diciamo allegramente brizzolati.
Vado a raccontare un episodio del mio periodo floricolo, che forse ha contribuito all’innevamento della mia chioma.
Erano venuti in negozio marito e moglie a ordinare un cuscino per un defunto. Non doveva essere un parente, né stretto né prossimo né lontano, perché non apparivano addolorati più di tanto per la dipartita.
Per quel poco di esperienza accumulata, mi erano sembrati più seccati del ‘dovere’ di partecipare a quel lutto.
Pesati i soggetti, avevo proposto, in alternativa al cuscino, un puff, che sarebbe poi un cuscinotto rotondo, contenuto nelle misure e nella spesa.
Fiori semplici, nastro adeguato, scritta spartana, costo sostenibile senza patemi.
Erano talmente compunti nel dolore, che se avessi suggerito di lasciar perdere i fiori, offrendo in loro vece un abbraccio consolatorio ai parenti, avrebbero raccolto volentieri il consiglio.
Preso l’ordine, fatto il puff, con la solita Simchetta tuttofare lo avevo portato a destinazione, alla camera mortuaria di un ospedale della città.
La camera mortuaria è una specie di deposito, in cui i cadaveri attendono la successiva sistemazione nelle casse e l’avvio alle rispettive ‘camere ardenti’.
Non so se chi legge abbia mai avuto modo, non dico di frequentarle, ma solo di passarci, magari per errore o per necessità.
Per chi non le conosce, sappia che sono di una freddezza e di una desolazione senza uguali. Si ha un bel da dire che lì, o in posti similari, dobbiamo finirci tutti: visitandole da vivi la reazione di brividi alla schiena viene spontanea.
E non sono brividi da freddo.
Questa camera era situata in una specie di scantinato, la porta spalancata, illuminazione al limite dell’inciampo.
All’esterno un cortiletto, deserto.
All’interno, una serie di tavoli di marmo lungo una parete, della misura dei letti singoli; su ciascuno era adagiato un cadavere, ricoperto da un lenzuolo.
Una targhetta di cartone, attaccata con cerotto sanitario ai piedi del tavolaccio, con i dati dell’ex vivente, per un pronto rintraccio da parte degli addetti delle onoranze funebri.
Lungo la parete di fronte a questi ‘lettini’, c’era un lungo ripiano, con varie attrezzature, pile di lenzuola, sacchi di cotone e altro non individuabile.
Nel locale, più o meno ancora vivo, c’ero io.
E 'loro'.
Trovato il mio ‘cliente’, avevo depositato il puff ai piedi del suo giaciglio, e stavo per andarmene.
Andarmene è eufemistico, più esatto sarebbe ‘per scappare’.
Ma non era giornata per una fuga, peraltro ingloriosa: con la coda dell’occhio mi era ‘sembrato’ di vedere qualcosa che si era mosso sul ripiano degli attrezzi.
(Il gatto è lontano parente del coniglio, quando è il caso anche della lepre, talvolta del giaguaro; di diverso da questi ha, forse, la curiosità, che, sovrapponendosi alla fifa e alla velocità di fuga, gli infonde un coraggio che di solito non ha).
Avevo guardato meglio, e tutto sembrava tranquillo.
Il battito del cuore, nel frattempo, era ridotto ai minimi termini; convinto che il movimento fosse stato frutto di stupida fantasia, alimentata dall’ambiente, e mi stavo allontanando…
No, accidenti, su quel ripiano qualcosa si muoveva!
Non me l’ero fatta addosso solo perché tutto di me si era ristretto a tal punto da non consentire movimenti corporali di sorta.
Gola, cuore, stomaco, intestino e canali evacuativi… tutto bloccato.
La tentazione di una fuga precipitosa era fortissima, ma la curiosità lo era di più.
Avevo individuato, nella semi oscurità, il punto preciso di quel movimento.
Mi ero avvicinato a una copertina, stesa in lungo su quel tavolato; allungando la mano per sollevarla, questa si era di nuovo agitata, con mio conseguente soprassalto.
Ma ormai non potevo tornare indietro.
Sollevatala, da sotto era volato via un passero, terrorizzato a sua volta, quasi urtandomi nella fuga.
Neanche il tempo di chiedergli come fosse finito lì sotto.
Ed era stato il primo botto a un sistema nervoso ormai fatto a budino.
Il secondo era stato la scoperta, sotto quella copertura, del corpicino di un bambino, una creaturina che forse aveva fatto in tempo a vedere in che razza di mondo era finito, e aveva preferito dire: ‘grazie, passo la mano e me ne vado’.
Fortemente scosso (se doveste leggere ‘sconvolto’, sappiate che non siete stati colpiti da un attacco dislessico: è la vera verità del mio stato d’animo in quell’istante, e per parecchi lunghi istanti successivi), non mi era neanche passato per la mente l’abbinamento del passerotto con l’anima di quel bimbo che, finalmente libera, volava verso il cielo.
Ci ho pensato molto tempo dopo, ricordando.
Racconto, e dopo tanti anni posso anche sorridere, pensando al passerotto spaventagatti, ma gli occhi sono gonfi, come allora.
Ero andato al mio puff, avevo tolto un fiore, una modesta gerbera bianca (che è come una grossa margherita), e l’avevo messo sotto la copertina, a fianco di quella piccola creatura, ormai ex tale.
Sono sicuro che il mio ‘cliente’ non se la sarà presa a male per un innocente furtarello.
Anzi, mi piace pensare che si siano ritrovati in un fantastico prato verde punteggiato di fiori, e che il bambino l’abbia restituita, ringraziandolo per il prestito.
Non sono passati mesi o anni, sono passati parecchi lustri, ma quel bambino, quel passerotto e quella gerbera sono ancora in me, li ho assimilati e, quando sarà ora, li porterò con me, oltre 'quella' porta.

venerdì 3 dicembre 2010

Percezioni




Mi sono visto esile filo d’erba
piegato dalle brezze della vita
mentre alba sorgeva,
resistere ai neri inverni
e alle lunghe notti senza cielo.

Mi sono visto fragile arbusto
curvato dalle raffiche d’una tempesta
scatenata dall’uomo,
rincorrere orizzonti lontani
ed effimere speranze d’un domani.

Mi sono visto albero forzuto
stendere rami verdigni nell’azzurro
verso il sole,
a proteggere esili fili d’erba
affacciati alle soglie della vita.

Mi vedo vetusta quercia
apparire salda agli uomini in transito
oltre il visibile.
Ma opache eco rimbalzano,
sordi rimbombi al becco del picchio…

… e si sentono i passi del taglialegna.

Angelo Roberto Campiselli (1981)


Dedicata a tutti i tagliatori di mestiere: a chi taglia fondi alla cieca, a chi taglia teste alla rinfusa, a chi taglia stipendi e pensioni, a chi taglia la sanità fregandosene della gente che muore, a chi taglia la scuola perché l'ignoranza crea consenso..... per tutti il taglialegna deve arrivare. Anche per loro.