martedì 28 luglio 2020

Il dono delle lacrime

Un tempo prerogativa femminile, il piangere dell'uomo era considerato segno di scarsa virilità, un qualcosa da evitare o, quantomeno, da evitare in pubblico. In tempi recenti questa espressione ha preso il valore di partecipazione; partecipazione a un dolore, a una commozione diffusa per avvenimenti che "toccano l'anima". Talvolta coinvolgenti, altre volte irritanti.
Anzi, ormai il pianto maschile è divenuto sinonimo di una sensibilità preclara, tant'è che sono molti gli esempi, apertamente visivi, che offrono questa sensazione a chi ha la ventura di assistervi, meglio se in diretta sui social, che riescono talvolta a capovolgere l'impressione che il piangente di turno fosse un duro, notoriamente un cinico.
Anche i delinquenti incalliti hanno scoperto che il pentimento per le performance del passato se irrorato da lacrime (l'abilità consiste nel saperle far scorrere copiose sulle gote, fino a sentirne il sapore sulle labbra) rende, a livello promozionale e giudiziario.
Chiaramente non voglio qui sviscerare il valore delle lacrime, non sono all'altezza di valutarne l'apporto sociologico, comportamentale e filosofico. Dopo aver letto L'idiota di Dostoevskij (tutto, fino all'ultima goccia), lascio ad altri la trattazione di un tema così complesso. 
No, qui voglio raccontare di lacrime metaforiche, non meno commoventi (o irritanti) di quelle che sanno di sale. Un tipo di lacrima molto diffuso, sottaciuto, disprezzato e deprezzato, che riguarda un piagnisteo generale che il virus dilagante ha reso più visibile. Oserei chiamarle lacrime senza pudore, che anziché intenerire finiscono per apparire offensive. Al buon senso, in particolare.
Riguarda il commercio in generale, ma nello specifico fotografa il settore del ristoro, che ufficialmente pare sia stato tra i più colpiti dalla pandemia, tuttora in atto ma (per ora) in fase di assestamento, in attesa di una remissione totale; sul cui avvenire i pareri degli specialisti sono più che mai discordi. Que sera sera...
I ristoratori erano scesi in piazza, come un po' tutte le categorie del lavoro manuale, e i professionisti più svariati. Tutti hanno ricevuto dallo Stato quello che è stato definito "obolo", in alcuni (rari) casi rifiutato poiché ritenuto offensivo della dignità delle categorie. Tutti indistintamente proclamando fior di tasse e fisco strozzante.
Pensionati e lavoratori attivi non avevano motivo di reclamare, essendo noto che costoro le tasse non le pagano; il fatto che le paghino per prelievo diretto, a giudizio insindacabile delle varie agenzie che provvedono a cadenza mensile al suggimento del poco sangue rimasto in vena, è un fatto sopportato senza che le proteste abbiano un seguito. Parafrasando il famoso detto "non hanno pane? che mangino brioches!", questi ultimi (in tutti i sensi) non meritano attenzione. Se è destino che campino bene, altrimenti... si arrangeranno.

Ho il piacere (si dice sempre così) di conoscere alcuni ristoratori, con cui sono abbastanza in confidenza e che non esitano a parlarmi a ruota libera della loro attività. Di tutti ho raccolto il pianto greco durante la fase acuta della pandemia, dando a tutti una parola di conforto e speranza. Onestamente ammetto che tale conforto e speranza le ho date obtorto collo, parole in realtà poco sentite e meno ancora condivisibili.
È sempre stato in me il dubbio che chi può decidere, ed agire adeguandolo, quanto pagare allo Stato, e alla collettività, fosse potenzialmente a rischio di evasione fiscale. So anche che questa convinzione rientra in quella che genericamente è detta 'demagogia', ma si tratta di una sensazione assolutamente personale, che credo sia condivisa sì e no da poche decine di persone, quelle con la corda al collo a mo' di cravatta con il nodo scorsoio che si stringe sempre più. Quindi ne parlo solo per parlarne...

C'è un detto, dialettalmente meridionale ma noto, e applicato, in tutto il Paese, che recita "chiagnere e fottere", piangere e fottere. Pare sia la ricetta migliore per vivere e migliorare la propria condizione e il proprio futuro.
Non sto a disquisire sul controsenso della frase in sé, poiché il piangere e il fottere difficilmente coincidono: di solito chi piange lo fa perché non fotte, e chi fotte non ha motivo alcuno per piangere.
Questa frase me l'ha detta uno di questi ristoratori conosciuti, mostrandomi una specie di suv, un macchinone che lévati, alla mia osservazione, peraltro ironica senza arrivare al sarcasmo, che evidentemente gli affari andavano bene; me l'aveva buttata lì con altrettanta ironia, forse senza malizia.
Questo prima delle feste di fine anno, quando di pandemia ancora non si parlava, ovvero era raccontata come fatto triste riguardante altri, essendo noi in grado di bloccare sul nascere ogni accenno di contagio. Poi vennero i primi mesi del nuovo anno che ci costrinsero ad aprire gli occhi, spingendoci giorno dopo giorno all'adozione di misure drastiche, quantomeno atte a circoscrivere quanto più possibile l'espandersi del malanno.
Accantonata, come tante battute che si dicono, senza dare loro un peso specifico... data per evitare di dare risposte sul perché e su come avesse potuto concedersi questo capriccio. In uno degli infiniti momenti in cui il pianto greco dei commercianti inondava, anche e già allora, la Penisola.
La crisi si era abbattuta su tutti, ma in particolare su questa categoria; ufficialmente benemerita nel sostegno allo Stato con il pagamento di supertasse e paletti burocratici che la soffoca. Da lì a diventare cavallo di battaglia di politici cui il pelo sullo stomaco fa gonna, il passo era stato breve. E poiché, parlando di ristoro, il pensiero corre subito alla pancia, costoro avevano raccolto gli alti lai, accentuati dalla sopraggiunta crisi causa virus.

Le paure del contagio, col passare dei mesi, avevano dato spazio alla presa visione di una crisi economica che, a detta degli esperti, rischiava di fare più danni di quella sanitaria.
Il primo passo, allentati i cordoni della sanità, era stato quello di convogliare in piazza i disagi, le proteste e le richieste che da ogni dove pervenivano ai governanti.
Cui questi rispondevano sfornando interventi quasi a pioggia, alle famiglie e alle imprese. A detta di tutti gli interessati, perlomeno a detta di quelli che ne usufruivano in via diretta, interventi insufficienti a soddisfare le necessità, già falcidiate dalla crisi precedente. Il "non arrivare a fine mese" era il mantra più in voga, con la soglia di povertà sempre ritoccata al peggio.
Allo scopo di aiutare i vari settori produttivi a riprendersi era stato varato un incentivo destinato al ramo edilizio,  con particolare riferimento a ristrutturazioni, rinnovi e installazioni mascherate da risparmio energetico.
Con maxi offerte, in un primo tempo fissate a un rimborso del 90% di quanto speso, poi divenuto 100% e, buon ultimo, al 110%. Non mi addentro nel cuore di queste percentuali, soprattutto di quest'ultima che per me, esperto di aritmetica come una salamandra può esserlo di astronomia, è un mistero. Per quanto ne so, un 100% significa tutto, un tutto di tutto, per cui questo 110% mi è ostico quanto poco altro. La mia ignoranza mi spinge a credere che spendendo 1000, lo Stato restituirà i 1000 più 100 di mancia...
Forse perché non sono interessato visto che, per quanto riguarda il risparmio energetico, nel mio piccolo ho già dato da almeno una dozzina di anni a questa parte.

Comunque, per completare questo racconto, settimana scorsa mi sono trovato con il citato conoscente ristoratore nei pressi di un bar e da lì all'andare insieme a prendere un caffè c'era voluto poco. Ristretto, zucchero da bustina bianca... lo preciso per evitare che lo zucchero di canna possa suscitare velenose insinuazioni su quanto potesse essere dolcificante e quanto... canna.
Parlando di questo e di quello, come è d'uso negli incontri occasionali, a seguito del suo chiangere solito, avevo buttato lì l'amo dell'incentivo prima citato, che poteva essere l'occasione per rinnovare gli infissi di un suo alloggio, che sapevo essere in condizioni a dir poco pietose: in legno, smangiucchiati da tarme e umidità da piogge battenti, in vita da una quarantina d'anni, mi era sembrato consiglio da amico. Che un addentro al commercio come lui mi stupiva non avesse già preso in considerazione.

"Ne ho parlato con il commercialista, non posso aderire perché pago poche tasse".

Per me, ignorante congenito, poche tasse versate significherebbero poco lavoro, gente che mangia a sbafo, nel periodo estivo un turismo latitante, e quel poco che arriva privo di mezzi...

Pare che questo rimborso (fuori da ogni logica percentuale), di cui prima parlavo, avvenga scalando nella denuncia annuale dei redditi, ogni anno per cinque anni, un quinto dell'importo dei lavori effettuati, fino al rimborso totale, anzi, per come l'ho capita io, fino a un rimborso addirittura maggiorato. 
Per il poco che ne so, funziona più o mano così: se nella denuncia dei redditi dell'anno precedente si ha una detrazione da portare a credito, per ottenerla è indispensabile che le tasse pagate nel corso dell'anno di riferimento la possano assorbire, riducendo l'importo del totale pagato al fisco e che da questi viene rimborsato, seguendo le dritte emanate in sede di decreto legislativo, nel corso dell'anno corrente. Se le tasse versate sono talmente basse da non poterci scalare quanto chiesto in detrazione, questa passa in cavallina; il sistema manco accetta la domanda, la considera mai fatta. 
Succede per le detrazioni, che prevedono il rimborso al 19% di quanto speso, ad esempio per spese sanitarie; succede pure per le deduzioni del totale di quanto speso, per altri interventi espressamente previsti, anno per anno. È la prima volta nella storia che viene offerto un rimborso al 110%... a patto che si siano pagate tasse sufficienti a sopportarlo e rispettati i non pochi paletti per accedervi. Questi ultimi facilmente superabili se messi in mano a commercialisti e tecnici adusi a queste operazioni.
Ergo: poche tasse, nisba rimborso.
Questo è quanto ho capito io; e non mi stancherò mai di ripetere e ribadire che permane il dubbio che questo ragionamento sia frutto dell'ignoranza endemica della materia.

Però: mentre gli slogan dalle piazze gridano al mondo le troppe tasse pagate dagli operatori del settore, di cui tutti siamo consci, a parte una minima parte di demagoghi che contestano l'affermazione solo per partito preso, questo "pago poche tasse", spiattellato lì per lì in una tazzina di caffè, mi ha lasciato di stucco.
Io che ingenuamente mi ero aggregato alle lacrime di ristoratori prossimi alla fame, mi ritrovo a prendere atto che, forse, il fondo vero di verità sta nel fatto che, pagando poche tasse, anche le rivendicazioni dovrebbero essere calibrate a queste, altrimenti affiora il dubbio di truffa ai danni dello Stato, ai danni di noi tutti, quelli che le tasse le pagano, e pure in anticipo. Tanto vituperata l'evasione fiscale quanto altrettanto vivacemente combattuta dalle forze dell'ordine delegate all'uopo... forse in maniera troppo blanda per apparire fattiva agli occhi degli ingenui come me.
In coda a questo pago poche tasse conviene dare un'occhiata, superficiale e non maligna, a cosa supporta questa affermazione.
Che, lo ribadisco, è puramente soggettiva, anzi oserei dire unica, essendo impensabile che sia di portata universale in un mondo che, in fondo, lavora per sfamarci.

Tre alloggi, un paio di circa 150 mq ciascuno e uno di una quarantina di metri, assegnatigli dal padre, e a sua volta intestati ai due figli (prima casa per entrambi; of course, niente tasse comunali); due attività di ristorazione, prima avviate a poi date in gestione, il cui usufrutto mensile gli darebbe da vivere più che dignitosamente; un'attività gestita in prima persona che, presumibilmente, sarà il porcellino per le piccole spese, quelle voluttuarie, tipo il suv, quello che ha dato la stura a questo post minimale; furgone, due autovetture, una per figlio, un'altra macchinetta per eventuali consegne in tempo di lockdown... le moto, una ciascuno, per buon peso...
Ha un fratello, identiche condizioni sue, quasi una fotocopia: alloggio grande, macchinone, tre figli, un ristorante dato in gestione, un altro locale di piccola rosticceria anch'esso dato in gestione, e uno rilevato all'inizio della pandemia per consegne a domicilio di cibo, il che gli ha consentito di non interrompere l'attività, bloccata per gli altri locali. A differenza del fratello è meno piagnone, mai ammetterebbe di pagare poche tasse... rientrando a buon titolo nel novero dei reclamanti da piazza.
Il padre, a sua volta, credo sia stato un buon maestro, nel creare e nell'investire i sempre scarsi  (a suo dire) guadagni di un'attività che, alla pari delle pompe funebri, non conosce(va) crisi; ai suoi tempi. Villa (senza piscina, ma solo per mancanza di spazio utile), tre palazzi costruiti, moglie e amanti... auto e mezzi per il trasporto, il tutto  a carico dell'attività, con lo sconto dell'Iva corrente. 
Nel suo caso, il chiagnere e fottere era assolutamente genuino, non perdeva occasione per sciorinare le cifre al dettaglio di quanto pagava, fossero bollette o tasse; piangeva miseria senza vergogna e nel contempo fotteva a tutto spiano, seminando tra l'altro figli di cui si assumeva i costi iniziali senza riconoscerne la paternità. 

È ovvio che il ristoratore di cui ho trattato è la classica formica albina che, in una notte buia e tempestosa, cammina su una lastra di marmo nero. Un caso unico, che non sminuisce il valore e l'onestà di millant'altri operatori del settore.

E con questo chiudo questa elucubrazione: una frase innocente che mi ha scombussolato, mandando in frantumi la mia convinzione che le lacrime siano un dono. In realtà le lacrime, queste lacrime, sono una vera e propria attività. Dirò di più: attività artistica, visto che personalmente non la saprei mai mettere in atto. Se mai tentassi di esibirla, mi scapperebbe da ridere rovinando l'effetto salvifico della lacrimazione stesse...
Nel frattempo le tasse le pago, tutte, fino all'ultimo copeco. E nei 730 chiedo la detrazione per sole spese sanitarie: ogni mille euri me ne tornano indietro 190, ammesso che tutti gli scontrini siano ritenuti validati in maniera esatta. Avessi un rimborso del 110% farei mutui bancari per comprare farmacie intere; e, una volta recuperata la spesa, le darei in gestione, assicurandomi una pensione che nessuno arriverebbe a sognare.
E farei fare una bara a due piazze, per far posto al malloppo quando anche per me suonerà la campana. 

domenica 5 luglio 2020

Punto e a capo

Una vecchia barzelletta racconta di un tizio, fermo alla fermata in attesa dell'arrivo del bus. Che, come sempre, tarda a passare. Ma il tizio non ci fa più caso, è ormai abituato, sa che il giorno che quel mezzo fosse in orario sarebbe prossima la fine del mondo. Aspetta, sereno e rassegnato.
Gli si era affiancata una persona, sconosciuta, si erano scambiati un breve sguardo, neanche un cenno di saluto (una moda di un lontano passato, obsoleta, ancora viva nei paesi del Sud che, a un nuovo arrivato, allo straniero, danno un buongiorno o un buonasera o un salve, che lasciano sempre un'ombra di dubbio iniziale: mi conosce, la conosco?...), anche costui non sembra agitarsi più di tanto per il ritardo. Una persona come tante...
All'improvviso, il neo attendente il bus, senza alcun preavviso, quasi senza guardarlo, gli scaraventa in faccia un din-don che levati, uno schiaffone andata-ritorno, che lascia di sasso il poveretto che li subisce.
"Ma lei è pazzo!", riesce a malapena a balbettare.
"Sì... e allora?", risponde l'altro, imperturbato, indifferente allo stupore del malmenato.
Fine della (specie di) barzelletta.

Che porta a pensare che qualunque psicologo, non necessariamente uno psichiatra, sa che nessun vero pazzo si dichiarerebbe tale.
Molto dopo questa barzelletta, le coltellate e le pistolettate hanno preso il posto dei ceffoni, riservati solo a risse da bar o da stadio; e anche colà l'uso dei pugni va scemando a favore di mezzi più pesanti e cruenti. Di fronte all'evidenza di quelli che ormai sono definibili crimini a ciel sereno, il gioco degli avvocati difensori punta invariabilmente sulla carta dell'infermità (o, in subordine, della seminfermità) mentale dei propri assistiti, con l'intento di ottenere consistenti sconti di pena. Gli imputati mai accetterebbero di dichiararsi mentalmente limitati, a riprova di quanto detto prima. Di volta in volta dichiarano di avere ricevuto messaggi da un alieno, da un santo, da una madonna, da un cristo, da un allah o da un maometto... che li avrebbero portati a gesti criminosi che altrimenti mai avrebbero commesso. E tanto basta agli azzeccagarbugli per dimostrare una discreta deficienza mentale, ottenendone i benefici che la legge concede.
Quel filone, basato sulla non punibilità di chi non è in grado di intendere e volere, si è poi allargato, includendo in quel novero anche chi, beccato a guidare un mezzo in stato di ubriachezza o reso ciuco dall'assunzione di droghe, accampa il diritto a sconti consistenti di pena; talvolta anche in presenza di vittime. In effetti, negare che quel colpevole al momento del reato fosse consapevole di quello che faceva, è abbastanza arduo, perfino a rigor di logica.
Così capita che il furto di una mela per fame non preveda attenuanti, la fame non essendo prevista nei codici che, salvo rarissimi casi di giudici illuminati, portano sovente a condanne che all'occhio innocente appaiono spropositate. Chi commette un delitto (che più grave è, meglio è), trova tutte le scappatoie per evitare, o ridurre notevolmente, la pena inflitta.
Caso a sé i delitti di mafia o gli atti di terrorismo: a responsabili di atti criminosi, una volta esaurito ogni tentativo di professata innocenza, basta "pentirsi" e un prete li assolverà in vista dell'al di là, mentre la giustizia terrena, oltre a ridurre o cancellare la pena, offrirà loro protezione e benefici; nel mentre i talk show se li contenderanno a suon di quattrini, trincerati dietro la "ricerca della verità vera" o, quantomeno, della libera informazione.
Sovente i legali la spuntano, con declamata, bene sbandierata, soddisfazione: una stella in più per la loro carriera e per i propri onorari.
Soddisfazione assolutamente assente nelle persone offese o nei loro congiunti, ma, si sa, le leggi sono fatte per chi riesce a leggerle e applicarle pro domo sua.

Quanto sopra come premessa per dichiarare apertamente che soffro di pignoleria; quella pignoleria che consente di vedere che una formichina ha perso, porella, una zampetta, ma non distingue un elefante che pesta un piede. Per recepire che si tratta di un bestione, devo allontanarmi da lui, andando più lontano a massaggiarmi quello che resta del mio piede.
Mi aggancio alla pseudo barzelletta: "Sono pignolo... e allora?".
Cielo, non si tratta della tipica pignoleria figurata dalla ricerca del puntino sulle "i", la cui dimenticanza, tra l'altro, è resa impossibile dalle nuove tecnologie che affidano alle macchine il compito di piazzarlo al punto giusto; errore che poteva sfuggire nella scrittura manuale, ormai obsoleta.
Qui non voglio scrivere un peana alla pignoleria in generale, che so essere quanto meno figliastra di quella follia così ben presentata nel famoso Elogio. Ma, come quella, è diffusa e, come quella, è misconosciuta; mentre la follia dà da vivere a uno stuolo di psicanalisti, la pignoleria passa quasi sempre inosservata, sopportata come fosse un tic innocuo. Come, nello specifico della lettura, è.
Comunque, sempre di un "punto" vado a parlare; meglio, della sua sistemazione nei testi, quello che ha dato il titolo si questo scritto.

Parto da lontano.
Un tempo, nelle prime classi, quelle elementari ai loro primi inizi per intenderci, le materie insegnate erano limitate a far capire ai ragazzi l'utilità del saper leggere e scrivere, del saper fare due conti in croce,,, cielo, c'era anche l'educazione civica che indirizzava a comportamenti di vita, verso gli altri prima che verso se stessi. Quella fisica, volgarmente detta ginnastica, era affidata alle strade, alle corse nei campi, alle arrampicate sugli alberi, quelli da frutto ovviamente, ai campetti (di lusso quelli degli oratori), nei quali calciare un pallone fatto di stracci era attività fisica più gradita delle flessioni e piegamenti imposti dall'insegnamento canonico della materia; che, tra l'altro, costringeva alla disciplina, all'inquadramento, al rispetto di distanze preordinate in ossequio a comandi feroci.
L'educazione civica è stata soppressa e ogni giorno ne vediamo i risultati. Quella fisica si svolge ormai in palestre supper attrezzate e altrettanto super costose; fanno girare l'economia, senza dare frutti diversi da quelli che davano le nostre sgambate nei cortili.
L'insegnamento dell'italiano, quello che avrebbe avuto come fine ultimo la lettura e, concomitante, la scrittura, era reso difficile soprattutto per la consolidata abitudine ai vari dialetti, succhiati dalle mammelle materne e dalle imprecazioni di padri già allora calati nel malcontento generale per come girava il mondo; mai nel senso giusto, mai che qualcosa andasse bene... e ancora il peggio aveva da venire.
Dell'italiano, che accorpava geografia e storia, la parte iniziale più ostica era il "dettato".
Non so se sia ancora in uso e, se lo è, in quali termini. I bambini ormai nascono "imparati", i ragazzi fanno scuola a quelli che un tempo lontano erano i "grandi", nel frattempo diventati vecchi, quasi rimbambiti da un mondo che corre troppo velocemente a confronto della lentezza, della puntigliosità, dei tempi andati. Dove la ripetitività era l'unico modo conosciuto di insegnare e di apprendere.
Quella monotonia però aveva il pregio di inculcare indelebilmente in menti vergini concetti e costrutti che per affermarsi necessitavano di un martellamento impossibile da dimenticare.
Valeva per le poesie, valeva per le tabelline aritmetiche, valeva per la storia del passato, valeva per le posizioni geografiche... chi ha vissuto in quei tempi, non ha difficoltà a ricordare, pur in un limitato universo di apprensione, quanto gli fu inculcato (talvolta a forza) in mente.

Il "dettato" era il primo approccio a un mondo che, con la conoscenza della lingua parlata poi letta e poi scritta, apriva all'infinito, quello dato dalla lettura, che sarebbe stata, a buon diritto, madre di tutto il resto.
Lo svolgimento iniziale era abbastanza semplice; detto a posteriori, ovviamente...
Il primo assaggio, superati i primi ostacoli della identificazione di vocali e consonanti, consisteva nel riportare su un quaderno quanto l'insegnante leggeva, sulla falsariga di:
Lo aveva guardato e virgola con freddezza virgola gli aveva detto due punti aperte virgolette lettera maiuscola lei faccia quello che vuole virgola io deciderò in seguito chiuse virgolette punto virgola a capo e lettera maiuscola (punto di chiusa ovviamente qui sottinteso)
Presa la mano, bastava scrivere sistemando le punteggiature dove richiesto andassero; per sbagliare qualcosa nella stesura di quanto ascoltato bisognava essere proprio gnocchi.
E, a dire il vero, lo eravamo un po' tutti...
In seguito, appreso con molta più fatica tutto il macinato, si passava alla lettura di testi, eliminando la punteggiatura "a voce"; per cui lo stesso testo veniva affidato così:
Lo aveva guardato e, con freddezza, gli aveva detto: «Lei faccia quello che vuole, io deciderò in seguito».
Punto, a capo e lettera maiuscola, ça va sans dire.
Seguire ed eseguire in maniera corretta quanto udito era affidato alle pause, alle inflessioni della voce, agli sguardi del docente. E all'attenzione del singolo pargolo; copiare dal vicino ed ascoltare era impegno duplice, difficilmente attuabile. La difficoltà consisteva nell'interpretazione della voce e delle pause, con il pronto riporto sul quaderno. Sovente, per guadagnare tempo, si chiedeva la rilettura di una parola o di una frase, non per affezioni di ipoacusia infantile ma per avere il tempo di mettere a fuoco i respiri e le cadenze vocali dell'insegnate. Le cui tossi invernali, o da fumo, erano ostacolo, o benedizione, ulteriore a una comprensione temporale più ampia..

Dopo il punto, "a capo" non era tassativo; seguiva il senso di lettura di un testo quando questo prevedeva una sequenza collegata. Quando cambiava argomento o lo approfondiva, il ricorso al capoverso successivo era necessario.
La lettera maiuscola: dopo il punto, si andasse a capo o meno, era legge.
La punteggiatura è l'anima, il respiro, di ogni testo che voglia ritenersi degno di essere letto: una punteggiatura sbagliata, o addirittura sballata, rovina quello che sarebbe stato, raramente, un quasi capolavoro.
Quello che da un po' di tempo e parecchie letture mi arriva regolarmente come un pugno nello stomaco è la sistemazione di questo benedetto "punto", nei libri e in molti articoli di riviste e quotidiani, quel piccolissimo insetto grafico che divide le espressioni o i paragrafi.
È ovvio che si tratta di una fesseria, se non lo fosse non l'avrei definita pignoleria, soprattutto se vista alla luce delle mill'ant'altre che girano per il mondo. Ma ho premesso che, soprattutto nel leggere, sono pignolo. E non moderatamente...
Riprendo un attimo il dettato dell'infanzia, seguendone il respiro grafico fino ala fine del periodo:
Lo aveva guardato e, con freddezza, gli aveva detto: «Lei faccia quello che vuole, io deciderò in seguito». 
E vado tranquillamente a capo, con lettera giustamente maiuscola.
Modifico la sistemazione del punto: 
Lo aveva guardato e, con freddezza, gli aveva detto: «Lei faccia quello che vuole, io deciderò in seguito.»
cosa cambia?
Posso accettare di andare a capo, visto che tutto si può fare, ma intanto la maiuscola è interdetta; inoltre l'assenza del punto di chiusura della parte precedente mi vieta un regolare cambio dell'argomento prima trattato. La mancanza del punto, così posizionato, fa presumere che il dialogo sia ancora aperto, solo sospeso dal punto, ma prossimo alla ripresa.
Al suo interno, all'interno delle virgolette... Che lasciano aperta la possibilità di un prosieguo, con lettera maiuscola... Ma nulla indica che lì termina, dando la possibilità di andare a capo o, comunque, di passare ad altro.

Per la chiusa parentesi si tratta dello stesso discorso; cambia il simbolo grafico, ma la collocazione del punto apre o chiude qualsiasi discorso.
Anche qui ricorro a un esempio visivo:
Alzo gli occhi verso un cielo trapuntato di stelle (miliardi di diamanti incastonati in un firmamento infinito).
Potrei proseguire l'ammirazione stellare in prosecuzione diretta ovvero andare a capo, cambiando letteralmente discorso.
Ma se:
Alzo gli occhi verso un cielo trapuntato di stelle (miliardi di diamanti incastonati in un firmamento infinito.)
non c'è il punto che imponga la lettera maiuscola, l'ammirazione per quel cielo stellato potrebbe continuare, ma solo all'interno della parentesi, oppure dopo la parentesi stessa, ma con un punto direttivo, qui inutilmente vagante.

Un tempo, lontano per cambiare, l'editoria in generale nel suo staff prevedeva, affiancante i rami creativi e tecnici, un ufficio che ospitava persone pagate (in genere bene) per essere pignole.
Nei quotidiani la loro attività era frenetica, essendo il giornale un prodotto che appena nato doveva essere consumato, cibo che il giorno successivo sarebbe scaduto; non che fosse da buttare, ma le notizie fresche dell'oggi il giorno dopo sarebbero risultate stantie, già vecchie pur se neonate.
Nei periodici, settimanali o mensili, c'era più tempo per pignoleggiare nella lettura; da una settimana all'altra, o da un mese all'altro, le notizie avevano tempo a diventare adolescenti, e le attenzioni alla loro crescita erano superiori.
Per i libri, qualunque fosse il loro genere, la lettura era molto più accurata: si trattava di un prodotto destinato a passare, almeno nelle intenzioni, alla storia editoriale.
Ebbene, questi "correttori" prendevano il posto delle insegnanti vecchia maniera nel cercare gli errori, di testo o di punteggiatura, più che dei contenuti che erano affidati al buon gusto e alla scienza degli autori.
Erano gli eroici ricercatori della zampetta di formica smarrita in un prato; gli stessi cui magari sfuggiva l'elefante di un errore madornale, soprattutto in titoloni a più colonne. Erano definiti "refusi", e le più o meno benevole strigliate dei direttori restavano in sordina... purché il senso del titolo stesso non avesse perso sostanza. Altrimenti sarebbero state le Striscia o la concorrenza ad ampliarne il peso.

Prendendo in mano testi 'datati', vecchi ma non ancora antichi, questo benedetto punto me lo ritrovo piazzato come dio comanda e come vagamente richiesto da questo modesto testo.
Da un po' di tempo la sua collocazione è stata cambiata. O i correttori sono stati, tutti, soppressi...
Sono certo che questo cambiamento ha una motivazione plausibile; sono certo che chi ne ha decretato il cambio della modalità d'uso sia un genio...
Sicuramente, almeno dal mio punto di vista, incompreso.
E mi piacerebbe sapere e capire su quali criteri si è basato, per divulgare e fare accettare questa variazione.
A livello universale.
Sto leggendo libri a cascata, e ormai mi sono rassegnato, ho piazzato una placca metallica allo stomaco e a ogni punto incriminato incasso il cazzotto, passando oltre.
Comincio a pensare che si tratti di un complotto: qualche potere occulto ha dichiarato guerra a 'sto poveretto, il punto, nel tentativo di eliminarlo del tutto dai testi, lasciando l'onere di una punteggiatura virtuale al lettore. Vorrei vedere la reazione dei mezzi tecnologici, quelli che non consentono la dimenticanza del puntino sulla "i", a questo ennesimo depauperamento del piacere della lettura.
È chiaro che quanto qui scritto farà un baffo al mondo intero, ma l'ho fatto per tramandare ai posteri, in un domani che sarà ormai un passato remoto, la mia, pur vana e inutile, contrarietà a quanto puntualizzato. Non ci saranno riscontri e neppure chiarimenti in merito a un semplice 'punto', sminuito nelle sue caratteristiche impositive in una grafia che ritengo sarebbe corretta.
Punto e a capo.