"Giuè", di Antonella Perrotta
Se il titolo di questo romanzo fosse stato, per dire, "Giosuè", manco lo avrei iniziato a leggere.
Del Giosuè biblico so quel poco che basta per non passare da ignorante (in senso lato, ignorante del soggetto): erede di Mosè, al contrario del suo mentore che per passare alla storia ne aveva combinate di cotte e di crude, costui è ricordato per aver fermato il sole nel suo calare quotidiano, fatto che gli avrebbe consentito di terminare la strage dei suoi nemici del momento. Pare che Giosuè in ebraico significhi "Dio salva", e sicuramente da Lui fu salvato, addirittura andando oltre, visto che questo Giosuè è ricordato più per l'eliminazione fisica dei nemici (di Dio, ovviamente) che per altre opere più meritorie. Sono passati migliaia di anni, ma il concetto delle stragi in nome di Dio, nel corso dei secoli e tutt'oggi, non è cambiato. Non per niente, questo Giosuè risulta essere Santo per l'altrettanto Santa Romana Chiesa.
L'altro Giosuè non poteva che essere Carducci, nostro sommo poeta, senatore del Regno, primo nostro premio Nobel per la letteratura, ogni pur piccolo centro ha almeno un'aiuola a lui dedicata. Penso a lui ogni volta che vado per cimiteri, i suoi cipressi mi hanno fatto prendere tanti di quei ceffoni nel tentativo di ficcarli in una testa che posava su un corpo minuscolo, tanto che mai e poi mai avrei potuto vedere di buon occhio quei giganti alti e schietti che, in duplice filar, mi ricordano più i carabinieri che arbusti troppo cresciuti.
Giuè, un titolo a modo suo strano, ma di una stranità che incuriosisce, che richiama l'attenzione, la voglia di sapere, di trovarne le origini, di leggerne la storia. A lettura ultimata, una di quelle storie che lasciano l'amaro in bocca: cruda, asciutta, una storia che sembra più fredda cronaca giornalistica che romanzo passatempo. Una di quelle storie che mai-'na-gioia...
Il racconto si sviluppa intorno al 1920, in un periodo temporale prodromo di quanto sarebbe avvenuto poco dopo con l'avvento del fascismo; di cui, senza un richiamo espresso, già anticipa metodi e usi divenuti poi costume per un lungo periodo di tempo.
Tutta l'azione si svolge nei dintorni di Paola, già all'epoca piccolo centro di richiamo di un comprensorio formato da paesi della costa tirrenica calabrese, ricchi di storia, di storie e di chiese.
Giosuè, detto Giuè dai pochi amici e da tutti gli altri, è un agricoltore, analfabeta come la più parte dei suoi concittadini; al contrario di molti di questi ha sani principi di giustizia, di rispetto, che deve necessariamente essere reciproco altrimenti diventa sudditanza; religiosi non proprio, visto che si limita al saluto al prete quando casualmente lo incontra, senza peraltro recarsi a casa sua, in chiesa, a fargli baciamano ossequiosi.
Non ama la politica, ancora meno i politici. In un periodo di contrapposizione tra due schieramenti che, dietro ideologie apparentemente contrastanti, si contendono il potere, spartendo le spoglie e, quando possibile, gli averi degli avversari tra i vari capetti che riuscivano ad emergere dalla calma piatta del popolame, non aveva aderito a nessuno dei due.
Questo suo estraniarsi da due gruppi in lotta, anzichè renderlo tetragono ai due contendenti lo aveva coinvolto in una specie di faida politica che non arretrava di fronte alle violenze. Nel corso del racconto, da apolide politico Giuè era stato, a sua insaputa, cooptato in entrambi gli schieramenti, arruolato tacito laddove lui da sempre si era discostato.
Le manifestazioni di piazza, oggi contro questo domani contro quello, non erano pacifiche come quelle odierne, in cui il rispetto delle idee altrui è talmente appariscente da far ritenere conniventi le ideologie contrapposte. Oggi a nessuno verrebbe in mente di contrastare una manifestazione con una contromanifestazione, magari negli stessi giorni, con gli stessi orari e sulla stessa piazza o pubblica via. O invece sì?
All'epoca ogni manifestazione colorata di politico diventava crogiuolo di risse, di rese dei conti, di furori a lungo repressi. Le botte, quelle dette da orbi poiché date alla cieca, dove "chi piglio piglio" cercando di salvare la propria schiena e la propria capa da improvvide sprangate, rientravano nella preventivazione degli eventi.
Fino a una di queste manifestazioni il racconto scorre in modo simile al vivere quotidiano degli altri paesi della costa, con picche e ripicche prontamente ricambiate, chiacchiere libere e sussurri appena mormorati, in un italiano impreziosito da termini in calabrese, meglio paolano, che non necessitano di traduzione poiché calati nei dialoghi, nel testo o nei pensieri in modo da consentire una continuità scorrevole agli stessi, dando un'aria quasi bucolica a tutta la storia.
La baraonda aveva avuto inizio il 1° Maggio, quando nella tradizionale manifestazione alcuni esponenti del partito socialista avevano lanciato parole di fuoco verso gli adepti del partito popolare. Parole che non erano state prese da questi come verba volant ma come sassi lanciati in uno stagno, in un clima che stagnante già non era. La risposta a queste offese, in un tira e molla di valutazioni, era stata ritenuta degna di opportuna risposta. Una contromanifestazione avrebbe pareggiato i conti. Nel racconto, questa avrebbe dovuto essere mascherata sotto forma di saluto dal proprio balcone da parte dell'onorevole locale ai suoi elettori popolari.
In un paese di media grandezza non sono necessari manifesti per sapere, e far sapere, quello che succede. Così, in un vortice di rapidi passaparola, la parte socialista si era preparata ad affrontare i popolari in quella che riteneva essere un'offesa gratuita alla Festività del Lavoro, ritenuta di loro esclusiva competenza.
Scontri, insulti, botte... alla fine ci era scappato il morto.
Su chi fosse il poveraccio morto ammazzato, il romanzo non fa mistero: era un socialista. Su chi lo avesse ammazzato, in mezzo a quel volare di bastoni e spranghe metalliche, che non avevano più un distinguibile colore politico, non poteva calare il silenzio. Tra accuse reciproche, insinuazioni, testimonianze reticenti o inattendibili, l'unica soluzione emersa era la necessità assoluta di trovare qualcuno cui addossare la responsabilità del delitto.
Lupo e agnello non possono convivere, a meno che un san Francesco (non quello di Paola, l'altro, più universale) non riesca a farli posare insieme per la foto ricordo passata alla storia. Solo che quelle erano bestie, animali rispettosi della loro indole e rispettosi del Santo in quella rara occasione.
I lupi e gli agnelli di questa storia erano esseri umani, pronti a sbranarsi a vicenda ad ogni minima occasione. E questa sarebbe stata un'ottima occasione per farla finita, per cancellare dal paese la parte responsabile dell'assassinio.
A sapere chi fosse e a quale gruppo appartenesse...
I vertici delle due fazioni, non riuscendo a venirne a capo, raffreddate le minacce di ritorsione immediata, erano arrivati alla conclusione che, per chiudere il caso, bisognava trovare qualcuno cui addossare la responsabilità del delitto. Tra lupi e agnelli bisognava, in pratica, trovare un capretto espiatorio, che un bravo giudice avrebbe condannato mettendo una pietra tombale sul fattaccio.
La parte conclusiva del romanzo, dedicata a tutto il percorso, investigativo prima e giudiziario poi, denota la frequenza dell'Autrice in questo ambito, da cui ha attinto basandosi su esperienze sul campo adattate all'epoca. Un romanzo che è cartina di tornasole a una giustizia che guarda con occhio benevolo alle convenienze del momento, emettendo sentenze che accontentino più richiedenti possibile, in modo che la bilancia (aggeggio tipico a indicare, appunto, la giustizia) risulti per quanto possibile in pareggio, senza pendere verso l'una o l'altra parte.
È quando l'ingiustizia palese viene ammannita al popolo come unica, vera, giustizia giusta.
La parte apparentemente finale di questo romanzo, come detto, lascia l'amaro in bocca, sarebbe un falso ideologico negarlo. Questo era all'epoca e questo è ancora oggi.
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Ogni lettura che si rispetti, sia un romanzo o un articolo, deve per forza suscitare una reazione, che talvolta si discosta dal testo appena concluso. Non che se ne dissoci, anzi diventa un seguito obbligato, poiché induce a ragionamenti sequenziali a quanto letto. Solo la lettura degli elenchi telefonici era fine a sé stessa e non aveva motivo di suscitare reazioni; tant'è che lo stabilimento che li produceva ha dovuto chiudere per fallimento.
Ho definito il finale come "apparente", poiché a seguire c'è un finale-finale che mi ha colpito per la sua attualità: la revisione dei processi.
Da un po' di tempo in qua pare sia divenuto di moda riesumare antiche sentenze, passate in giudicato dai supremi organi della Giustizia. Sono fatti a conoscenza di tutti, sarebbe pleonastico citare i casi tuttora in esame.
Trovo strano che a distanza talvolta di decenni, processi che al loro tempo avevano suscitato clamori e attenzioni, in alcuni casi apertamente morbose, dopo lunghi periodi di indagini presumibilmente approfondite, sentenze di valutazione da parte di tutti i gradi di giudizio, improvvisamente siano riportati alla luce, letteralmente riesumati, in presenza di nuove prove, di nuove testimonianze, di nuove perizie...
Può essere, per carità... ma quello che è irritante è la spettacolarizzazione assurda di queste richieste di revisione: questi fatti, prettamemte investigativi e giudiziari, sono ormai considerati alla pari dei Grandi Fratelli, delle Isole dei Famosi e di quanti altri spettacoli che trovano posto in dettagliate cronache televisive e persino su quotidiani un tempo definiti 'seri'.
Non può essere accettabile che buona parte dei telegiornali di tutte le reti riempiano i palinsesti offrendo la visione del procedere delle nuove indagini: e sono i legali che le commentano, e sono i periti che le illustrano, e sono i giornalisti che ne raccontano ogni starnuto...
Davvero sarebbe così assurdo che le eventuali nuove indagini, le eventuali nuove prove, gli eventuali nuovi testimoni venissero ascoltati in separata sede (in camera caritatis, si diceva una volta) fino alla conclusione delle indagini? Il tanto decantato segreto istruttorio che fine ha fatto? Perché il suggerimento tipico dei legali ai loro clienti, non necessariamente imputati ("si avvalga della facoltà di non rispondere") non viene applicato a sé stessi?
Davvero la scoperta di una macchiolina sul soffitto, ignorata, per dire, diciotto anni prima, deve essere concessa in visione prima ancora di essere catalogata? E la scoperta che quella macchiolina è (era) il cadavere di una zanzara uccisa barbaramente da una pantofola, e che quell'ex corpicino "potrebbe" contenere un nanogrammo di sangue che, con l'esame del DNA, "potrebbe" essere conferma della presenza di uno dei sospettati nella stanza, ecc. ecc., deve forzatamente essere sparato ai quattro venti prima dell'esame da parte degli inquirenti?
Chi benevolmente mi legge sa che non ho più l'età e la condizione fisica per fare tantissime cose, ma la capacità di indignarmi è rimasta intatta come nei lontanissimi vent'anni. Alla luce dei fatti odierni appena citati, vedo Iustitia, la dea della Giustizia, posare bilancia e spada allontanandosi per non essere fatta a pezzi, per non vedere il suo potere giudiziario ridicolizzato, per non vedere indagini create ad hoc ad appagare un popolo di guardoni.
Per non vedere tutto questo, evita di togliersi la benda dagli occhi, da simbolo di imparzialità secolare divenuta bisogno urgente di cecità.
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