mercoledì 29 febbraio 2012

LIBERATELA! LIBERATELI!


Senza altre parole.

Ho cambiato idea, ho delle parole: invito tutti, ma veramente tutti i blogger, a pubblicare, tutti insieme, questo appello. Rubate, come ho fatto io, questa immagine e le altre che già sono disseminate in alcuni blog e pubblicatele. Senza aspettare commenti. E' una storia talmente assurda che i commenti sono ormai superflui. Mi piace pensare che nonno Google e babbo Blogger, da cui sappiamo di essere  spiati, per il nostro bene ovvio, notino e prendano atto che dai loro figli e nipoti sale questo grido. Sappiamo anche che, soprattutto il nonno, arriva dove vuole, non ha confini, per cui chiediamogli a gran voce di arrivare dove noi non possiamo, e far sapere al mondo che la povera Italia, pur immersa nel guano, vuole riavere questa persona a casa. E con lei tutti gli altri "eroi", perché questo sono, essendo senza armi, sequestrati in nome di non si sa bene cosa. 
Ai sequestratori: in nome di quello per cui combattete, tagliarvi le palle in questo modo non gioverà alla vostra causa; fino a quando tenete queste persone prigioniere siete nel torto, comunque.

sabato 25 febbraio 2012

Il calore dell'amicizia

L'amicizia è quella cosa che riscalda il cuore,
dicono e sarà pure vero, però c'è sempre un ma...
Sono all'antica, ho un concetto un poco ristretto:
per me 'amicizia' è molto dare e poco ricevere.
L'amicizia è in tanti aspetti, è elastica,
ma ha molti paletti, e molti sono i freni.
Uno: con un'amica metti il cuore in pace
a tutti la darà, giammai ad un amico.
Però ci sono casi in cui è ingombrante,
e, molto raramente, perfino imbarazzante.
Esempio, un'amica che insiste: "Datti da fare,
tanto nessuno al mondo avrà da ridire",
e il concetto che ne ho va a farsi benedire.
Dice il vecchio saggio, quello senza amici:
"Chi trova un'amica, ha trovato un tesoro".
Ma se quell'amica l'hai tenuta in braccio
quand'era piccolina, e l'hai allattata,
non con latte tuo, e l'hai coccolata,
vezzeggiata, già quand'era implume,
l'hai veduta crescere, diventare adulta,
l'amicizia è a rischio, un rischio di sventura.
Un giorno te la trovi che gira per la casa,
nuda, col pelo al posto giusto e anche di più,
ti cerca, ti insegue, chiaramente ti vuole.
E tu non puoi, non vuoi e manco vorresti,
darle quello che, a gran voce, lei ti chiede.
Non vuoi credere, e neanche pensare,
che il farla sedere sulle tue ginocchia,
carezzarle lievemente le tette ormai mature,
titillarle dolcemente il timido ombelico,
far correre la mano lungo la sua schiena,
a vedere e sentire corde di violino
come pizzicate da un seghetto,
accettarne il mordicchìo dei tuoi lobi
e gl'improbabili tentativi di succhiotti...
Beh, tutto questo non la autorizza
a pensare che con lei io voglia copulare.
Non posso, proprio non posso.
Questo senza essere un falso moralista,
ché ormai la morale è soltanto una faccenda
che riempie un grasso bigotto portafoglio,
ma proprio non posso, proprio non voglio.
Insiste; le ho pure detto: "Ti caccio da casa",
ma lei continua, mi vuole concupire,
sperando nell'assurda, impossibile,
certezza di riuscire alla fine a fornicare.



BLU, l'amica mia
Non è calore d'amicizia quello che la porta, da un po' di tempo a questa parte, a rompermi l'anima, con miagolii struggenti e rotolìi e salti e ronfi e rotolamenti: è soltanto calore, quel tipo di calore che non entra dentro il cuore ma, delicatamente, ti  rompe le pudenda. Le ho dato estropil gocce, a più riprese; è stato come dare un bicchier d'acqua ad uno che pasteggia con la grappa. E fuori, nel giardino, c'è la fila dei compari in vana attesa.


MICIA, l'amica dell'amica
Più che un'amica dell'amica mia, ne è sorella, madre, forse pure nonna, gelosa, quanto basta a schiaffeggiarla, ogni qual volta Blu le venga a tiro. E' una nostalgica, il fazzoletto al collo non è per bellezza: lei crede ancora che sia un bel colore; lo è stato, in passato. E non so come dirle che di quel colore nulla è rimasto, insipido è il sapore, ma, soprattutto, più non dà calore. Si consola, per adesso e finché dura, con un rosso parente lontano del granata, con la speranza che non si trasformi,anche questo, nell'ennesima trombata.



Il riposo dei guerrieri
Due dei compari che aspettano là fuori, forse avranno letto "Il riposo del guerriero"di Christiane Roquefort, o visto il film con la BriBar di Roger Vadim. Avranno pensato: meglio farlo prima, il riposino, in vista d'un'altra notte bianca. Quando troverò un tipo di mutanda, che impedisca le intrusioni non desiderate, aprirò le porte a 'sti guerrieri, oltre che affamati pur ben noti puttanieri.


Morale della favola: se perfino mamma RAI
(che mamma è diventata, senza esserlo mai stata) 
vorrebbe "eliminare" le mamme (le vere) in attesa, 
non vedo perché dovrei accettare un'amica ingravidata, 
con l'obbligo morale di prendere la paternità dei frutti, 
quando, per rispetto appunto all'amicizia, ho respinto, 
a malincuore, le sue reiterate profferte d'amore. 


sabato 18 febbraio 2012

Preferisco il ketchup



Non ci avevo fatto caso, sto diventando borgno (quasi cecato) e scemo nello stupido tentativo di dimostrare che non sono un robot.
L'ho già detto in un commento: i geroglifici mi piace fare finta di leggerli all'Egizio di Torino. Non li capisco, ma il sapere che hanno più di cinquemila anni mi rassicura sul loro essere d'antan.
Con i geroglifici, apprendo ogni volta con sommo piacere la considerazione in cui erano tenuti i gatti già da allora; i neri in particolare.
Un robot non avrebbe potuto sopravvivere tutto questo tempo; un modello in uscita distrugge quello precedente, senza pietà.
Appurato che non sono un robot, per lontanissime ascendenze, perché devo dimostrare con uno stupido giochetto di non esserlo?
Quindi,

NO   al    CAPTCHA
SI'    al    KETCHUP

Tra l'altro, fino a poco tempo fa, si trattava di una parolina, in carattere Arial o simile, che nell'uscita casuale talvolta era divertente, con coincidenze strane che invitavano al sorriso.
Ora, da un po' di tempo, una è abbastanza chiara, l'altra invece potrebbe essere un geroglifico, appunto, ma quelli dell'Egizio sono più intelleggibili.
Per farla breve, prima di questo post ho lasciato perdere una settina di commenti, 1) per non ceccarmi, 2) per non sentirmi più stupido di quel che sono, 3) perché non capisco a chi devo dimostrare di non essere un robot, 4) perché aderendo al giochino più che un robot mi sento un pagliaccio.
Va da sé che dove troverò questo paletto leggerò, come sempre gustandoli, tutti i post, ma come Scesa, tirerò innanz, senza perdere tempo a commentare.
(Lo so, riceverò inviti a mantenere la promessa, e magari invece di eliminare questa schifezza, ci sarà la corsa alla sua immissione. Pazienza, non si può avere tutto dalla vita).

giovedì 9 febbraio 2012

Penso che un giorno così...

E' lungo, ve lo dico subito. Temo che nel mio DNA ci sia una cellula impazzita, specificamente diuretica. Quando madamalaprostata mi darà l'altolà, dicendo stop alle fiumarelle, mi limiterò ai plin-plin, con la speranza che non siano plin-plin da calcoli renali. Chi, nonostante il preavviso, volesse eroicamente leggere, si prenda un giorno di ferie o di permesso, o ci sprechi un fine settimana. Io il mio dovere l'ho fatto, che non salti su un alemanno qualunque che dica che non ho avvisato.

Autunno scorso.
Già inoltrato, ma ancora estivo. Al punto che se al mattino non avessimo trovato il sole ad aspettare la nostra levata, ce ne saremmo stupiti.
Era già tutto predisposto, nel caso l'inverno fosse arrivato non ci avrebbe trovati impreparati.
La legna per il termocamino l'avevamo presa già a luglio, bella e soprattutto asciutta.
Le ramaglie della potatura degli ulivi e delle piante da frutto erano fascinate per bene e messe in seccatura. Le viti aspettavano il tempo freddo per fare la stessa fine.
Restava solo da dare una pulitina alla canna fumaria e al forno di accensione.
Rettifico: era "quasi" tutto predisposto.
All'apertura dello sportello del fornetto avevamo trovato un lago.
I mattoni refrattari, pregni d'acqua, non galleggiavano solo perché sarebbe stato contro natura; e comunque non avrebbero potuto galleggiare, zuppi com'erano, simili a spugne di creta.
Il palazzo ha tremato: a un piatto forte di "mannaggia" avevo aggiunto un contorno che uno scaricatore di porto turco di passaggio mi avrebbe chiesto, più o meno dolcemente, di vergognarmi.
Passata la prima buriana, comunque il problema era da affrontare, non più a parole o peggio, ma in modo quanto più possibile realistico.
Anche per non trovarci con l'inverno addosso, senza riscaldamento e acqua calda.
Per l'acqua calda, è vero, abbiamo il metano, ma l'investimento nel termocamino lo avevo fatto proprio per evitare di mandare i miei risparmi in Russia o in Algeria.
Sollevati i mattoni e travasata l'acqua, con torcia e specchietto avevo individuato il punto di perdita della caldaia. Non potevo fare altro.
Idraulico.
Era arrivato in tempi rapidi, aveva fatto lo stesso esame che avevo fatto io, confermando la diagnosi.
Non avrebbe potuto intervenire, poiché la riparazione consisteva in una saldatura in un punto delicato, doveva essere fatta da uno specialista; il rischio era di allargare vieppiù il microscopico forellino, il che avrebbe mandato a puttane tutto il marchingegno.
Solo la Ditta produttrice avrebbe potuto valutare la possibilità d'intervento.
Aveva provveduto direttamente a prendere contatto con lo stabilimento, spiegando il problema.
Da là avevano chiesto: dati completi del cliente, codice del prodotto, dati della fattura di acquisto, dati del montatore...
Fatto.
Se n'era andato, l'idraulico, e avevo dovuto chiedergli l'importo per il disturbo: dieci euro.
In pratica, un obolo.
A strettissimo giro di mail era arrivata la risposta.
"Gentile signore, la garanzia commerciale legale prevede due anni; la nostra Ditta ne dà cinque, tanta è la fiducia che abbiano nei nostri prodotti. Il suo termocamino è stato installato dieci anni fa, pertanto è largamente fuori da questa copertura. Peraltro, per rispetto alla sua persona, esamineremo il problema in officina, per valutare la possibilità dell'intervento. Se intende confermare la richiesta del 'tentativo' di riparazione, ci faccia avere qualche fotografia che inquadri al meglio il guasto. Le faremo sapere al più presto possibile i risultati di questo esame. Distinti saluti. - L.S.".
Sospiro profondo. Pausa.
(Se all'epoca della nascita di questo indegno blog, anziché ribatezzarmi gattonero, avessi scelto come nick gattoNemo, nessuno, appunto, avrebbe trovato da ridire. Ma non per falsa modestia o per umiltà pelosa, bensì per un ragionamento tutto mio, peraltro difficilmente opinabile. So di essere la settemiliardesima parte di un tutt'uno umano. Rispetto, cerco di rispettare tutti gli altri colleghi in vita, quelli nella sventura in particolare, ma anche chi ha avuto fortuna; chi questa fortuna se la fa sulle mie spalle un tantino meno, e non alludo a chi lavora. Se questo "rispetto" mi viene prospettato da un'altra settemiliardesima parte, mai vista né conosciuta, e viene collocato in un fatto contingente specifico, mi si drizzano orecchie pelo e quant'altro, come un segnale di allarme).
Dopo il messaggio mi ero sentito con il viso ampiamente insaponato, e avevo visto una lama di rasoio volteggiante, alla ricerca della zona migliore per un bel taglio.
Ed era diretta alla mia gola.
Ma non avevo scelta: non potevo permettermi di mandare quella Ditta al diavolo, poiché non c'era alternativa al suo 'tentativo' d'intervento; e non potevo permettermi di tenere in casa un monumento, inutilmente inattivo, magari con la speranza che il piccolo pertugio si chiudesse da solo.
D'altra parte non potevo pensare alla sostituzione integrale del termocamino, che avrebbe comportato, intanto, la demolizione del manufatto esterno. A quel rivestimento avevo, dieci anni prima, collaborato attivamente, disegnandolo, preparando i cartoni per il taglio dei marmi, e alla fine come manovale pagante, preparando l'impasto cementizio e tagliando i mattoni sulle indicazioni del mastro muratore.
Ho la casa che pullula di macchine fotografiche, quelle datate non mi avrebbero dato la certezza di un'immagine abbastanza valida; quelle più recenti, le cosiddette digitali, o non le sapevo usare o comunque non ero (sono) in grado di trasferirne il frutto nel computer in vista della spedizione.
Ergo, fotografo professionista.
Non so se per pietà o perché non aveva niente da fare, aveva chiuso il negozio, si era bardato di una macchina con teleobiettivo e maxiflash, di quelle che di solito vengono usate dai paparazzi per beccare i personaggi illustri quando si mettono le dita nel naso.
A casa, pancia a terra, non come forma letteraria ma proprio steso come nelle ordinazioni sacerdotali, luce a giornata di sole agostano, aveva scattato un po' di foto. Se le era portate in negozio e da lì le aveva mandate direttamente alla Ditta; aveva detto di avere un canale speciale che le avrebbe rese più intelleggibili nei particolari.
Quant'è?
Dieci euro.
(Nonostante il momento tragico, avevo pensato al film con Benigni e Troisi, Non ci resta che piangere, nella parte del doganiere che ad ogni transito chiedeva un fiorino; non ci avevo mai pensato, ma non credevo che dalla fine del '400 ad oggi l'inflazione avesse galoppato tanto).
Centralinista telefonica: "Appena avremo le informazioni dall'officina, sarà nostra premura concordare con lei i tempi dell'intervento".
Dalla voce, una bella ragazza, probabilmente sorridente, ma nel momento di pessimismo la immaginavo sogghignante e con i canini assetati di sangue.
Il venerdì successivo a queste manovre: "Guardi, potremmo venire lunedì, ma è meglio ri-sentirci, per fissare con certezza, forse per martedì. Sa com'è, se lunedì qualcuno non si presenta per motivi suoi, dovremmo rivedere il piano. Nel frattempo vuoti per bene la caldaia, altrimenti non sarà possibile intervenire".
Il solito idraulico: per vuotare la caldaia aveva chiuso le chiavi d'arresto dei termosifoni, e aveva dovuto segare tre tubi di rame, poiché dieci anni prima l'astuto montatore non aveva previsto un rubinetto di scarico della caldaia.
Combien? Niente, che tanto avrebbe dovuto tornare per il riallaccio.
Lunedì: ok alla venuta. Sarebbero arrivati due tecnici, a bordo di un Ducato. Avrebbero avuto appresso il mio numero di cellulare per concordare il rendez-vous.
Una precisazione doverosa: questa Ditta ha l'unico stabilimento a circa 350 km da casa mia, quasi in mezzo a delle montagne; il percorso è un misto di autostrada, statali, provinciali, comunali. Non conoscendo la zona, l'unica possibilità di contatto era il mio cellulare.
Martedì mattina, prestissimo: "Siamo i tecnici per il termocamino, siamo in autostrada, dove usciamo?".
Indicata l'uscita, avevo completato le informazioni: "Una volta usciti, seguite la statale fino a quando vi trovate di fronte il mare, dovrete passare sul ponte che scavalca il fiume. Subito dopo, sulla destra c'è un distributore di carburante con un grande piazzale. Io sarò lì con una C1 rossa; ci incontriamo, un caffé al bar, e andiamo a casa. Ma il vostro mezzo ha segni di riconoscimento?".
"Roger per quello che riguarda il percorso; il mezzo è un comune Ducato, ma è pieno dei loghi della Ditta, non si può sbagliare".
Mi ero portato al piazzale, e avevo parcheggiato la macchina bene in vista, già in direzione di uscita.
Si tratta di un piazzale che all'interno ospita tutte le fermate dei bus di linea, e la notte accoglie i TIR che necessitano della sosta.
Una sigaretta, sguardo al retrovisore per tenere d'occhio l'arrivo del mezzo.
Sulla strada passava di tutto, dai cicli, alle moto, ai bus, ai camion, ad andatura allegra ma non eccessiva, pur essendo in rettilineo.
Ad un certo punto avevo visto passare un missile, travestito da Ducato; e meno male che avevo fatto in tempo a leggere sulla fiancata il nome della Ditta.
Prima di mettere in moto e lanciarmi all'inseguimento, avevo preso il cellulare alla ricerca del numero, memorizzato dall'ultima chiamata.
"Ma dove andate, io sono qui all'area di servizio. Uscite dalla statale al primo svincolo sulla destra, io sto arrivando".
Trovati, in sosta, col muso del furgone ovviamente in direzione opposta a quella da prendere.
"Ma avevamo appuntamento all'area di servizio".
"Quale area, non l'abbiamo proprio vista".
Vabbé, inversione e follow me.
In circa un chilometro di strada si possono pensare tante cose, ma una mi frullava ripetitiva nel cervello: se questi non avevano visto quell'area di servizio, tra l'altro unica in zona, avrebbero mai potuto vedere il nanoforellino della mia caldaia?
Avevano scaricato tutto un armamentario, dalla saldatrice all'aspiratore, alla smerigliatrice, alle prolunghe... Uno era un tecnico-tecnico, l'altro un tecnico-operaio.
Tolti anche i mattoni laterali, quest'ultimo si era infilato nel tabernacolo, con lampada e specchio per localizzare bene il danno prima di procedere al "tentativo" di saldatura.
Intanto avevo convocato l'ormai amico idraulico, tra l'altro interessato alla procedura per curiosità professionale.
Maschera, occhiali neri, guantoni, smeriglio, saldatura, pulizia, aspirazione dei fumi, ancora pulizia, ancora saldatura, una boccata d'aria e un bicchiere d'acqua fresca per il tecnico-operaio.
Il tecnico-tecnico, nel mentre dava una mano nel seguire l'evolversi del lavoro, ci faceva un corso di aggiornamento sulle qualità delle ultime versioni del loro termocamino a legna, con le migliorie nel tempo apportate.
Mi era sembrato un mettere le mani avanti: se non dovessimo riuscire nella riparazione, siamo pronti a cambiare questo aggeggio vetusto con uno di ultima generazione.
Due ore, due lunghe ore di entra ed esci da quel buco.
Alla fine, la riparazione, visivamente, sembrava riuscita.
Riallaccio dei tubi di carico.
Collaudo, con riempimento della caldaia.
Esito positivo.
I tre apparivano molto soddisfatti.
E noi con loro.
Fatto trenta avevano fatto trentuno, cambiando tutti i refrattari e lasciandomi una maniglia dello sportello, visto che quella vecchia era un po' traballante, da cambiare quando fosse passata a miglior vita.
Caffé, dolcetti fatti in casa.
Il tecnico-tecnico si era seduto, appoggiando alla base della ghigliottina delle carte, che aveva cominciato a riempire.
Io, seduto a fianco del patibolo, aspettavo la sentenza.
Scriveva bene, per essere un tecnico, e io leggevo la descrizione dell'intervento, che sembrava una cartella clinica.
Era tutto chiarissimo, ma l'ultima frase me l'ero fatta ripetere, poiché pensavo di avere letto malamente.
"L'intervento è stato eseguito a titolo gratuito".
Un piacevolissimo pugno in faccia.
Ma lo scetticismo atavico aveva cercato una breccia per non essere convinto:
"Grazie per l'intervento gratuito, ma il viaggio, il tempo, il materiale?".
"Per noi l'intervento ha inizio all'uscita dallo stabilimento e termina con il rientro nello stesso".
Avevo dato una discreta mancia ad entrambi, ripromettendomi di ringraziare a modo mio quello che mi avevano detto essere il titolare; lo stesso che mi aveva insaponato col "rispetto alla sua persona" e che pensavo mi avrebbe tagliato la gola.
Gli avevo fatto avere una mail, in cui, letteralmente, gli dicevo che: a) ero rimasto di merda; b) che avrei rivisto il mio scetticismo nel credere a Babbo Natale; c) grazie.
L'amico idraulico: il suo via-vai, alla sera, era stato compensato con 'ben' sessanta euro.
E quando, a domanda, avevo detto che la Ditta non aveva voluto niente, non si era stupito: la serietà si misura così.
Al di là del piacere (grande) ricevuto, una considerazione spericolata: non è che stiamo andando in malora perché la gente lavora solo per tenere lucida la targa della serietà?

Ed ecco il perché di un ditta generico maiuscolato in Ditta; è il meno che potessi fare.

Ed ecco, altresì, perché: 
penso che un giorno così
non ritorni mai più.



domenica 5 febbraio 2012

S.O.S. aggiornamento

Devo entrare dalla porta principale, poiché dalla secondaria sono ancora palettato.
Il portinaio, che di nome fa Blogger e di cognome Google, si è portato via le chiavi e non mi fa entrare a casa mia da dove vorrei io.
La situazione è fluida, come dicono a Roma, e in ampi dintorni, in questi giorni.
Mi sono incaponito, e ho passato tutti i blog, seguendo all'inverso l'ordine cronologico di parto dei post.
In una discreta parte ho trovato udienza, talvolta cliccando su "rispondi", in altri già prima non avevo trovato ostacoli (fortunati? sfortunati?), in parecchi altri ancora continua ad apparire l'assurdo invito "scegli" senza la possibilità di scelta, in altri esce "posta commento", e quando ci clicco con l'audio acceso esce un sibilo che sembra una pernacchia abortita.
Ho mandato ancora altri messaggi, al portinaio e al suo degno padre: nessuna risposta, nè ai messaggi né con la sistemazione del problema.
Mi viene da pensare che sono all'interno di qualche mezzo bloccato dal maltempo.
Voglio ringraziare tutti per gli interventi, quelli di impotente solidarietà e per i suggerimenti tecnici, che (per mia assoluta riconosciuta inadeguatezza) forse non sono stato in grado di applicare in modo preciso; ma erano talmente semplici, e ho eseguito le manovre con l'accortezza del buon padre di famiglia, per cui non mi colpevolizzo più di tanto.
Ciao a tutti, e speriamo che freddo neve e gelo smettano di farci compagnia. 

giovedì 2 febbraio 2012

S.O.S.

I blog (o si dice blogs?) io li vedo come una lunga fila di bancarelle, piene di libri, di storie, di emozioni, di poesia, di racconti, veri o di fantasia, che sono favole, che fanno sognare un mondo che non c'è più (o forse non c'è mai stato, ma in ogni tempo favole e poesia hanno fatto sognare, e i sognatori non sono migliaia o milioni, nel tempo sono miliardi; e se la scrittura è arrivata a noi, è perché questa ci ha trasmesso tutto il passato e ci fa intravvedere, per chi lo vuole, il futuro).
In queste bancarelle virtuali, noi lettori ci soffermiamo, leggiamo, talvolta rileggiamo, gustiamo quello che riteniamo sia da gustare, poi passiamo oltre, alla successiva.
Non sempre acquistiamo.
La prova dell'acquisto, lo scontrino (non fiscale) di questi acquisti è il cosiddetto "commento".
C'è un manometro delle visualizzazioni, ma è (lo è?) anonimo. Se il manometro mi dice che 1000 persone (cifra ipotetica, non reale) hanno visitato un mio post, qualcosa ho seminato. Se di questi 1000, due o tre hanno commentato, so per certo che la "vendita" del prodotto è stata positiva.
Al dunque, per farla breve, sto fumando.
Ma non come si fuma una sigaretta; sto fumando nero, che un incendio in un deposito di pneumatici in fiamme equivarrebbe alle nuvolette bianche dei messaggi tra indiani d'America.
Succede che, da qualche giorno, i miei (e lo spero vivamente, per via del mal comune mezzo gaudio) commenti vengono bloccati da un paletto, che invano ho tentato di riprodurre, e che qui propongo, in versione domestica.
Al termine dei post mi trovo:


Commenta come: un rettangolino con freccetta verso il basso di scelta


Pubblica Anteprima dentro un rettangolini grigio


Clicco sulla freccetta e mi esce un... defalco


Clicco su Pubblica e mi esce in rosso "Scegli il profilo".


Ma come cazzo scelgo il profilo se non mi viene proposta la scelta?


Ora non so se è Google, se è Blogger, se è twist o cha-cha-cha, ma


Soccorrettemi
Ovvero
Sopprimettemi


Houston, o dove diavolo siete, ho un problema! Me lo risolvete, o devo mettermi ad attraversarvi la strada avanti e indietro (sulle strisce pedonali, così se siete pure assassini, mi pagate come fossi buono) finché peste non vi colga?


Io lo scontrino di acquisto lo voglio, anche dalle bancarelle.

mercoledì 1 febbraio 2012

Quarantadue (più due)


(Oggi, un anno fa, Angela è stata in sala operatoria per sei infinite ore. Vorrei raccontarle, ma è un’esperienza ben nota a chiunque (da un intervento all’appendice, a un parto o all’ablazione di un tumore) abbia sostato nelle sale d’attesa. Sarebbe una storia di fumo e di sudori freddi. Preferisco vedere questa data da un’altra angolazione).

“Quarantadue (più due) gatti, in fila per tre…”.
No, non sono gatti, e sono in fila indiana, uno appresso all’altro.
Due da maritati, quarantadue da sposati.
Era il ’68, quando ci siamo messi insieme; ma non eravamo stati influenzati né dai movimenti studenteschi né dalla nascente libertà sessuale.
Eravamo fuori dal giro, ormai da tempo.
Lei sola, io solo: dui balengu (letterale: due poveri deficienti,  sprovveduti,  imbranati; figurato: due poveri tapini) in una grande città; come due parti di una meringa, che la crema aveva  (ha) unificato.
Nel periodo ‘pre’ si era buscata la pleurite; due mesi in ospedale (non c’era ancora la manìa di mandare la gente a morire per strada in cerca di un posto-letto; e gli ospedali curavano, per quanto possibile guarivano, e se non eri guarito, o morto,  non ti facevano uscire).
C’erano le camerate, una ventina di posti in ognuna.
Donne già mature, sposate, mariti e figli e figlie che le andavano a trovare.
Per non essere da meno delle compagne di stanzone, mi aveva presentato come marito, chiedendomi di confermare questa situazione.
Suore in plancia, forse le avevano chiesto chi era quel giovanotto che ogni giorno si presentava nelle ore più svariate, troppo interessato alla sua persona per essere un semplice conoscente; anche loro erano fuori dal giro, ma con altre motivazioni.
C’era, infatti, un terzo modo per uscire da 'quegli' ospedali: allora il latino nell’ambiente ecclesiale era unica lingua ammessa, e il termine more uxorio rientrava nella vasta terminologia dei peccati; tra l’altro, di quelli ‘mortali’.
Il termine ‘convivenza fuori dal matrimonio’ poteva voler dire dimissione immediata, il peccato non poteva avere un letto in corsia.
Era il tempo dello sgonfiamento della gomma della macchina, come ritorsione per la soffiata di un’amica che le aveva riferito d’avermi ‘visto’ in giro con un’altra ragazza.
(Enrica, mi ruga inserirti in questo testo, ma lo faccio per dirti quanto sei stata stronza; hai colto al volo la gelosia di Angela, e così mi sono trovato con la ruota della macchina sgonfiata da quella pazzerella. E hai pure avuto il coraggio di unirti a noi per andare a mangiare il gelato da Florio, tremante nel segnalarmi che “qualcosa nella macchina non andava”. C’è altro: spero che la parrucca che ti sei comprata con il biglietto da cinquantamila, sfilato dal libretto postale che avevo affidato ad Angela, fosse di già piena di pidocchi; a questi, con te, se ne sarebbe aggiunto uno. L’avessi almeno speso dal dentista, visto che avevi denti a seghetto, che se mai avessi accettato di farmi 'monicare' da te avrei dovuto fargli indossare un pneumatico, per non vedermelo finire  come sanbartolomeo, scorticato vivo. Con quel cinquantino, all’epoca ci avrei pagato tre mesi della mia ammobiliata: oggi appaiono cifra ridicola, ma allora non lo era. Vai al diavolo, solo il ricordarti mi ha fatto incazzare).
La proposta di sposarci non l’avevo fatta col classico ginocchio a terra a implorare il suo “sì”. Sarebbe stato pleonastico, e, ormai conoscendomi anche per le battute, ci sarebbe stato il rischio di una risata o quell’invito recente in risposta al mio “perché sei bella”.
Una notte qualunque, espletati i piaceri caserecci, le avevo detto:
“Sposiamoci”.
“Va bene”, aveva risposto, convalidando l’ok con un bacio.
“Buona notte”.
Sicuramente non ero ‘mbriaco, altrimenti la mattina dopo non avrei ricordato quel messaggio notturno.
Ho una memoria discreta, ma non ricordo di averle dato il cosiddetto “anello di fidanzamento”. Probabilmente già allora lo ritenevo una baggianata, pleonastica come un sì dopo due anni di convivenza.
Oggi pomeriggio, quarantadue anni fa, eravamo sposati.
Giorno della merla, c’era il sole e faceva freddo.
Oggi, giorno della merla, il cielo è di piombo, piove e fa freddo. Manco fosse inverno.
Cerimonia al paese dei suoi, simpaticamente a casa del diavolo: quindici chilometri di strada groviera, senza un filo d’asfalto; solo alberi ai lati, per la maggior parte pini; da filo mare saliva solo fino ai seicento metri, ma sembrava un nido d’aquile.
Nel paese, la stradella che portava alla chiesa era un acciottolato, con una cunetta centrale, che convogliava del liquido verso una piazzetta più in basso, in ciotoli pure quella.
Noi elegantini, scarpe stilose, massima attenzione a non inzupparle in quel liquido, che, teoricamente, avrebbe potuto essere acqua, ma in realtà era una abbondante e poco prosaica pisciata d’asina.
O d’asino.
Impegnati a superarla indenni, non avevo fatto prelievi per sapere il sesso di quella fontana. E comunque i ris, i ros, i rip e i rap erano ancora in lontanissimo itinere.
C’era il rock, ma non eseguiva esami di laboratorio.
Parenti per parte mia non ce n’erano. Non avevo  fatto venire mia sorella, troppo lontana e con un bimbo piccolo.
Per il testimone di lei non c’erano stati problemi, in un paese meno che piccolo si conoscevano tutti. Per me era stata cercata una volontaria, che sapesse scrivere, per via della firma  nel registro della chiesa.
Un solo fotografo in zona, aveva preso due appuntamenti, per due matrimoni quello stesso pomeriggio, il nostro e un altro alla marina.
Alternandosi, con quella strada e con tempi coincidenti, da noi era arrivato in ritardo; e il prete, in latino, bestemmiava come un turco.
Ventiquattro foto, dodici in bianconero, dodici a colori.
Il prete, nel frattempo, si era acquetato.
Finita la cerimonia non c’erano stati i soliti fiumi di lacrime che caratterizzano queste situazioni. Qualcosina da parte della madre, ma proprio il minimo per non essere definita cinica.
I genitori, il fratello e la sorella non si erano messi a saltare di gioia per l’avvenimento, ma ad Angela, nei momenti di guerriglia urbana, ho sempre insinuato che dopo la nostra partenza avranno gozzovigliato per settimane: troppa doveva essere stata la felicità di liberarsi di lei e del suo bel caratterino.
Festa in una stanza grande, messa disposizione da un paesano.
Le travi del soffitto in legno non impensierivano più di tanto, non era zona di neve; invece quelle che sostenevano il pavimento un pochino mi davano dei dubbi sulla tenuta.
Un pochino molto.
E ballarci sopra rumbe mazurche sambe valzer tanghi era stata una sfida alla fortuna; tra l’altro un angolo era già sfondato, e il padre di Angela faceva la guardia acché i ragazzini non andassero a ramengo al piano di sotto.
Io non ballo, non so ballare e non mi sono mai preso la briga di imparare. Se questa, agli occhi dei ballerini, è una malattia, non so come affrontarla; e di andare dal medico a dire “non so ballare, mi dia qualcosa” non ci penso nemmeno. Mi vergognerei di meno, se e quando, a chiedere la pillola blu, quella ‘ricostituente’.
Ma la tarantella me l’avevano fatta zompare, ed era stata la prova del nove che quel giorno quel pavimento non sarebbe crollato.
Magnitudo 9 della scala Richter, un’arca di Noè in un mare infuriato; manco la xamamina avrebbe fatto effetto.
Scarpe nuove, gambe buttate a vanvera, calci dati e ricevuti, trenini, contrapposizioni maschi-femmine, bambini urlanti: un casino impossibile da dimenticare .
In un angolo, contrapposto a quello sfondato, un cestino di vimini, chiaramente autarchico, intrecciato da mani che avevano secoli di esperienza: era lì per ricevere i regali in busta, alternativi o complementari ad oggetti di vario genere, poveri, poiché erano tutti di gente veramente povera.
Ma con una dignità che gli aderenti alle liste-nozze odierne manco sanno cosa sia.
Le buste: bigliettini da visita, bianchi, con gli auguri e le firme a questi pressoché illeggibili; o pezzi di quaderni a quadretti, in cui 'aguri' o anche 'auri' abbondavano. Manzi, qui, non era ancora arrivato.
Mille lire, i più facoltosi duemila: ma erano pesanti, molto più di quanto quelle cifre dicessero.
Insomma, nell’insieme, era stata quella che si dice una bellissima giornata.
Notte, piedi gonfi, testa a macigno, avrebbe dovuto essere la fatidica “prima notte di nozze”: piombati in un sonno da catalessi.
Anche perché la stanza in cui avremmo dovuto ‘consumare’ era occupata per intero da un letto matrimoniale cigolante, e l’entrata/uscita dava direttamente nella camera da letto dei suoi genitori.
Il pensiero che potessero essere dei ‘guardoni’ non mi ha mai sfiorato; che potessero sentire eventuali incontrollabili cigolii miagolii o guaiti, sì. E non è che in quelle situazioni sia possibile mettere la sordina.
Tanto la strada ormai la conoscevo, la speranza e l’augurio di quel giorno era che fosse più  lungo possibile.
Fin'ora lo è stato.
L’indomani il padre di Angela aveva tirato fuori un quadernetto, sciupato dalla frequente consultazione. Ci segnava tutti i nomi e le cifre e i regali; il ricevuto era tutto da rendere, nella stessa misura o allo stesso livello, in occasione di battesimi, cresime o matrimoni.
Un do ut des casalingo; una contabilità all’antica, in cui i conti avrebbero dovuto tornare, a costo di rimetterci, per via dell’inflazione.
Una nota, per consentire a chi legge di asciugare i lacrimoni di commozione: per quarantatré anni ho ritenuto di avere amato Angela; se l’avessi amata con la stessa intensità di quest’ultimo, a battere queste sciocchezzuole non ci sarebbe un gatto ma una larva dello stesso.
Tenetelo per voi: so, modestamente, di far parte degli animali in via d’estinzione, e non vorrei finire in una gabbia, con la scusa di salvaguardarmi.
Fin  che potrò, cercherò di salvaguardarmi da solo.
Dopo, mi tirerò il lenzuolo fin sotto il naso e mi farò una bella, lunga dormita.