el Paris
Non so a cosa fosse dovuto il soprannome, el Paris: forse a una visita giovanile alla capitale francese, da lui talmente ricordata e raccontata e ripetuta, al punto da trovarsene rivestito.
Era, a modo suo, quello che si dice 'un personaggio'.
La fidanzata aveva voluto che lo conoscessi, prima di convolare.
Era arrivato guidando un'Alfetta.
Non ne ricordo il colore della carrozzeria, ma ero stato colpito dal lunotto posteriore, il cui cristallo era stato ragnatelato da un forellino che avrebbe potuto essere provocato da un attacco di pietrisco andato a buon fine.
Ma anche altre parti posteriori della vettura, intorno alla targa, erano bucherellate da vari forellini, delle stesso diametro, che, essendo le macchine ancora in metallo (non in plastica ornitologica come adesso), escludevano l'offesa da pietrume o grandine, che ne avrebbe tamburellato la carrozzeria, senza peraltro forarla.
Le pallottole sì.
A domanda specifica, mi aveva spiegato che a causa del suo 'lavoro' era sovente in contatto con gente in divisa e armata, i finanzieri di confine, i quali, a suo dire, prima sparavano e poi intimavano l'alt.
Comunque quel contatto seguiva canoni precisi e immutabili: lui in fuga sui monti e loro appresso.
Sempre a suo dire, sempre sparacchiando (per stare in argomento), per fortuna a vanvera.
Il che non gli impediva, in tutte le più svariate occasioni, di sedersi al loro fianco, purché fossero in borghese e fuori servizio: cene e tombolate alle feste di fine d'anno, festa dei coscrini (non è un errore, in quelle zone chiamano proprio così i chiamati alla leva militare), matrimoni, battesimi, feste comunali...
Quando c'era da mangiare, e soprattutto da bere, diventavano tutti fratelli.
Contrabbandiere, senza nasconderlo, come buona parte dei suoi compaesani.
E senza vergognarsene; anzi, parlando delle sue operazioni traspariva un piacere sottile nel raccontare quelle andate a buon fine.
Spallone, prima con le sigarette e poi con i sacchi di lire in contanti, travasati al di là del confine, senza che nessuno sapesse, o volesse sapere, provenienza e proprietari.
Erano frequenti le sue gite fuori porta, obbligate, per presenziare a processi che lo vedevano sempre soccombente; per sua fortuna le attenuanti generiche annacquavano i verdetti, il che gli aveva consentito di non fare un solo giorno di carcere. Sanzioni pecuniarie molte, mai onorate in attesa, anche questa mai delusa, di un condono (o pace, come si direbbe oggi) fiscale.
(Le sigarette e gli accendini finivano poi sulle bancarelle o in posti adatti al loro smercio.
I sacchi di soldi erano chiaramente di operai o pensionati, che mettevano al sicuro i loro risparmi; resta il mistero su come favessero costoro a raggranellare centinaia e centinaia di milioni, quando, ufficialmente, erano tutti poco meno che morti di fame. Secondo me, questi erano (sono!?) i veri evasori, i tempi mi stanno dando ragione; infatti, da anni a questa parte, vengono giustamente ricercati e tartassati, direttamente e indirettamente, da uno Stato che cerca di far credere di doverlo a fin di bene, per il bene della collettività. Altri, porelli loro, nel tempo hanno imbracciato scudi vari o condoni dichiarati, facendo rientrare dalla porta quello che avevano fatto portare al di là della rete confinaria, ora addirittura momentaneamente osannati come salvatori della patria. Bancaria. Che, da una parte, fa il paio con i percettori nullatenenti del cosiddetto reddito di cittadinanza, che si sta rivelando manna a copertura di traffici illeciti e quanto mai redditizi).
Ovviamente avevo consigliato alla ragazza di lasciar perdere, di interrompere una relazione che le avrebbe portato solo guai e dispiaceri, "ché in famiglia avevamo già ampiamente dato e avuto".
Altrettanto ovviamente, lo aveva sposato.
Comunista fino al primo Berlinguer, non ne aveva accettato i papocchi, le convergenze parallele non le aveva capite, né tanto meno assimilate.
Era rimasto di sinistra, ma una sinistra strettamente personale, casereccia, semplice nei concetti, che piano piano era scivolata in una dichiarata contro-politica in generale, deluso e incazzato dagli sviluppi mai così schifosi della stessa.
In questo ampiamente supportato sia dalla moglie che da me. Senza immaginare quanto sarebbe peggiorata in seguito.
Cacciatore accanito, era uno dei nostri punti di disaccordo, archiviati nel tempo, visto che le sue posizioni e le mie non si smuovevano di un millimetro. Gli dicevo che avrei accettato lui cacciatore quando avessi visto la fauna armata di fucile, a rispondere per le rime ai suoi colpi.
Non cercavamo di convincerci a vicenda della giustezza delle proprie argomentazioni: la caccia, per lui, non era una fede ma una passione, e alla passione non si comanda.
In un bosco, lontano dagli occhi indiscreti dei guardiacaccia, si era fatto un capanno, ben mimetizzato e attrezzato in vista delle lunghe attese delle prede. In alto, tra i rami, aveva predisposto una trappola per uccelli; i tordi in particolare, forse per non smentire il loro essere, ci cascavano abbondanti.
Soprattutto questi portava a casa, a decine ogni volta. Sapendo che alla moglie non garbava molto il loro spiumamento e svisceramento, provvedeva lui, con la pazienza tipica degli impazienti per natura quando si incaponiscono in un servizio.
Stessa sorte e trattamento era riservato a lepri e ai rari conigli selvatici. Anche qui provvedeva di persona a scuoiarli e a pulirli delle interiora, per poi affidare alla moglie il tocco finale.
Questa era un'ottima cuoca, appassionata della cucina, quasi quanto lui lo era della caccia.
Altra sua passione erano le lumache. Nel piccolo giardino intorno alla casa aveva creato una specie di piccola serra, in cui le allevava. Quando erano 'mature' e in numero sufficiente le raccoglieva: sbavamento e pulizia erano sua competenza, eseguita con protocolli precisi, a livello maniacale.
Le faceva cucinare, ça va sans dire, alla parigina, con sughetti ricchi di spezie.
Dopo il matrimonio aveva, come si dice, messo la testa a posto.
Aveva trovato un posto come trasportatore per una grossa ditta di autoricambi al di là del confine e viaggiava con un furgone di qua e di là dai caselli confinari, alla luce del sole, in modo regolare e senza il rischio sparatorie alle terga, anzi salutato cordialmente dalle guardie al passo, come si salutano amici e colleghi lavoratori. Il passato in soffitta...
In realtà anche prima lo era, lavoratore, ma in modo anomalo, per lo meno dal punto di vista dei 'benpensanti'.
Il suo contrabbando si era ridotto alla stecca di sigarette o alla scatola di accendini, più che altro per consumo personale.
Nei suoi viaggi, quando le visite in una certa zona glielo consentivano, si fermava a pranzare nella stessa trattoria: pasti, bevande e conto accettabili.
Quella trattoria era molto frequentata da artisti emergenti, pittori con le saccocce vuote e la testa piena di sogni, non ancora inquinati da drogaggi vari, che in seguito hanno creato la convinzione che senza questi 'incentivi' l'arte non esiste.
L'unica loro droga era la fame dello stomaco, tipica dei giovani, e per placarla, in assenza di conquibus, lasciavano le loro opere in cambio dei pasti.
L'oste cercava di affibbiarle ai clienti 'facoltosi', intendendo per tali quelli che pagavano in contanti; el Paris di arte non s'intendeva, ma se i quadri gli piacevano li prendeva, pagandoli quattro soldi, e se li portava a casa.
Paesaggi, animali, nature morte: gli astratti o gli psichedelici lo lasciavano indifferente, non li sapeva leggere e non perdeva tempo a cercare di capirli. Era il suo modo per fare beneficenza.
Quando lo andavo a trovare, soffermarmi più di un attimo a guardare uno di questi quadri alla ricerca della firma, significava ritrovarmelo in macchina alla partenza.
Alcuni sono ancora appesi ai muri di casa mia.
Un paese piccolo, meno di 1500 anime, secondo me compresi conigli e galline, cani e gatti; sempre secondo me, ci contavano pure i cavalli delle autovetture, pur di dare maggior peso al plesso comunale.
Nonostante il minimal abitativo c'erano una bocciofila, un velo-club che 'istigava' i ragazzini a qualcosa di più verace che altre, purtroppo ben note, alternative, un alberghetto con annesso un piccolo ristorante, la farmacia, la chiesa parrocchiale, un'edicola, diversi bar.
La parrocchia era frequentata dalle beghine paesane, l'edicola assai meno; i maschi nessuna delle due, 'preghiere' (quelle dirette, senza intermediazioni, equamente divise tra tutti i santi e tutte le madonne) e scambio di notizie si svolgevano nei bar, visitati regolarmente. Erano tutti 'casa e bar', in una tradizione che si tramandava di padre in figlio.
El Paris era presente in tutte queste espressioni di vita paesana, escluse parrocchia ed edicola; a casa, se l'ora del rientro era quella giusta, qualche telegiornale per avere notizie da citare negli incontri serali con i compagni; 'compagni' che non sempre erano quelli storici di partito, anzi... lo si capiva dagli urli di contrasto che si riversavano nella piazzetta antistante il locale, che trattavano tutto lo scibile, dalla politica allo sport, ai pettegolezzi sul paese e soprattutto sulle paesane; con chi se la facesse di volta in volta il prete portava gli avventori molto prossimi alle botte... Si sa, le corna sono un valore aggiunto universale, e su queste non si deve mai scherzare troppo...
Sul ciclismo ci sbavava, fino a quando si era reso conto che non erano più le gambe e i polmoni a far risplendere alcuni campioni: prima, non c'era manifestazione che lo segnalasse come assente.
Ma anche qui, come per il comunismo vecchia maniera, le delusioni per distorsioni di fatti sportivi a favore di interventi giudiziari lo avevano ammosciato.
Era rimasta immutata la passione per i giovani virgulti, che tramite il velo-club continuava a seguire.
Non aveva 'fatto' il militare; mi è sembrato di capire che ci fosse una qualche norma di esenzione per i lavoratori frontalieri. A quanto pare anche il suo primo 'lavoro' rientrava nella lista. Sono informazioni di parte, forse non vere, ma non mi importavano né il perché né il percome avesse evitato la leva, che essendo allora obbligatoria (e perseguita manco si fosse stati in guerra) cozzava contro la visione della parolina 'libertà di scelta'.
Nonostante la mancanza sul bavero di mostrine, stellette, lasagne, fiammelle e quant'altro denota l'ex militarizzato, un'altra sua passione erano i raduni, in particolare degli alpini. Non ne condivideva gli ideali, anzi manco li conosceva, e se li avesse conosciuti non li avrebbe proprio 'cagati', come si dice a fil di terra: gli piaceva, invece, condividere i bottiglioni, i cinque litri e le damigiane, i fiumi di vino, caratteristica specifica di queste riunioni.
Notti all'addiaccio, un cappello con la penna nera racimolato, il 'sangue' delle bottiglie, i canti di montagna e le baldorie lo mandavano in solluchero, e si teneva sempre informato sui incontri successivi per far sì che ferie o giorni di riposo coincidessero con questi. Le distanze chilometriche non lo fermavano, col furgone della ditta arrivava dovunque.
La sera, al rientro dal lavoro (quello ultimo; prima del matrimonio la sera era mattino, poiché il suo orario di lavoro era sempre notturno, e la mattina diventava sera), prima di rientrare a casa faceva il giro delle 'cappelle', l'avevamo chiamata la sua 'via crucis': tutti, e non un generico 'tutti' ma veramente tutti, i bar della zona ricevevano il suo 'buona sera', e un bianchetto in ciascuno dei locali visitati era il viatico per arrivare al successivo, per portare poi la sua 'croce' fino a casa.
Mi sentivo con la moglie per telefono, lui regolarmente assente; da anni l'avevamo messa sul ridere: "el Paris?... tra poco dovrebbe rientrare, adesso sarà dal Carletto per chiudere il giro ...".
Altra passione: la grappa fatta in casa.
In cantina alambicchi e contenitori di rame. Una volta gliene era scoppiato uno, l'essersi salvato è la prova provata che esiste un dio grappino che protegge i suoi fedeli.
Faceva una grappa un po' grezza per i miei gusti, ma non potevo esimermi dall'assaggiarla quando li andavo a trovare. Come non potevo, essendo ospite, permettermi di criticarla. C'è stato un tempo che obbligavano a bere un olio che faceva schifo, e il rifiuto di berlo significava beccarsi fior di bastonate.
Ecco, la sua grappa, a confronto con quell'antica schifezza, era sorseggiabile.
Pochi mesi prima, portando la moglie in ospedale per una frattura al polso, dopo un po' di visite, si era fatto convincere da un medico a fare degli esami, per controllare che tutto l'ambaradan fosse a posto ed eventualmente intervenire se qualche bullone fosse risultato allentato o arrugginito.
Aveva frequentato gli ospedali solo per visite ad altri, la moglie, la madre, il figlio, i fratelli, qualche nipote; per sé li aveva sempre evitati. Diceva: è cosa ottima che ci siano, ma sono come i carabinieri (nel suo specifico i finanzieri, anche se di questi riteneva deleteria la presenza), utili, ma più ci stai lontano meglio è. Altra cosa su cui eravamo d'accordo.
Esami di routine: sangue e urine.
Avrebbero dovuto evidenziare eventuali anomalie nei trigliceridi, nel colesterolo, nella glicemia...
Evidentemente avevano invece segnalato altro, che aveva richiesto i raggi al torace. Che avevano portato ad altri esami mirati più mirati...
Tumore al polmone.
Ormai metastasizzato, con estensione linfatica a entrambi i lobi.
Ho parlato prima della convinzione dell'esistenza di un dio grappino; altrettanta convinzione esprimo per l'assenza di un dio ippocrate, che aiutasse le scelte dei medici quando devono comunicare una diagnosi infausta, tanto più quando questa più che diagnosi è sentenza.
Il primario lo aveva portato in camera caritatis e gli aveva detto, papale papale:
a) tumore non operabile,
b) non opportune chemio o radio-terapie che avrebbero debilitato l'organismo accelerandone la decomposizione,
c) che tirasse a campare per quanto possibile.
La 'cura' era poi proseguita con placebo, presentati come nuovi farmaci sperimentali che, forse, avrebbero potuto ritardare il suo commiato da questa terra. E antidolorifici in quantità industriale.
Credo che ai medici, in generale, sarebbe utile una passatina di medicina veterinaria nel corso degli studi. O almeno un ripasso a velo di psicologia veterinaria. Infatti non risulta che i medici veterinari diano direttamente ai loro pazienti gli esiti degli esami, meno ancora quando questi sono infausti. Nei loro protocolli è previsto che li comunichino esclusivamente ai loro parenti umani, di solito acquisiti o adottanti. Mi pare che uno solo, o comunque pochi altri, nel corso dei secoli, 'parlassero' direttamente agli animali e questi, si dice, comprendessero, forse addirittura rispondendo a richiami o richieste specifiche. Era un certo Francesco, di Assisi in terra umbra. Si dice parlasse agli animali, ma anche alle bestie umane; i primi lo sentivano e lo capivano, le bestie umane lo sentivano ma non lo capivano. E Francesco, che io sappia, non era un veterinario.
Poi, vabbé, risulta un Adriano che parlava ai corvi, un Terence che zufolava ai delfini e un Bud che dialogava coi gabbiani... ma erano chiaramente ventriloqui; anche se un corvo e un gabbiano nello stomaco umano potrebbero anche starci, ma un delfino...
Ci fu anche Francis, mulo parlante... che, per essere ventriloquo avrebbe dovuto avere un uomo al suo interno; il che è meno credibile, visto un mulo non è un pitone, un boa o un coccodrillo, forse era proprio un mulo 'studiato' che parlava...
Ci sono medici, meglio se primari, che nel controcanto risultano essere più bestie dei pazienti animali dei veterinari.
Questo era stato il caso del Paris..
El Paris fumava quasi come il classico turco; credo fosse nato con la sigaretta tra le labbra, ci aveva convissuto tutta la vita e con la sigaretta si avviava a morire.
Aveva imposto alla moglie, durante il suo primo ricovero, di portargli non frutta o, peggio, preghiere, ma pacchetti di sigarette, che poi si sciroppava di nascosto, in bagno o nelle ore d'aria in giardino. E lei non poteva rifiutargliele, sarebbe stato come negare la fatidica ultima sigaretta al condannato a una pena capitale. Anche la mitica telefonata che allungava la vita di Lopez, nel suo caso non avrebbe avuto successo.
E fumava, da sempre, le Parisienne, pacchetto giallo, che non sono proprio nebbiolina di primavera; credo che il paragone potrebbe essere fatto con il tubo di scappamento di un diesel col particolato grezzo, insaporito con nerofumo.
La notizia era stata data a un colosso, ignorando la possibilità che avesse i piedi d'argilla.
Non più tardi del giorno dopo mi ero sentito con lui, e avevo avuto l'impressione di un discreto assorbimento della notizia, con una vaga punta di fatalismo:
"Te volet... l'è inscì... l'è la vida... anca i me fradei sun mort par chel mal lì...".
Aveva tenuto su questa linea per una quindicina di giorni.
Poi il vento era cambiato.
"Go a cà el fusil... 'na bota e bon... tuc finì...".
Avevo raccomandato alla moglie di chiudere l'armadio dei fucili e nasconderne la chiave.
Non potevo e non sapevo fare altro.
Pagherei non so cosa per sapere cosa dire a una persona che sta per morire, non potendo fare nulla per ritardare l'evento.
Non potrò mai sapere 'quanto' un'informazione così cruda abbia influito nell'abbreviare il suo viaggio, ma sono certo che ha avuto un peso non indifferente.
Aveva smesso di mangiare, fargli ingoiare un po' di minestrina era una battaglia, se ne stava giornate intere sdraiato sul divano, gli occhi al soffitto, fingendo di dormire; fingendo, neanche troppo, di pensare.
Chiedersi 'a cosa' sarebbe pleonastico...
Aveva cessato la via crucis dei bar e l'aveva trasferita in casa.
Ai primi di novembre, la moglie, nel nostro sentirci telefonico ormai quotidiano, si era fatta sfuggire che solo l'ossigeno gli dava ancora un filo di vita.
Non speranza di ...
A metà dello stesso mese, era andato a letto, non più per dormire.
Era el Paris, mio cognato, marito di mia sorella.
Che poco più di un anno dopo l'ha seguito, verso quel mondo in(de)finito che tanto ci terrorizza e altrettanto ci affascina.
Era, a modo suo, quello che si dice 'un personaggio'.
La fidanzata aveva voluto che lo conoscessi, prima di convolare.
Era arrivato guidando un'Alfetta.
Non ne ricordo il colore della carrozzeria, ma ero stato colpito dal lunotto posteriore, il cui cristallo era stato ragnatelato da un forellino che avrebbe potuto essere provocato da un attacco di pietrisco andato a buon fine.
Ma anche altre parti posteriori della vettura, intorno alla targa, erano bucherellate da vari forellini, delle stesso diametro, che, essendo le macchine ancora in metallo (non in plastica ornitologica come adesso), escludevano l'offesa da pietrume o grandine, che ne avrebbe tamburellato la carrozzeria, senza peraltro forarla.
Le pallottole sì.
A domanda specifica, mi aveva spiegato che a causa del suo 'lavoro' era sovente in contatto con gente in divisa e armata, i finanzieri di confine, i quali, a suo dire, prima sparavano e poi intimavano l'alt.
Comunque quel contatto seguiva canoni precisi e immutabili: lui in fuga sui monti e loro appresso.
Sempre a suo dire, sempre sparacchiando (per stare in argomento), per fortuna a vanvera.
Il che non gli impediva, in tutte le più svariate occasioni, di sedersi al loro fianco, purché fossero in borghese e fuori servizio: cene e tombolate alle feste di fine d'anno, festa dei coscrini (non è un errore, in quelle zone chiamano proprio così i chiamati alla leva militare), matrimoni, battesimi, feste comunali...
Quando c'era da mangiare, e soprattutto da bere, diventavano tutti fratelli.
Contrabbandiere, senza nasconderlo, come buona parte dei suoi compaesani.
E senza vergognarsene; anzi, parlando delle sue operazioni traspariva un piacere sottile nel raccontare quelle andate a buon fine.
Spallone, prima con le sigarette e poi con i sacchi di lire in contanti, travasati al di là del confine, senza che nessuno sapesse, o volesse sapere, provenienza e proprietari.
Erano frequenti le sue gite fuori porta, obbligate, per presenziare a processi che lo vedevano sempre soccombente; per sua fortuna le attenuanti generiche annacquavano i verdetti, il che gli aveva consentito di non fare un solo giorno di carcere. Sanzioni pecuniarie molte, mai onorate in attesa, anche questa mai delusa, di un condono (o pace, come si direbbe oggi) fiscale.
(Le sigarette e gli accendini finivano poi sulle bancarelle o in posti adatti al loro smercio.
I sacchi di soldi erano chiaramente di operai o pensionati, che mettevano al sicuro i loro risparmi; resta il mistero su come favessero costoro a raggranellare centinaia e centinaia di milioni, quando, ufficialmente, erano tutti poco meno che morti di fame. Secondo me, questi erano (sono!?) i veri evasori, i tempi mi stanno dando ragione; infatti, da anni a questa parte, vengono giustamente ricercati e tartassati, direttamente e indirettamente, da uno Stato che cerca di far credere di doverlo a fin di bene, per il bene della collettività. Altri, porelli loro, nel tempo hanno imbracciato scudi vari o condoni dichiarati, facendo rientrare dalla porta quello che avevano fatto portare al di là della rete confinaria, ora addirittura momentaneamente osannati come salvatori della patria. Bancaria. Che, da una parte, fa il paio con i percettori nullatenenti del cosiddetto reddito di cittadinanza, che si sta rivelando manna a copertura di traffici illeciti e quanto mai redditizi).
Ovviamente avevo consigliato alla ragazza di lasciar perdere, di interrompere una relazione che le avrebbe portato solo guai e dispiaceri, "ché in famiglia avevamo già ampiamente dato e avuto".
Altrettanto ovviamente, lo aveva sposato.
Comunista fino al primo Berlinguer, non ne aveva accettato i papocchi, le convergenze parallele non le aveva capite, né tanto meno assimilate.
Era rimasto di sinistra, ma una sinistra strettamente personale, casereccia, semplice nei concetti, che piano piano era scivolata in una dichiarata contro-politica in generale, deluso e incazzato dagli sviluppi mai così schifosi della stessa.
In questo ampiamente supportato sia dalla moglie che da me. Senza immaginare quanto sarebbe peggiorata in seguito.
Cacciatore accanito, era uno dei nostri punti di disaccordo, archiviati nel tempo, visto che le sue posizioni e le mie non si smuovevano di un millimetro. Gli dicevo che avrei accettato lui cacciatore quando avessi visto la fauna armata di fucile, a rispondere per le rime ai suoi colpi.
Non cercavamo di convincerci a vicenda della giustezza delle proprie argomentazioni: la caccia, per lui, non era una fede ma una passione, e alla passione non si comanda.
In un bosco, lontano dagli occhi indiscreti dei guardiacaccia, si era fatto un capanno, ben mimetizzato e attrezzato in vista delle lunghe attese delle prede. In alto, tra i rami, aveva predisposto una trappola per uccelli; i tordi in particolare, forse per non smentire il loro essere, ci cascavano abbondanti.
Soprattutto questi portava a casa, a decine ogni volta. Sapendo che alla moglie non garbava molto il loro spiumamento e svisceramento, provvedeva lui, con la pazienza tipica degli impazienti per natura quando si incaponiscono in un servizio.
Stessa sorte e trattamento era riservato a lepri e ai rari conigli selvatici. Anche qui provvedeva di persona a scuoiarli e a pulirli delle interiora, per poi affidare alla moglie il tocco finale.
Questa era un'ottima cuoca, appassionata della cucina, quasi quanto lui lo era della caccia.
Altra sua passione erano le lumache. Nel piccolo giardino intorno alla casa aveva creato una specie di piccola serra, in cui le allevava. Quando erano 'mature' e in numero sufficiente le raccoglieva: sbavamento e pulizia erano sua competenza, eseguita con protocolli precisi, a livello maniacale.
Le faceva cucinare, ça va sans dire, alla parigina, con sughetti ricchi di spezie.
Dopo il matrimonio aveva, come si dice, messo la testa a posto.
Aveva trovato un posto come trasportatore per una grossa ditta di autoricambi al di là del confine e viaggiava con un furgone di qua e di là dai caselli confinari, alla luce del sole, in modo regolare e senza il rischio sparatorie alle terga, anzi salutato cordialmente dalle guardie al passo, come si salutano amici e colleghi lavoratori. Il passato in soffitta...
In realtà anche prima lo era, lavoratore, ma in modo anomalo, per lo meno dal punto di vista dei 'benpensanti'.
Il suo contrabbando si era ridotto alla stecca di sigarette o alla scatola di accendini, più che altro per consumo personale.
Nei suoi viaggi, quando le visite in una certa zona glielo consentivano, si fermava a pranzare nella stessa trattoria: pasti, bevande e conto accettabili.
Quella trattoria era molto frequentata da artisti emergenti, pittori con le saccocce vuote e la testa piena di sogni, non ancora inquinati da drogaggi vari, che in seguito hanno creato la convinzione che senza questi 'incentivi' l'arte non esiste.
L'unica loro droga era la fame dello stomaco, tipica dei giovani, e per placarla, in assenza di conquibus, lasciavano le loro opere in cambio dei pasti.
L'oste cercava di affibbiarle ai clienti 'facoltosi', intendendo per tali quelli che pagavano in contanti; el Paris di arte non s'intendeva, ma se i quadri gli piacevano li prendeva, pagandoli quattro soldi, e se li portava a casa.
Paesaggi, animali, nature morte: gli astratti o gli psichedelici lo lasciavano indifferente, non li sapeva leggere e non perdeva tempo a cercare di capirli. Era il suo modo per fare beneficenza.
Quando lo andavo a trovare, soffermarmi più di un attimo a guardare uno di questi quadri alla ricerca della firma, significava ritrovarmelo in macchina alla partenza.
Alcuni sono ancora appesi ai muri di casa mia.
Un paese piccolo, meno di 1500 anime, secondo me compresi conigli e galline, cani e gatti; sempre secondo me, ci contavano pure i cavalli delle autovetture, pur di dare maggior peso al plesso comunale.
Nonostante il minimal abitativo c'erano una bocciofila, un velo-club che 'istigava' i ragazzini a qualcosa di più verace che altre, purtroppo ben note, alternative, un alberghetto con annesso un piccolo ristorante, la farmacia, la chiesa parrocchiale, un'edicola, diversi bar.
La parrocchia era frequentata dalle beghine paesane, l'edicola assai meno; i maschi nessuna delle due, 'preghiere' (quelle dirette, senza intermediazioni, equamente divise tra tutti i santi e tutte le madonne) e scambio di notizie si svolgevano nei bar, visitati regolarmente. Erano tutti 'casa e bar', in una tradizione che si tramandava di padre in figlio.
El Paris era presente in tutte queste espressioni di vita paesana, escluse parrocchia ed edicola; a casa, se l'ora del rientro era quella giusta, qualche telegiornale per avere notizie da citare negli incontri serali con i compagni; 'compagni' che non sempre erano quelli storici di partito, anzi... lo si capiva dagli urli di contrasto che si riversavano nella piazzetta antistante il locale, che trattavano tutto lo scibile, dalla politica allo sport, ai pettegolezzi sul paese e soprattutto sulle paesane; con chi se la facesse di volta in volta il prete portava gli avventori molto prossimi alle botte... Si sa, le corna sono un valore aggiunto universale, e su queste non si deve mai scherzare troppo...
Sul ciclismo ci sbavava, fino a quando si era reso conto che non erano più le gambe e i polmoni a far risplendere alcuni campioni: prima, non c'era manifestazione che lo segnalasse come assente.
Ma anche qui, come per il comunismo vecchia maniera, le delusioni per distorsioni di fatti sportivi a favore di interventi giudiziari lo avevano ammosciato.
Era rimasta immutata la passione per i giovani virgulti, che tramite il velo-club continuava a seguire.
Non aveva 'fatto' il militare; mi è sembrato di capire che ci fosse una qualche norma di esenzione per i lavoratori frontalieri. A quanto pare anche il suo primo 'lavoro' rientrava nella lista. Sono informazioni di parte, forse non vere, ma non mi importavano né il perché né il percome avesse evitato la leva, che essendo allora obbligatoria (e perseguita manco si fosse stati in guerra) cozzava contro la visione della parolina 'libertà di scelta'.
Nonostante la mancanza sul bavero di mostrine, stellette, lasagne, fiammelle e quant'altro denota l'ex militarizzato, un'altra sua passione erano i raduni, in particolare degli alpini. Non ne condivideva gli ideali, anzi manco li conosceva, e se li avesse conosciuti non li avrebbe proprio 'cagati', come si dice a fil di terra: gli piaceva, invece, condividere i bottiglioni, i cinque litri e le damigiane, i fiumi di vino, caratteristica specifica di queste riunioni.
Notti all'addiaccio, un cappello con la penna nera racimolato, il 'sangue' delle bottiglie, i canti di montagna e le baldorie lo mandavano in solluchero, e si teneva sempre informato sui incontri successivi per far sì che ferie o giorni di riposo coincidessero con questi. Le distanze chilometriche non lo fermavano, col furgone della ditta arrivava dovunque.
La sera, al rientro dal lavoro (quello ultimo; prima del matrimonio la sera era mattino, poiché il suo orario di lavoro era sempre notturno, e la mattina diventava sera), prima di rientrare a casa faceva il giro delle 'cappelle', l'avevamo chiamata la sua 'via crucis': tutti, e non un generico 'tutti' ma veramente tutti, i bar della zona ricevevano il suo 'buona sera', e un bianchetto in ciascuno dei locali visitati era il viatico per arrivare al successivo, per portare poi la sua 'croce' fino a casa.
Mi sentivo con la moglie per telefono, lui regolarmente assente; da anni l'avevamo messa sul ridere: "el Paris?... tra poco dovrebbe rientrare, adesso sarà dal Carletto per chiudere il giro ...".
Altra passione: la grappa fatta in casa.
In cantina alambicchi e contenitori di rame. Una volta gliene era scoppiato uno, l'essersi salvato è la prova provata che esiste un dio grappino che protegge i suoi fedeli.
Faceva una grappa un po' grezza per i miei gusti, ma non potevo esimermi dall'assaggiarla quando li andavo a trovare. Come non potevo, essendo ospite, permettermi di criticarla. C'è stato un tempo che obbligavano a bere un olio che faceva schifo, e il rifiuto di berlo significava beccarsi fior di bastonate.
Ecco, la sua grappa, a confronto con quell'antica schifezza, era sorseggiabile.
Pochi mesi prima, portando la moglie in ospedale per una frattura al polso, dopo un po' di visite, si era fatto convincere da un medico a fare degli esami, per controllare che tutto l'ambaradan fosse a posto ed eventualmente intervenire se qualche bullone fosse risultato allentato o arrugginito.
Aveva frequentato gli ospedali solo per visite ad altri, la moglie, la madre, il figlio, i fratelli, qualche nipote; per sé li aveva sempre evitati. Diceva: è cosa ottima che ci siano, ma sono come i carabinieri (nel suo specifico i finanzieri, anche se di questi riteneva deleteria la presenza), utili, ma più ci stai lontano meglio è. Altra cosa su cui eravamo d'accordo.
Esami di routine: sangue e urine.
Avrebbero dovuto evidenziare eventuali anomalie nei trigliceridi, nel colesterolo, nella glicemia...
Evidentemente avevano invece segnalato altro, che aveva richiesto i raggi al torace. Che avevano portato ad altri esami mirati più mirati...
Tumore al polmone.
Ormai metastasizzato, con estensione linfatica a entrambi i lobi.
Ho parlato prima della convinzione dell'esistenza di un dio grappino; altrettanta convinzione esprimo per l'assenza di un dio ippocrate, che aiutasse le scelte dei medici quando devono comunicare una diagnosi infausta, tanto più quando questa più che diagnosi è sentenza.
Il primario lo aveva portato in camera caritatis e gli aveva detto, papale papale:
a) tumore non operabile,
b) non opportune chemio o radio-terapie che avrebbero debilitato l'organismo accelerandone la decomposizione,
c) che tirasse a campare per quanto possibile.
La 'cura' era poi proseguita con placebo, presentati come nuovi farmaci sperimentali che, forse, avrebbero potuto ritardare il suo commiato da questa terra. E antidolorifici in quantità industriale.
Credo che ai medici, in generale, sarebbe utile una passatina di medicina veterinaria nel corso degli studi. O almeno un ripasso a velo di psicologia veterinaria. Infatti non risulta che i medici veterinari diano direttamente ai loro pazienti gli esiti degli esami, meno ancora quando questi sono infausti. Nei loro protocolli è previsto che li comunichino esclusivamente ai loro parenti umani, di solito acquisiti o adottanti. Mi pare che uno solo, o comunque pochi altri, nel corso dei secoli, 'parlassero' direttamente agli animali e questi, si dice, comprendessero, forse addirittura rispondendo a richiami o richieste specifiche. Era un certo Francesco, di Assisi in terra umbra. Si dice parlasse agli animali, ma anche alle bestie umane; i primi lo sentivano e lo capivano, le bestie umane lo sentivano ma non lo capivano. E Francesco, che io sappia, non era un veterinario.
Poi, vabbé, risulta un Adriano che parlava ai corvi, un Terence che zufolava ai delfini e un Bud che dialogava coi gabbiani... ma erano chiaramente ventriloqui; anche se un corvo e un gabbiano nello stomaco umano potrebbero anche starci, ma un delfino...
Ci fu anche Francis, mulo parlante... che, per essere ventriloquo avrebbe dovuto avere un uomo al suo interno; il che è meno credibile, visto un mulo non è un pitone, un boa o un coccodrillo, forse era proprio un mulo 'studiato' che parlava...
Ci sono medici, meglio se primari, che nel controcanto risultano essere più bestie dei pazienti animali dei veterinari.
Questo era stato il caso del Paris..
El Paris fumava quasi come il classico turco; credo fosse nato con la sigaretta tra le labbra, ci aveva convissuto tutta la vita e con la sigaretta si avviava a morire.
Aveva imposto alla moglie, durante il suo primo ricovero, di portargli non frutta o, peggio, preghiere, ma pacchetti di sigarette, che poi si sciroppava di nascosto, in bagno o nelle ore d'aria in giardino. E lei non poteva rifiutargliele, sarebbe stato come negare la fatidica ultima sigaretta al condannato a una pena capitale. Anche la mitica telefonata che allungava la vita di Lopez, nel suo caso non avrebbe avuto successo.
E fumava, da sempre, le Parisienne, pacchetto giallo, che non sono proprio nebbiolina di primavera; credo che il paragone potrebbe essere fatto con il tubo di scappamento di un diesel col particolato grezzo, insaporito con nerofumo.
La notizia era stata data a un colosso, ignorando la possibilità che avesse i piedi d'argilla.
Non più tardi del giorno dopo mi ero sentito con lui, e avevo avuto l'impressione di un discreto assorbimento della notizia, con una vaga punta di fatalismo:
"Te volet... l'è inscì... l'è la vida... anca i me fradei sun mort par chel mal lì...".
Aveva tenuto su questa linea per una quindicina di giorni.
Poi il vento era cambiato.
"Go a cà el fusil... 'na bota e bon... tuc finì...".
Avevo raccomandato alla moglie di chiudere l'armadio dei fucili e nasconderne la chiave.
Non potevo e non sapevo fare altro.
Pagherei non so cosa per sapere cosa dire a una persona che sta per morire, non potendo fare nulla per ritardare l'evento.
Non potrò mai sapere 'quanto' un'informazione così cruda abbia influito nell'abbreviare il suo viaggio, ma sono certo che ha avuto un peso non indifferente.
Aveva smesso di mangiare, fargli ingoiare un po' di minestrina era una battaglia, se ne stava giornate intere sdraiato sul divano, gli occhi al soffitto, fingendo di dormire; fingendo, neanche troppo, di pensare.
Chiedersi 'a cosa' sarebbe pleonastico...
Aveva cessato la via crucis dei bar e l'aveva trasferita in casa.
Ai primi di novembre, la moglie, nel nostro sentirci telefonico ormai quotidiano, si era fatta sfuggire che solo l'ossigeno gli dava ancora un filo di vita.
Non speranza di ...
A metà dello stesso mese, era andato a letto, non più per dormire.
Era el Paris, mio cognato, marito di mia sorella.
Che poco più di un anno dopo l'ha seguito, verso quel mondo in(de)finito che tanto ci terrorizza e altrettanto ci affascina.
:-( letto in punta di piedi
RispondiEliminaÈ un po' lunghetto, e d'altra parte essendo il racconto di una vita (spericolata) non potevo essere conciso. Era una bella sagoma, detto nel senso che più positivo non si può,
EliminaGrazie e ciao.
Adelante Pedrito. Siempre! Cari saluti a tutti.
RispondiEliminaHasta la vista, Roger, y gracias por su atenciòn.
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