giovedì 30 gennaio 2020

Lettera aperta a TIM.it

Gentile signora Tim,

essendo stata abolita, circa ottant'anni fa, la forma comunicativa del Lei, e parendomi il tu troppo confidenziale, rispolvero il rispettoso quanto desueto Voi nell'inoltrarVi la missiva che segue.
Un "Voi" che è rispettoso omaggio verso il Vostro ente metafisico, ma che ha valore di un "voi" diretto al Vostro sterminato (letto come infinito, senza confini; mai che alcuno leggesse distrutto, annientato; che è pensiero anni luce lontano dal mio conscio; dal mio inconscio non più di mezzo metro) gruppo che è supporto indispensabile alle Vostre molteplici attività.
Ivi compreso il sottobosco che Voi ufficialmente disconoscete e ufficiosamente foraggiate.
Come Voi ben sapete, con l'abolizione del "lei" era stata vietata anche la stretta di mano, che fino ad allora, tra contraenti, aveva più valore di qualunque contratto; non per motivi igienici (Papa docet), ma perché il braccio doveva essere teso verso l'alto, in memoria dell'antico impero romano.
Nel seguito di questa lettera non vado a rimestare la stretta di mano, ma il valore (sic!) del Vostro contratto.

Chiedo venia per la pubblicazione di una corrispondenza che dovrebbe essere privata, ma non avendo avuto risposta alcuna alla miriade di domande posteVi attraverso i canali cosiddetti istituzionali, provo a scriverVi su quelli che, oggi e domani, vanno per la maggiore: i social, che probabilmente Voi leggete e commentate più volentieri che gli scritti e le parole dei Vostri diletti e preziosi clienti.
Nel Vostro caso specifico, l'ultra millenaria locuzione "verba volant, scripta manent" è completamente priva di ogni significato.
Infatti, per quanto riguarda i verba rivolti al Vostro figlio prediletto (che Voi proteggete e vantate con la sigla numerica 187, e a cui affidate la gestione di ogni problema, assicurandone la pronta precisa soluzione), sappiamo che vengono regolarmente registrati e quindi ogni chiamata sono verba che, tecnologicamente, diventano scripta, che un domani Voi potreste usare nel caso ai tapini chiamanti sfuggisse qualche parola non rispondente ad un rispettoso ossequio.
Bene, sia i verba registrati, quando rispettosi e umilmente fantozziani, che gli scripta, anch'essi con le stesse caratteristiche, per Voi non sono carta straccia, termine troppo abusato: per Voi sono carta igienica che, come ben sapete, è termine d'uso più comune, senza per questo essere abusato; la caratteristica di quest'ultima è di essere usa-e-getta, senza neanche la possibilità di riciclo.
In tutte le mie comunicazioni, sia verbali che scritte, ho sempre mantenuto un profilo che (purtroppo) mi è dote, pur se ormai morto e sepolto, e persino disprezzato: quello dell'educazione. Vi preciso che l'ho applicato per rispetto a chi, dall'altro capo del filo o al tavolo di lavoro o al computer, sta lì per lavorare, sta lì per campare. E che, sicuramente, non è pagato a sufficienza per sopportare insulti a difesa di un ente fantasma, quale Voi siete.
Vi scrivo a titolo strettamente personale, sono certo che per qualche milione di Vostri fan queste righe appariranno come elucubrazioni di uno squilibrato.
Nel caso mio, le propongo, queste squinternazioni, proprio per il fatto che alle centinaia di telefonate, alle lettere via fax, a quelle via PEC, ai tentativi via e-mail, ai contatti con punti che si onorano di esporre l'insegna Tim, non riesco ad avere non dico una soluzione ai problemi esposti, ma neanche una risposta accettabile come tale.

Cara Signora, sono Vostro cliente dai primi anni '70, passando attraverso tutte le Vostre metamorfosi, non comprensibili ai comuni mortali, virtualmente camaleontiche, fino a quest'ultima.
Ho cambiato numero una prima volta, a causa di uno spostamento lavorativo che mi ha portato a 1200 km di distanza dal luogo di lavoro e residenza; all'epoca non era possibile portarsi appresso il numero acquisito, e per averne uno nuovo nel domicilio prescelto ho atteso pazientemente un paio d'anni. L'apparecchio 'banana' datomi in comodato col primo contratto lo avevo restituito, onde evitare addebiti che probabilmente mi avrebbero perseguitato fino alla fine dei miei giorni; pensiero già allora angosciante, senza immaginare lontanamente cosa avrei dovuto affrontare in seguito.
Oggi, appunto.
Da allora, gentile Signora, potreste scavare, nel lungo periodo e nei Vostri archivi, senza trovare un solo giorno di ritardo nel pagamento delle fatture, o bollette che dir si voglia. Se lo stuolo dei Vostri studi legali (questi presumo lautamente retribuiti) dovesse campare risolvendo diatribe con me, sarebbero tante braccia strappate all'agricoltura.
Se mai trovassero qualcosa di non quadrato, mi impegno a dichiarare ufficialmente che questo post è stato solo un esercizio di scrittura, e amici come prima.
Non esageriamo: amici mai, forse meno nemici. Ma questo pericolo non esiste...

Dopo questa breve premessa, passo al dunque precipuo di questa missiva.

Ai primi di luglio dello scorso anno mi ero fatto abbindolare da una proposta allettante proveniente da un'agenzia che si era qualificata, ribadendolo a più riprese, come Tim.
Era stata una proposta che, a fronte di vantaggi quasi stratosferici, prevedeva il cambio del numero e della variazione del nome utente.
Sarebbe stato il secondo cambio di numero in mezzo secolo...
Pur trovando strana l'offerta, e ritenendo (stupidamente, lo ammetto) che Tim fosse una garanzia, quasi alla pari con il famoso salume della stella, avevo accettato.
Me meschino, me sciagurato...

Dopo la nottata ristoratrice, il giorno dopo avevo chiamato la Vostra colonna portante 187 per avere lumi su quanto avvenuto il giorno precedente.
Intanto mi ero beccato dalla gentilissima operatrice un poco metaforico "deficiente" per avere aderito all'offerta di una fantomatica Tim. Offerta che solo un minus habens avrebbe accettato. Infatti...
A margine: il vecchio numero era stato già cassato e il nuovo era in lavorazione; impossibile il ripensamento, a meno di disdettare la linea e richiedere un nuovo contratto, con le relative spese. Impossibile, altresì, sapere gli sviluppi contabili della vicenda, per entrambi i numeri, quello defunto e quello neonato.
In seguito, nelle ormai quotidiane richieste di chiarimenti, avevo appreso che della proposta ricevuta dall'agenzia fasulla non era rimasto neanche un capoverso; non solo, a ogni chiamata il canone previsto per il nuovo numero era altalenante, tendente al rialzo; le spese di cessazione e di attivazione, datemi per inesistenti, sarebbero state addebitate... invito ad attendere le fatture per sapere gli importi precisi.

Cosa fatta, capo ha, dicono al polo Sud, per cui mi ero messo l'animo in pace, per modo di dire, accettando le pene (pecuniarie) che mi sarebbero state irrogate.
Così, fino a tutto settembre sono arrivati addebiti a pioggia, sia su un numero che sull'altro.
Verso fine settembre era arrivato il contratto per il nuovo numero, lo scipta che avrebbe dovuto mettere la parola fine a una parte della vicenda.
Incredibilmente, il canone stampato corrispondeva a quello proposto dalla fantomatica agenzia Tim.
Beh, qualcosa avevo ottenuto, mi ero sentito un pelino meno deficiente, la mia autodisistima aveva ricevuto una iniezione corroborante.
Avevo iniziato una pratica legale, detta (non so perché) di conciliazione. Con il ricevimento del contratto, che rispondeva alle mie aspettative, l'avevo bloccata, convinto (ahimè!) che quello stampato fosse la cassazione della vicenda.

Era troppo bello per essere vero...
Infatti siamo a fine gennaio 2020 e dal mese di attivazione in poi è stato applicato il canone previsto nel contratto, maggiorato del 50%.
Per dirla in soldoni, in un contratto stampato che prevede un ipotetico 120 € in un anno, con questo andazzo ne pagherò 180. Il che fa apparire la famigerata operazione "28 giorni" una barzelletta. Con la differenza che quella era stata concordata con tutti gli altri gestori (tutti bella gente!), mentre questo è un f̶u̶r̶t̶o̶ prelievo ad personam che non ha l'attenuante del "così fan tutti" d'infelice memoria.
Inoltre, nello stesso contratto, era prevista un'opzione per avere 200 mega (pleonastico spiegare a Voi cosa sono, anche perché a me non è affatto chiaro di cosa si tratti; dovrebbe essere qualcosa che riguarda la potenza e la velocità dell'adsl, ma di più non so), di cui non ho necessità, e che prevedeva, tra l'altro, il cambio del modem di ricezione (mai avvenuto), anziché i 100 mega in corso dall'arrivo in zona della fibra.
Non l'avevo richiesta ed era stata applicata d'ufficio. Segnalato il "disguido", l'addebito è cessato, con la pronta riduzione dei mega a 30.
In termini bellici, una palese ritorsione...
Telefonate ("apro la segnalazione"), fax, PEC, e-mail... nessun riscontro.
Questo per il nuovo numero.

Per il vecchio: ho solo visto cifre in uscita, rinunciando a soppesarle, in paziente rassegnata attesa che la pratica fosse definitivamente chiusa.
Risultava da saldare un addebito rateizzato per il modem (lo stesso rimasto sul nuovo numero, per la stessa linea) € 1,99 fino al raggiungimento delle 48 rate previste; restavano 19,04 € per chiudere la pratica.
Buon senso avrebbe detto di accorparle in un'unica soluzione e chiudere così la vicenda.
Buon senso, appunto... richiesta avanzata per telefono (un simbolico "ghe pensi mi...", la risposta), per fax verso Fiumicino, nella Pec riassuntiva spedita al relativo recapito Telecom (Vostra precedente sigla, ufficialmente abortita ma tuttora in uso).
Dal momento della cessazione Voi mi avete tempestivamente avvisato sulla emissione delle nuove fatture: prima con messaggio su cellulare, poco dopo via mail; Vi racconto l'iter, se casualmente non lo conosceste.

"Ti informiamo che è disponibile online la tua fattura mensile per la linea xxxxx", la mia vecchia linea; più sotto
VAI ALLA FATTURA
(per i social in bianco e nero, lettere bianche su sfondo blu cobalto)

Anche un incompetente, quale io sono, sa che per visualizzare un testo o un'immagine è necessario cliccare sulla finestrella. Che porta alla richiesta di digitazione del numero di cui si chiede la bolletta. 
Altro clic, altra nota:

"Il servizio al momento non è disponibile. Ti preghiamo di riprovare più tardi"
(sempre per i social in bianco e nero, colore rosso vivo)

Riprovato per giorni, senza alcun risultato. 
In cambio ho sempre ricevuto la bolletta in cartaceo per via postale, che ogni volta comporta un addebito di 65 centesimi di € per spese spedizione fattura.
Centesimi che, uniti ad altro importo più consistente, passano inosservati. Balzano all'attenzione quando vengono abbinati a una cifra ridicola, tipo 1,19 €, che è la rata mensile rateizzata del vecchio modem.
Dicembre, messaggio cellulare, avviso mail, riferito a novembre; cartaceo postale... more solito, che mi comunica che "Attenzione, non c'è nulla da pagare".
Wow, doppio, forse è finita.
Gennaio: fattura relativa a dicembre, € 5,52.
Lo so, irrisoria con questi chiari di luna...
L'accorpamento su tre mesi della rata c'è; in cambio, in questa bolletta vengono addebitate le spese spedizione fattura, una per mese, compreso quello non c'è nulla da pagare.
La cifra a saldo è di circa 19 €; come si accorpano tre mesi, è così fuori logica ritenere possibile un unico saldo, magari con unico addebito per spese postali?

Non volendo essere questo scritto denigratorio nei Vostri confronti, in chiusura mi piace citare anche una recente operazione, in chiave positiva.
Dopo l'estate, ormai abbondantemente trombato con la faccenda del cambio numero, avevo fatto richiesta di rimborso per i citati famigerati "28 giorni".
A fine novembre ho ricevuto, in stampato cartaceo, una nota di credito per il rimborso di quanto illecitamente, e proditoriamente, a suo tempo prelevato.
Uno stampato, pur senza altri accenni né saluti, è pur sempre una sicurezza, come dimostra la parte di questo testo inerente il contratto.
Non essendo prevista una scadenza per l'accredito, ho comunque la certezza che avverrà quanto prima.
Nonostante tale fiducia ho pensato bene di inserire nel testamento un codicillo che segnali il credito da specificare nella pratica d successione.
Perlomeno morirò con la speranza che i nipoti dei miei nipoti alla fine incasseranno il maltolto.

Baciando le mani a Vossia, porgo distinti saluti.


venerdì 10 gennaio 2020

el Paris

Non so a cosa fosse dovuto il soprannome, el Paris: forse a una visita giovanile alla capitale francese, da lui talmente ricordata e raccontata e ripetuta, al punto da trovarsene rivestito.
Era, a modo suo, quello che si dice 'un personaggio'.
La fidanzata aveva voluto che lo conoscessi, prima di convolare.
Era arrivato guidando un'Alfetta.
Non ne ricordo il colore della carrozzeria, ma ero stato colpito dal lunotto posteriore, il cui cristallo era stato ragnatelato da un forellino che avrebbe potuto essere provocato da un attacco di pietrisco andato a buon fine.
Ma anche altre parti posteriori della vettura, intorno alla targa, erano bucherellate da vari forellini, delle stesso diametro, che, essendo le macchine ancora in metallo (non in plastica ornitologica come adesso), escludevano l'offesa da pietrume o grandine, che ne avrebbe tamburellato la carrozzeria, senza peraltro forarla.
Le pallottole sì.
A domanda specifica, mi aveva spiegato che a causa del suo 'lavoro' era sovente in contatto con gente in divisa e armata, i finanzieri di confine, i quali, a suo dire, prima sparavano e poi intimavano l'alt.
Comunque quel contatto seguiva canoni precisi e immutabili: lui in fuga sui monti e loro appresso.
Sempre a suo dire,  sempre sparacchiando (per stare in argomento), per fortuna a vanvera.
Il che non gli impediva, in tutte le più svariate occasioni, di sedersi al loro fianco, purché fossero in borghese e fuori servizio: cene e tombolate alle feste di fine d'anno, festa dei coscrini (non è un errore, in quelle zone chiamano proprio così i chiamati alla leva militare), matrimoni, battesimi, feste comunali...
Quando c'era da mangiare, e soprattutto da bere, diventavano tutti fratelli.
Contrabbandiere, senza nasconderlo, come buona parte dei suoi compaesani.
E senza vergognarsene; anzi, parlando delle sue operazioni traspariva un piacere sottile nel raccontare quelle andate a buon fine.
Spallone, prima con le sigarette e poi con i sacchi di lire in contanti, travasati al di là del confine, senza che nessuno sapesse, o volesse sapere, provenienza e proprietari.
Erano frequenti le sue gite fuori porta, obbligate, per presenziare a processi che lo vedevano sempre  soccombente; per sua fortuna le attenuanti generiche annacquavano i verdetti, il che gli aveva consentito di non fare un solo giorno di carcere. Sanzioni pecuniarie molte, mai onorate in attesa,  anche questa mai delusa, di un condono (o pace, come si direbbe oggi) fiscale.

(Le sigarette e gli accendini finivano poi sulle bancarelle o in posti adatti al loro smercio. 
I sacchi di soldi erano chiaramente di operai o pensionati, che mettevano al sicuro i loro risparmi; resta il mistero su come favessero costoro a raggranellare centinaia e centinaia di milioni, quando, ufficialmente, erano tutti poco meno che morti di fame. Secondo me, questi erano (sono!?) i veri evasori, i tempi mi stanno dando ragione; infatti, da anni a questa parte, vengono giustamente ricercati e tartassati, direttamente e indirettamente, da uno Stato che cerca di far credere di doverlo a fin di bene, per il bene della collettività. Altri, porelli loro, nel tempo hanno imbracciato scudi vari o condoni dichiarati, facendo rientrare dalla porta quello che avevano fatto portare al di là della rete confinaria, ora addirittura momentaneamente osannati come salvatori della patria. Bancaria. Che, da una parte, fa il paio con i percettori nullatenenti del cosiddetto reddito di cittadinanza, che si sta rivelando manna a copertura di traffici illeciti e quanto mai redditizi).

Ovviamente avevo consigliato alla ragazza di lasciar perdere, di interrompere una relazione che le avrebbe portato solo guai e dispiaceri, "ché in famiglia avevamo già ampiamente dato e avuto".
Altrettanto ovviamente, lo aveva sposato.
Comunista fino al primo Berlinguer, non ne aveva accettato i papocchi, le convergenze parallele non le aveva capite, né tanto meno assimilate.
Era rimasto di sinistra, ma una sinistra strettamente personale, casereccia, semplice nei concetti, che piano piano era scivolata in una dichiarata contro-politica in generale, deluso e incazzato dagli sviluppi mai così schifosi della stessa.
In questo ampiamente supportato sia dalla moglie che da me. Senza immaginare quanto sarebbe  peggiorata in seguito.

Cacciatore accanito, era uno dei nostri punti di disaccordo, archiviati nel tempo, visto che le sue posizioni e le mie non si smuovevano di un millimetro. Gli dicevo che avrei accettato lui cacciatore quando avessi visto la fauna armata di fucile, a rispondere per le rime ai suoi colpi.
Non cercavamo di convincerci a vicenda della giustezza delle proprie argomentazioni: la caccia, per lui, non era una fede ma una passione, e alla passione non si comanda.

In un bosco, lontano dagli occhi indiscreti dei guardiacaccia, si era fatto un capanno, ben mimetizzato e attrezzato in vista delle lunghe attese delle prede. In alto, tra i rami, aveva predisposto una trappola per uccelli; i tordi in particolare, forse per non smentire il loro essere, ci cascavano abbondanti.
Soprattutto questi portava a casa, a decine ogni volta. Sapendo che alla moglie non garbava molto il loro spiumamento e svisceramento, provvedeva lui, con la pazienza tipica degli impazienti per natura quando si incaponiscono in un servizio.
Stessa sorte e trattamento era riservato a lepri e ai rari conigli selvatici. Anche qui provvedeva di persona a scuoiarli e a pulirli delle interiora, per poi affidare alla moglie il tocco finale.
Questa era un'ottima cuoca, appassionata della cucina, quasi quanto lui lo era della caccia.
Altra sua passione erano le lumache. Nel piccolo giardino intorno alla casa aveva creato una specie di piccola serra, in cui le allevava. Quando erano 'mature' e in numero sufficiente le raccoglieva: sbavamento e pulizia erano sua competenza, eseguita con protocolli precisi, a livello maniacale.
Le faceva cucinare, ça va sans dire, alla parigina, con sughetti ricchi di spezie.

Dopo il matrimonio aveva, come si dice, messo la testa a posto.
Aveva trovato un posto come trasportatore per una grossa ditta di autoricambi al di là del confine e viaggiava con un furgone di qua e di là dai caselli confinari, alla luce del sole, in modo regolare e senza il rischio sparatorie alle terga, anzi salutato cordialmente dalle guardie al passo, come si salutano amici e colleghi lavoratori. Il passato in soffitta...
In realtà anche prima lo era, lavoratore, ma in modo anomalo, per lo meno dal punto di vista dei 'benpensanti'.
Il suo contrabbando si era ridotto alla stecca di sigarette o alla scatola di accendini, più che altro per consumo personale.
Nei suoi viaggi, quando le visite in una certa zona glielo consentivano, si fermava a pranzare nella stessa trattoria: pasti, bevande e conto accettabili.
Quella trattoria era molto frequentata da artisti emergenti, pittori con le saccocce vuote e la testa piena di sogni, non ancora inquinati da drogaggi vari, che in seguito hanno creato la convinzione che senza questi 'incentivi' l'arte non esiste.
L'unica loro droga era la fame dello stomaco, tipica dei giovani, e per placarla, in assenza di conquibus, lasciavano le loro opere in cambio dei pasti.
L'oste cercava di affibbiarle ai clienti 'facoltosi', intendendo per tali quelli che pagavano in contanti; el Paris di arte non s'intendeva, ma se i quadri gli piacevano li prendeva, pagandoli quattro soldi, e se li portava a casa.
Paesaggi, animali, nature morte: gli astratti o gli psichedelici lo lasciavano indifferente, non li sapeva leggere e non perdeva tempo a cercare di capirli. Era il suo modo per fare beneficenza.
Quando lo andavo a trovare, soffermarmi più di un attimo a guardare uno di questi quadri alla ricerca della firma, significava ritrovarmelo in macchina alla partenza.
Alcuni sono ancora appesi ai muri di casa mia.

Un paese piccolo, meno di 1500 anime, secondo me compresi conigli e galline, cani e gatti; sempre secondo me, ci contavano pure i cavalli delle autovetture, pur di dare maggior peso al plesso comunale.
Nonostante il minimal abitativo c'erano una bocciofila, un velo-club che 'istigava' i ragazzini a qualcosa di più verace che altre, purtroppo ben note, alternative, un alberghetto con annesso un piccolo ristorante, la farmacia, la chiesa parrocchiale, un'edicola, diversi bar.
La parrocchia era frequentata dalle beghine paesane, l'edicola assai meno; i maschi nessuna delle due, 'preghiere' (quelle dirette, senza intermediazioni, equamente divise tra tutti i santi e tutte le madonne) e scambio di notizie si svolgevano nei bar, visitati regolarmente. Erano tutti 'casa e bar', in una tradizione che si tramandava di padre in figlio.
El Paris era presente in tutte queste espressioni di vita paesana, escluse parrocchia ed edicola; a casa, se l'ora del rientro era quella giusta, qualche telegiornale per avere notizie da citare negli incontri serali con i compagni; 'compagni' che non sempre erano quelli storici di partito, anzi... lo si capiva dagli urli di contrasto che si riversavano nella piazzetta antistante il locale, che trattavano tutto lo scibile, dalla politica allo sport, ai pettegolezzi sul paese e soprattutto sulle paesane; con chi se la facesse di volta in volta il prete portava gli avventori molto prossimi alle botte... Si sa, le corna sono un valore aggiunto universale, e su queste non si deve mai scherzare troppo...

Sul ciclismo ci sbavava, fino a quando si era reso conto che non erano più le gambe e i polmoni a far risplendere alcuni campioni: prima, non c'era manifestazione che lo segnalasse come assente.
Ma anche qui, come per il comunismo vecchia maniera, le delusioni per distorsioni di fatti sportivi a favore di interventi giudiziari lo avevano ammosciato.
Era rimasta immutata la passione per i giovani virgulti, che tramite il velo-club continuava a seguire.
Non aveva 'fatto' il militare; mi è sembrato di capire che ci fosse una qualche norma di esenzione per i lavoratori frontalieri. A quanto pare anche il suo primo 'lavoro' rientrava nella lista. Sono informazioni di parte, forse non vere, ma non mi importavano né il perché né il percome avesse evitato la leva, che essendo allora obbligatoria (e perseguita manco si fosse stati in guerra) cozzava contro la visione della parolina 'libertà di scelta'.
Nonostante la mancanza sul bavero di mostrine, stellette, lasagne, fiammelle e quant'altro denota l'ex militarizzato, un'altra sua passione erano i raduni, in particolare degli alpini. Non ne condivideva gli ideali, anzi manco li conosceva, e se li avesse conosciuti non li avrebbe proprio 'cagati', come si dice a fil di terra: gli piaceva, invece, condividere i bottiglioni, i cinque litri e le damigiane, i fiumi di vino, caratteristica specifica di queste riunioni.
Notti all'addiaccio, un cappello con la penna nera racimolato, il 'sangue' delle bottiglie, i canti di montagna e le baldorie lo mandavano in solluchero, e si teneva sempre informato sui incontri successivi per far sì che ferie o giorni di riposo coincidessero con questi. Le distanze chilometriche non lo fermavano, col furgone della ditta arrivava dovunque.
La sera, al rientro dal lavoro (quello ultimo; prima del matrimonio la sera era mattino, poiché il suo orario di lavoro era sempre notturno, e la mattina diventava sera), prima di rientrare a casa faceva il giro delle 'cappelle', l'avevamo chiamata la sua 'via crucis': tutti, e non un generico 'tutti' ma veramente tutti, i bar della zona ricevevano il suo 'buona sera', e un bianchetto in ciascuno dei locali visitati era il viatico per arrivare al successivo, per portare poi la sua 'croce' fino a casa.
Mi sentivo con la moglie per telefono, lui regolarmente assente; da anni l'avevamo messa sul ridere: "el Paris?... tra poco dovrebbe rientrare, adesso sarà dal Carletto per chiudere il giro ...".

Altra passione: la grappa fatta in casa.
In cantina alambicchi e contenitori di rame. Una volta gliene era scoppiato uno, l'essersi salvato è la prova provata che esiste un dio grappino che protegge i suoi fedeli.
Faceva una grappa un po' grezza per i miei gusti, ma non potevo esimermi dall'assaggiarla quando li andavo a trovare. Come non potevo, essendo ospite, permettermi di criticarla. C'è stato un tempo che obbligavano a bere un olio che faceva schifo, e il rifiuto di berlo significava beccarsi fior di  bastonate.
Ecco, la sua grappa, a confronto con quell'antica schifezza, era sorseggiabile.

Pochi mesi prima, portando la moglie in ospedale per una frattura al polso, dopo un po' di visite, si era fatto convincere da un medico a fare degli esami, per controllare che tutto l'ambaradan fosse a posto ed eventualmente intervenire se qualche bullone fosse risultato allentato o arrugginito.
Aveva frequentato gli ospedali solo per visite ad altri, la moglie, la madre, il figlio, i fratelli, qualche nipote; per sé li aveva sempre evitati. Diceva: è cosa ottima che ci siano, ma sono come i carabinieri (nel suo specifico i finanzieri, anche se di questi riteneva deleteria la presenza), utili, ma più ci stai lontano meglio è. Altra cosa su cui eravamo d'accordo.
Esami di routine: sangue e urine.
Avrebbero dovuto evidenziare eventuali anomalie nei trigliceridi, nel colesterolo, nella glicemia...
Evidentemente avevano invece segnalato altro, che aveva richiesto i raggi al torace. Che avevano portato ad altri esami mirati più mirati...
Tumore al polmone.
Ormai metastasizzato, con estensione linfatica a entrambi i lobi.
Ho parlato prima della convinzione dell'esistenza di un dio grappino; altrettanta convinzione esprimo per l'assenza di un dio ippocrate, che aiutasse le scelte dei medici quando devono comunicare una diagnosi infausta, tanto più quando questa più che diagnosi è sentenza.
Il primario lo aveva portato in camera caritatis e gli aveva detto, papale papale:
a) tumore non operabile,
b) non opportune chemio o radio-terapie che avrebbero debilitato l'organismo accelerandone la decomposizione,
c) che tirasse a campare per quanto possibile.
La 'cura' era poi proseguita con placebo, presentati come nuovi farmaci sperimentali che, forse, avrebbero potuto ritardare il suo commiato da questa terra. E antidolorifici in quantità industriale.

Credo che ai medici, in generale, sarebbe utile una passatina di medicina veterinaria nel corso degli studi. O almeno un ripasso a velo di psicologia veterinaria. Infatti non risulta che i medici veterinari diano direttamente ai loro pazienti gli esiti degli esami, meno ancora quando questi sono infausti. Nei loro protocolli è previsto che li comunichino esclusivamente ai loro parenti umani, di solito acquisiti o adottanti. Mi pare che uno solo, o comunque pochi altri, nel corso dei secoli, 'parlassero' direttamente agli animali e questi, si dice, comprendessero, forse addirittura rispondendo a richiami o richieste specifiche. Era un certo Francesco, di Assisi in terra umbra. Si dice parlasse agli animali, ma anche alle bestie umane; i primi lo sentivano e lo capivano, le bestie umane lo sentivano ma non lo capivano. E Francesco, che io sappia, non era un veterinario.
Poi, vabbé, risulta un Adriano che parlava ai corvi, un Terence che zufolava ai delfini e un Bud  che dialogava coi gabbiani... ma erano chiaramente ventriloqui; anche se un corvo e un gabbiano nello stomaco umano potrebbero anche starci, ma un delfino...
Ci fu anche Francis, mulo parlante... che, per essere ventriloquo avrebbe dovuto avere un uomo al suo interno; il che è meno credibile, visto un mulo non è un pitone, un boa o un coccodrillo, forse era proprio un mulo 'studiato' che parlava... 
Ci sono medici, meglio se primari, che nel controcanto risultano essere più bestie dei pazienti animali dei veterinari.
Questo era stato il caso del Paris..

El Paris fumava quasi come il classico turco; credo fosse nato con la sigaretta tra le labbra, ci aveva convissuto tutta la vita e con la sigaretta si avviava a morire.
Aveva imposto alla moglie, durante il suo primo ricovero, di portargli non frutta o, peggio, preghiere, ma pacchetti di sigarette, che poi si sciroppava di nascosto, in bagno o nelle ore d'aria in giardino. E lei non poteva rifiutargliele, sarebbe stato come negare la fatidica ultima sigaretta al condannato a una pena capitale. Anche la mitica telefonata che allungava la vita di Lopez, nel suo caso non avrebbe avuto successo.
E fumava, da sempre, le Parisienne, pacchetto giallo, che non sono proprio nebbiolina di primavera; credo che il paragone potrebbe essere fatto con il tubo di scappamento di un diesel col particolato grezzo, insaporito con nerofumo.

La notizia era stata data a un colosso, ignorando la possibilità che avesse i piedi d'argilla.
Non più tardi del giorno dopo mi ero sentito con lui, e avevo avuto l'impressione di un discreto assorbimento della notizia, con una vaga punta di fatalismo:
"Te volet... l'è inscì... l'è la vida... anca i me fradei sun mort par chel mal lì...".
Aveva tenuto su questa linea per una quindicina di giorni.
Poi il vento era cambiato.
"Go a cà el fusil... 'na bota e bon... tuc finì...".
Avevo raccomandato alla moglie di chiudere l'armadio dei fucili e nasconderne la chiave.
Non potevo e non sapevo fare altro.
Pagherei non so cosa per sapere cosa dire a una persona che sta per morire, non potendo fare nulla per ritardare l'evento.
Non potrò mai sapere 'quanto' un'informazione così cruda abbia influito nell'abbreviare il suo viaggio, ma sono certo che ha avuto un peso non indifferente.
Aveva smesso di mangiare, fargli ingoiare un po' di minestrina era una battaglia, se ne stava giornate intere sdraiato sul divano, gli occhi al soffitto, fingendo di dormire; fingendo, neanche troppo, di pensare.
Chiedersi 'a cosa' sarebbe pleonastico...
Aveva cessato la via crucis dei bar e l'aveva trasferita in casa.

Ai primi di novembre, la moglie, nel nostro sentirci telefonico ormai quotidiano, si era fatta sfuggire che solo l'ossigeno gli dava ancora un filo di vita.
Non speranza di ...
A metà dello stesso mese, era andato a letto, non più per dormire.


Era el Paris, mio cognato, marito di mia sorella.
Che poco più di un anno dopo l'ha seguito, verso quel mondo in(de)finito che tanto ci terrorizza e altrettanto ci affascina.

lunedì 6 gennaio 2020

Parliamone, fino all'ultimo respiro

Laddove le autorità si disinteressano, anzi, diciamocelo francamente, altamente se ne fregano, l'unica voce rimasta è quella di cittadini virtuosi, liberi nella mente e nel cuore. Condivido volentieri lo scritto di una cara amica, pur sapendo che chi dovrebbe leggerlo non lo farà. Non è accettabile che il destino di un territorio, il futuro di migliaia di cittadini, sia così balordamente abbandonato. E non è accettabile, pur essendo apprezzabile, che le grida di dolore vengano diffuse, e sovente giustamente ascoltate, da un TG ufficialmente satirico, che affida le proteste alla voce di un pupazzo di rosso vestito.  

Ivania Avolio
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Cari vi inoltro questo SMS che vi chiedo di leggere anche se lungo perché magari a qualcuno di noi può venire in mente qualcosa che si può fare:
lo so che qui è difficile che vengano letti post lunghi ma io ci provo. lo leggeranno solo quelli che hanno tempo ma io ci tengo molto. So che tanti faranno finta di non averlo visto ma spero che lo leggeranno degli "amici" che proveranno a fare qualcosa, ne vale la pena.
Una storia d’impegno, di amore e di bellezza.
C’era una area fortemente avvelenata a San Giuseppiello, Giugliano in Campania, terra dei fuochi. Poi c’era un progetto di bonifica, come tanti altri, tanti milioni di euro, denaro pubblico. Ne sarebbe risultato un lavoro enorme, di asportazione di terra e veleno per portarlo chissà dove, con costi enormi. Bruttura su bruttura, devastazione su devastazione, distruzione su distruzione che avrebbe arricchito solo la camorra. Sappiamo che è così che funziona, la camorra inquina, la camorra si occupa delle bonifiche. Invece è successo che il commissario alle bonifiche ed un gruppo di studiosi della facoltà di agraria dell’università di Napoli, coordinato dal prof. Massimo Fagnano hanno realizzato un progetto differente, improntato all’attenzione ed alla cura della terra. E così nei terreni sequestrati ai clan, dov’erano stati sotterrati veleni e rifiuti industriali è stata attivata un’opera di recupero totalmente affidata alla tecnologia ed alla Natura. Un intervento alternativo, pulito, a basso costo: sono stati piantati 20.000 pioppi, le cui radici stanno assorbendo i metalli pesanti in profondità. Il terreno è stato cosparso di compost arricchito con batteri capaci di metabolizzare gli idrocarburi. Il tutto è costato “solo” 900.000 euro rispetto ai molti milioni di euro che prevedeva il progetto iniziale. In questi anni gli alberi sono diventati un bel bosco, sono ritornati gli animali selvatici e gli uccelli, arrivano gli alunni delle scuole, le macchine monitorano la diminuzione dei veleni, un vero miracolo. Eppure l’area non è stata affidata, il commissario da qualche settimana è in pensione e la Regione Campania non ha ancora individuato né il successore né un organismo a cui affidare il bene bonificato. Intanto da qualche mese è già cominciata la devastazione degli uffici e delle apparecchiature.
Un modello virtuoso, efficace ed efficiente, una sperimentazione ecosostenibile, un esempio di legalità che si potrebbe replicare nelle mille terre avvelenate del nostro Paese rischia di essere dimenticato e, fatto gravissimo, di essere distrutto e le persone che vi hanno lavorato lasciate sole ed esposte. Persone che hanno avuto il coraggio di intraprendere percorsi differenti, di non utilizzare denaro pubblico per opere costose ed inutili, di occuparsi della nostra terra con cura per recuperare natura e bellezza. Vorrei portare a conoscenza i grandi movimenti ambientalisti italiani di questa storia. Non vorrei apparire troppo esigente se affermo che se ne dovrebbe occupare la Politica, Libera, la Magistratura, le Associazioni, , Cittadinanza Attiva, i Giornalisti sensibili ed attenti al tema e che non si lasciasse solo chi ha provato a costruire un modello di risanamento della nostra terra in maniera seria, attenta e naturale, mettendosi anche contro il grande potere della camorra. Se ci siete datemi una mano a diffondere e a condividere questa bella storia prima che diventi una storia triste.

'Tolo Tolo', digressioni di un befano

Tolo Tolo è il film che scassa i botteghini, tra polemiche, apprezzamenti e stroncature, visualizzazioni sociologiche, analisi pro e contro; recensioni che, agli apprezzamenti, accoppiano rovesci di medaglia che lasciano talvolta sconcertati.
Sono uno di quei quasi tre milioni di persone che in pochi giorni hanno contribuito a sbancare il banco... dei botteghini.
Non essendo esperto, né di filmati né dei vari temi che quest'opera va a toccare, esco dal seminato e parlo d'altro.
Tolo Tolo, tradotto dallo stesso Zalone, sta a significare Solo Solo, che si riferisce a un bimbo color cioccolato, nero fondente, che per buona parte del film appare, appunto, solo e, a sprazzi, abbandonato
Non conosco gli idiomi o i dialetti africani, e poco so di quelli pugliesi.
Il tolo/solo mi porta invece alla Sardegna, alla parte nordica dell'isola, alla provincia di Sassari.
Dove Sassari è nota come Tattari, e i sassaresi come tattaresu.
In provincia, uno fra diversi, Pozzomaggiore, ridente (e fortunato) borgo poco a sud del capoluogo, è letto come Puttumajori; gli abitanti sono puttumajoresu.
Che, giustamente, chissenefrega...
Ma digredire su un argomento che attanaglia le viscere a un popolo intero, a questo befano è utile per scaldare i polpastrelli surgelati da un freddo osseo che fa pensare di essere quasi in inverno.

Per scaldarli meglio, riguardo al film, parto da lontano.
Il lancio del prodotto, distribuito da Medusa e prodotto da TaoDue, è tuttora in corso e lo presenta con un trailer che, a ben vedere, è una fregatura.
È come se, mi si perdoni la volgarità, andando a donne, come si diceva un tempo delle camminate giovanili alla scoperta del sesso, adocchiata quella adatta all'uopo, bella, capelli fino al coccige, occhi verde smeraldo, denti che colgate se li sogna, seni a balconcino, gambe scolpite da Michelangelo, ecc. ecc.
Ma, oggi, sul web, chattando, come si dice, e trovando le stesse caratteristiche su descritte, sognando un rendez vous di circa un'ora e mezzo, distensivo, rilassante, come un film che si prevede piacevole.
Che l'incontro avvenga dietro un pagamento o solo per simpatia, poco importa.
Importa che giunti al nido, la prescelta cominci a sgusciarsi un occhio di vetro verde smeraldo, posi sul comodino la dentiera, si sfili la parrucca lasciando scoperti quattro capelli color trump o johnson, i seni annodati per tenerli all'altezza del torace anziché all'ombelico...
Ecco, la persona sarebbe comunque salva, poiché non ci sono difetti fisici sufficienti ad annullarla, ma probabilmente non si tratterebbe di quello che uno si aspettava.
Il trailer di Tolo Tolo appariva come la bella donna testé chattata, dal primo lancio aveva suscitato le polemiche tuttora non sopite, invogliando gli spettatori a recarsi a frotte non ad un'alcova ma verso le poltroncine imbottite delle sale cinematografiche.
Qui trovando una visione simile a quella descritta nella donna che si disfa: non ciò che ci si aspettava. Al di là della piacevolezza del film, che resta comunque soggettiva.
Ha una sua originalità il fatto che nella clip di lancio venga proposta una canzone sull'immigrato, simpatica, come simpatica è tutta la sequenza di contorno. Che avrebbe avuto un senso come semplice proposta, o anche come messaggio. È originale il fatto che nel trailer non ci sia l'ombra di una sola scena del film che andava a sponsorizzare; a parte un momentaneo erigersi mussoliniano del protagonista, non c'è altro.
Ci sono invece scene comiche che uno spettatore si aspetterebbe di rivedere, ampliate, nel corso dello spettacolo.
In quello spettacolo, dei fotogrammi della clip non c'è la minima traccia. Eppure quelle immagini sarebbero dovute apparire, come sono apparse, traino alla corsa ai botteghini.
La fregatura non è nel film, che più o meno ricalca il filone comico di Zalone, un po' più amaricantato di altre sue produzioni; quella che, forse impropriamente, io chiamo fregatura sta proprio nel fatto di avere prospettato un tipo di visione per poi ignorarne completamente la promessa.
Mi ha ricordato un po' la famigerata operazione Adrian, da poco seppellita; con la differenza che questa semi buggeratura sta rendendo fior di soldini, mentre l'altra è finita come è finita.
È come aver chiesto un tè al limone ben zuccherato e trovarsi in tazza un consommè di cipolle, bollente...
Non sono esperto di cose legali, per cui non mi azzardo ad avanzare l'ipotesi di falso ideologico, ma un pensierino al proposito l'ho fatto.
Sballato, come questo testo.


venerdì 3 gennaio 2020

Previsioni

Abbiamo ancora 363 giorni utili perché la previsione si avveri. 
Ma che dico previsione, all'epoca era una vera profezia
Contrariamente alle infinite 'fine del mondo' (per ora) mai avverate, le varie letture del futuro dei cartomanti nelle fiere paesane, gli oroscopi sciorinati da aruspici professionisti, in barba alle letture varie di Nostradamus... di cui nessuno tiene più conto, questa previsione/profezia finalmente abbiamo la certezza (quasi) assoluta che si verificherà..
Le premesse ci sono tutte, è solo questione di giorni, 363 giorni che passano in un lampo.


E alla fine del 2020 le risorse del Paese potranno essere dirottate verso altri problemi, eternamente irrisolti per dare precedenza assoluta alla rinascita di una grossa parte della penisola.
E qui un amen, così sia, ci sta tutto.
Così sarà?