domenica 5 luglio 2020

Punto e a capo

Una vecchia barzelletta racconta di un tizio, fermo alla fermata in attesa dell'arrivo del bus. Che, come sempre, tarda a passare. Ma il tizio non ci fa più caso, è ormai abituato, sa che il giorno che quel mezzo fosse in orario sarebbe prossima la fine del mondo. Aspetta, sereno e rassegnato.
Gli si era affiancata una persona, sconosciuta, si erano scambiati un breve sguardo, neanche un cenno di saluto (una moda di un lontano passato, obsoleta, ancora viva nei paesi del Sud che, a un nuovo arrivato, allo straniero, danno un buongiorno o un buonasera o un salve, che lasciano sempre un'ombra di dubbio iniziale: mi conosce, la conosco?...), anche costui non sembra agitarsi più di tanto per il ritardo. Una persona come tante...
All'improvviso, il neo attendente il bus, senza alcun preavviso, quasi senza guardarlo, gli scaraventa in faccia un din-don che levati, uno schiaffone andata-ritorno, che lascia di sasso il poveretto che li subisce.
"Ma lei è pazzo!", riesce a malapena a balbettare.
"Sì... e allora?", risponde l'altro, imperturbato, indifferente allo stupore del malmenato.
Fine della (specie di) barzelletta.

Che porta a pensare che qualunque psicologo, non necessariamente uno psichiatra, sa che nessun vero pazzo si dichiarerebbe tale.
Molto dopo questa barzelletta, le coltellate e le pistolettate hanno preso il posto dei ceffoni, riservati solo a risse da bar o da stadio; e anche colà l'uso dei pugni va scemando a favore di mezzi più pesanti e cruenti. Di fronte all'evidenza di quelli che ormai sono definibili crimini a ciel sereno, il gioco degli avvocati difensori punta invariabilmente sulla carta dell'infermità (o, in subordine, della seminfermità) mentale dei propri assistiti, con l'intento di ottenere consistenti sconti di pena. Gli imputati mai accetterebbero di dichiararsi mentalmente limitati, a riprova di quanto detto prima. Di volta in volta dichiarano di avere ricevuto messaggi da un alieno, da un santo, da una madonna, da un cristo, da un allah o da un maometto... che li avrebbero portati a gesti criminosi che altrimenti mai avrebbero commesso. E tanto basta agli azzeccagarbugli per dimostrare una discreta deficienza mentale, ottenendone i benefici che la legge concede.
Quel filone, basato sulla non punibilità di chi non è in grado di intendere e volere, si è poi allargato, includendo in quel novero anche chi, beccato a guidare un mezzo in stato di ubriachezza o reso ciuco dall'assunzione di droghe, accampa il diritto a sconti consistenti di pena; talvolta anche in presenza di vittime. In effetti, negare che quel colpevole al momento del reato fosse consapevole di quello che faceva, è abbastanza arduo, perfino a rigor di logica.
Così capita che il furto di una mela per fame non preveda attenuanti, la fame non essendo prevista nei codici che, salvo rarissimi casi di giudici illuminati, portano sovente a condanne che all'occhio innocente appaiono spropositate. Chi commette un delitto (che più grave è, meglio è), trova tutte le scappatoie per evitare, o ridurre notevolmente, la pena inflitta.
Caso a sé i delitti di mafia o gli atti di terrorismo: a responsabili di atti criminosi, una volta esaurito ogni tentativo di professata innocenza, basta "pentirsi" e un prete li assolverà in vista dell'al di là, mentre la giustizia terrena, oltre a ridurre o cancellare la pena, offrirà loro protezione e benefici; nel mentre i talk show se li contenderanno a suon di quattrini, trincerati dietro la "ricerca della verità vera" o, quantomeno, della libera informazione.
Sovente i legali la spuntano, con declamata, bene sbandierata, soddisfazione: una stella in più per la loro carriera e per i propri onorari.
Soddisfazione assolutamente assente nelle persone offese o nei loro congiunti, ma, si sa, le leggi sono fatte per chi riesce a leggerle e applicarle pro domo sua.

Quanto sopra come premessa per dichiarare apertamente che soffro di pignoleria; quella pignoleria che consente di vedere che una formichina ha perso, porella, una zampetta, ma non distingue un elefante che pesta un piede. Per recepire che si tratta di un bestione, devo allontanarmi da lui, andando più lontano a massaggiarmi quello che resta del mio piede.
Mi aggancio alla pseudo barzelletta: "Sono pignolo... e allora?".
Cielo, non si tratta della tipica pignoleria figurata dalla ricerca del puntino sulle "i", la cui dimenticanza, tra l'altro, è resa impossibile dalle nuove tecnologie che affidano alle macchine il compito di piazzarlo al punto giusto; errore che poteva sfuggire nella scrittura manuale, ormai obsoleta.
Qui non voglio scrivere un peana alla pignoleria in generale, che so essere quanto meno figliastra di quella follia così ben presentata nel famoso Elogio. Ma, come quella, è diffusa e, come quella, è misconosciuta; mentre la follia dà da vivere a uno stuolo di psicanalisti, la pignoleria passa quasi sempre inosservata, sopportata come fosse un tic innocuo. Come, nello specifico della lettura, è.
Comunque, sempre di un "punto" vado a parlare; meglio, della sua sistemazione nei testi, quello che ha dato il titolo si questo scritto.

Parto da lontano.
Un tempo, nelle prime classi, quelle elementari ai loro primi inizi per intenderci, le materie insegnate erano limitate a far capire ai ragazzi l'utilità del saper leggere e scrivere, del saper fare due conti in croce,,, cielo, c'era anche l'educazione civica che indirizzava a comportamenti di vita, verso gli altri prima che verso se stessi. Quella fisica, volgarmente detta ginnastica, era affidata alle strade, alle corse nei campi, alle arrampicate sugli alberi, quelli da frutto ovviamente, ai campetti (di lusso quelli degli oratori), nei quali calciare un pallone fatto di stracci era attività fisica più gradita delle flessioni e piegamenti imposti dall'insegnamento canonico della materia; che, tra l'altro, costringeva alla disciplina, all'inquadramento, al rispetto di distanze preordinate in ossequio a comandi feroci.
L'educazione civica è stata soppressa e ogni giorno ne vediamo i risultati. Quella fisica si svolge ormai in palestre supper attrezzate e altrettanto super costose; fanno girare l'economia, senza dare frutti diversi da quelli che davano le nostre sgambate nei cortili.
L'insegnamento dell'italiano, quello che avrebbe avuto come fine ultimo la lettura e, concomitante, la scrittura, era reso difficile soprattutto per la consolidata abitudine ai vari dialetti, succhiati dalle mammelle materne e dalle imprecazioni di padri già allora calati nel malcontento generale per come girava il mondo; mai nel senso giusto, mai che qualcosa andasse bene... e ancora il peggio aveva da venire.
Dell'italiano, che accorpava geografia e storia, la parte iniziale più ostica era il "dettato".
Non so se sia ancora in uso e, se lo è, in quali termini. I bambini ormai nascono "imparati", i ragazzi fanno scuola a quelli che un tempo lontano erano i "grandi", nel frattempo diventati vecchi, quasi rimbambiti da un mondo che corre troppo velocemente a confronto della lentezza, della puntigliosità, dei tempi andati. Dove la ripetitività era l'unico modo conosciuto di insegnare e di apprendere.
Quella monotonia però aveva il pregio di inculcare indelebilmente in menti vergini concetti e costrutti che per affermarsi necessitavano di un martellamento impossibile da dimenticare.
Valeva per le poesie, valeva per le tabelline aritmetiche, valeva per la storia del passato, valeva per le posizioni geografiche... chi ha vissuto in quei tempi, non ha difficoltà a ricordare, pur in un limitato universo di apprensione, quanto gli fu inculcato (talvolta a forza) in mente.

Il "dettato" era il primo approccio a un mondo che, con la conoscenza della lingua parlata poi letta e poi scritta, apriva all'infinito, quello dato dalla lettura, che sarebbe stata, a buon diritto, madre di tutto il resto.
Lo svolgimento iniziale era abbastanza semplice; detto a posteriori, ovviamente...
Il primo assaggio, superati i primi ostacoli della identificazione di vocali e consonanti, consisteva nel riportare su un quaderno quanto l'insegnante leggeva, sulla falsariga di:
Lo aveva guardato e virgola con freddezza virgola gli aveva detto due punti aperte virgolette lettera maiuscola lei faccia quello che vuole virgola io deciderò in seguito chiuse virgolette punto virgola a capo e lettera maiuscola (punto di chiusa ovviamente qui sottinteso)
Presa la mano, bastava scrivere sistemando le punteggiature dove richiesto andassero; per sbagliare qualcosa nella stesura di quanto ascoltato bisognava essere proprio gnocchi.
E, a dire il vero, lo eravamo un po' tutti...
In seguito, appreso con molta più fatica tutto il macinato, si passava alla lettura di testi, eliminando la punteggiatura "a voce"; per cui lo stesso testo veniva affidato così:
Lo aveva guardato e, con freddezza, gli aveva detto: «Lei faccia quello che vuole, io deciderò in seguito».
Punto, a capo e lettera maiuscola, ça va sans dire.
Seguire ed eseguire in maniera corretta quanto udito era affidato alle pause, alle inflessioni della voce, agli sguardi del docente. E all'attenzione del singolo pargolo; copiare dal vicino ed ascoltare era impegno duplice, difficilmente attuabile. La difficoltà consisteva nell'interpretazione della voce e delle pause, con il pronto riporto sul quaderno. Sovente, per guadagnare tempo, si chiedeva la rilettura di una parola o di una frase, non per affezioni di ipoacusia infantile ma per avere il tempo di mettere a fuoco i respiri e le cadenze vocali dell'insegnate. Le cui tossi invernali, o da fumo, erano ostacolo, o benedizione, ulteriore a una comprensione temporale più ampia..

Dopo il punto, "a capo" non era tassativo; seguiva il senso di lettura di un testo quando questo prevedeva una sequenza collegata. Quando cambiava argomento o lo approfondiva, il ricorso al capoverso successivo era necessario.
La lettera maiuscola: dopo il punto, si andasse a capo o meno, era legge.
La punteggiatura è l'anima, il respiro, di ogni testo che voglia ritenersi degno di essere letto: una punteggiatura sbagliata, o addirittura sballata, rovina quello che sarebbe stato, raramente, un quasi capolavoro.
Quello che da un po' di tempo e parecchie letture mi arriva regolarmente come un pugno nello stomaco è la sistemazione di questo benedetto "punto", nei libri e in molti articoli di riviste e quotidiani, quel piccolissimo insetto grafico che divide le espressioni o i paragrafi.
È ovvio che si tratta di una fesseria, se non lo fosse non l'avrei definita pignoleria, soprattutto se vista alla luce delle mill'ant'altre che girano per il mondo. Ma ho premesso che, soprattutto nel leggere, sono pignolo. E non moderatamente...
Riprendo un attimo il dettato dell'infanzia, seguendone il respiro grafico fino ala fine del periodo:
Lo aveva guardato e, con freddezza, gli aveva detto: «Lei faccia quello che vuole, io deciderò in seguito». 
E vado tranquillamente a capo, con lettera giustamente maiuscola.
Modifico la sistemazione del punto: 
Lo aveva guardato e, con freddezza, gli aveva detto: «Lei faccia quello che vuole, io deciderò in seguito.»
cosa cambia?
Posso accettare di andare a capo, visto che tutto si può fare, ma intanto la maiuscola è interdetta; inoltre l'assenza del punto di chiusura della parte precedente mi vieta un regolare cambio dell'argomento prima trattato. La mancanza del punto, così posizionato, fa presumere che il dialogo sia ancora aperto, solo sospeso dal punto, ma prossimo alla ripresa.
Al suo interno, all'interno delle virgolette... Che lasciano aperta la possibilità di un prosieguo, con lettera maiuscola... Ma nulla indica che lì termina, dando la possibilità di andare a capo o, comunque, di passare ad altro.

Per la chiusa parentesi si tratta dello stesso discorso; cambia il simbolo grafico, ma la collocazione del punto apre o chiude qualsiasi discorso.
Anche qui ricorro a un esempio visivo:
Alzo gli occhi verso un cielo trapuntato di stelle (miliardi di diamanti incastonati in un firmamento infinito).
Potrei proseguire l'ammirazione stellare in prosecuzione diretta ovvero andare a capo, cambiando letteralmente discorso.
Ma se:
Alzo gli occhi verso un cielo trapuntato di stelle (miliardi di diamanti incastonati in un firmamento infinito.)
non c'è il punto che imponga la lettera maiuscola, l'ammirazione per quel cielo stellato potrebbe continuare, ma solo all'interno della parentesi, oppure dopo la parentesi stessa, ma con un punto direttivo, qui inutilmente vagante.

Un tempo, lontano per cambiare, l'editoria in generale nel suo staff prevedeva, affiancante i rami creativi e tecnici, un ufficio che ospitava persone pagate (in genere bene) per essere pignole.
Nei quotidiani la loro attività era frenetica, essendo il giornale un prodotto che appena nato doveva essere consumato, cibo che il giorno successivo sarebbe scaduto; non che fosse da buttare, ma le notizie fresche dell'oggi il giorno dopo sarebbero risultate stantie, già vecchie pur se neonate.
Nei periodici, settimanali o mensili, c'era più tempo per pignoleggiare nella lettura; da una settimana all'altra, o da un mese all'altro, le notizie avevano tempo a diventare adolescenti, e le attenzioni alla loro crescita erano superiori.
Per i libri, qualunque fosse il loro genere, la lettura era molto più accurata: si trattava di un prodotto destinato a passare, almeno nelle intenzioni, alla storia editoriale.
Ebbene, questi "correttori" prendevano il posto delle insegnanti vecchia maniera nel cercare gli errori, di testo o di punteggiatura, più che dei contenuti che erano affidati al buon gusto e alla scienza degli autori.
Erano gli eroici ricercatori della zampetta di formica smarrita in un prato; gli stessi cui magari sfuggiva l'elefante di un errore madornale, soprattutto in titoloni a più colonne. Erano definiti "refusi", e le più o meno benevole strigliate dei direttori restavano in sordina... purché il senso del titolo stesso non avesse perso sostanza. Altrimenti sarebbero state le Striscia o la concorrenza ad ampliarne il peso.

Prendendo in mano testi 'datati', vecchi ma non ancora antichi, questo benedetto punto me lo ritrovo piazzato come dio comanda e come vagamente richiesto da questo modesto testo.
Da un po' di tempo la sua collocazione è stata cambiata. O i correttori sono stati, tutti, soppressi...
Sono certo che questo cambiamento ha una motivazione plausibile; sono certo che chi ne ha decretato il cambio della modalità d'uso sia un genio...
Sicuramente, almeno dal mio punto di vista, incompreso.
E mi piacerebbe sapere e capire su quali criteri si è basato, per divulgare e fare accettare questa variazione.
A livello universale.
Sto leggendo libri a cascata, e ormai mi sono rassegnato, ho piazzato una placca metallica allo stomaco e a ogni punto incriminato incasso il cazzotto, passando oltre.
Comincio a pensare che si tratti di un complotto: qualche potere occulto ha dichiarato guerra a 'sto poveretto, il punto, nel tentativo di eliminarlo del tutto dai testi, lasciando l'onere di una punteggiatura virtuale al lettore. Vorrei vedere la reazione dei mezzi tecnologici, quelli che non consentono la dimenticanza del puntino sulla "i", a questo ennesimo depauperamento del piacere della lettura.
È chiaro che quanto qui scritto farà un baffo al mondo intero, ma l'ho fatto per tramandare ai posteri, in un domani che sarà ormai un passato remoto, la mia, pur vana e inutile, contrarietà a quanto puntualizzato. Non ci saranno riscontri e neppure chiarimenti in merito a un semplice 'punto', sminuito nelle sue caratteristiche impositive in una grafia che ritengo sarebbe corretta.
Punto e a capo.

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