giovedì 25 agosto 2022

Dialogo amichevole dal web

Tutto ha avuto inizio da questa battuta, leggermente ambigua, che ha suscitato la reazione di due individui, in uno scambio di pareri tra... amici. Pensa fossero stati nemici...
Personaggi: Radames, Barbra, Amministratore del sito. Nomi di fantasia, a parte l'Amministratore che è il vero amministratore.
Il riferimento del post iniziale è la pubblicazione da parte di un affatto ignoto personaggio pubblico, che sul proprio sito aveva pubblicato il video di uno stupro, ripreso a sua volta da un quotidiano nazionale che lo aveva pubblicato come scoop. Doverosamente pixelato, peraltro malamente, visto che i protagonisti risultavano facilmente identificabili.
Lo pubblico, a dimostrazione che un dialogo pacato, quando c'è la buona volontà, è possibile. Quanto auspicabile, non saprei...
A parte i nomi dei protagonisti, non ho cambiato una sola virgola del dialogo.


Inizio del dialogo, con un commento, altrettanto mefistofelico del post di apertura.

Radames: chi ha stuprato la Meloni?

A stretto giro di posta:

Barbra: Battuta di mer@a da pidiota incallito si può dire? La Meloni è una donna. Il dileggio per certe idee politiche è dovuto ma queste porcate anche no. Meno male che questa dovrebbe essere una pagina di satira.

Radames: È una pagina di satira, dipende da come viene letta. E uno pignolo e in malafede riuscirebbe a leggere malizia anche in quel 'letta', testé citato come verbo. Se proprio vuoi, tutte le battute riguardanti la politica, oggi come ieri, possono essere viste (contenta?) come battute di guano (senza bisogno di chiocciola), poiché tutta non merita altro. Oggi più di ieri. Per cui, entrando in un gruppo che delle battute di guano fa tesoro, o si accettano o si evita di entrarci. Questo senza esserne Autore... Ospite, come ospite sei tu, credo. Al limite, visto che questa battuta è mia, più innocente di quanto tu l'hai pesata, manda direttamente me affa, e lascia stare la pagina che, tra tutte quelle che imperversano il web, è una delle poche che dell'ironia ha fatto veramente virtù. Hola.

Amministratore: Grazie.

Barbra, destinato all'Amministratore: Ma di cosa ringrazi? Quando dico che questa dovrebbe essere una pagina di satira mi riferisco anche a chi commenta. O, In questo caso, sproloquia. Veramente l'odio politico vi acceca. E adesso si che vi mando, uno per aver lasciato passare un commento ignobile come quello, due per non aver neanche capito la mia risposta. . Evidentemente anche per voi lo stupro è satira. Non ci siamo proprio.

Barbra, diretto a Radames: Si risparmi il pippone. Io come ospite non mi sono mai permessa di offendere, nemmeno trasversalmente, nessuno. La satira vera è anche eleganza, anche se crudele. La sua NON È SATIRA. Non si fa satira sullo stupro. MAI. Alle volte sarebbe più intelligente scrivere si è vero ho scritto una porcheria. Mi scuso. E invece no. Si cerca di giustificarlo il guano e si corre pure da mamma' per essere difesi. Un figurone.

Radames: Con nessuna speranza, provo a farti leggere meglio il mio commento ignobile.
"Chi ha stuprato la Meloni?" ha due chiavi di lettura: la prima sembra indicare la Meloni vittima di uno stupro. E tu, giustamente, mi ricordi che trattasi di una donna; agratisi, forte di questa constatazione, mi hai dato del pidiota. Tranquilla, non ti querelo.
La seconda chiave di lettura era che la Meloni avesse stuprato alcuno. Assurdo, essendo donna chi mai potrebbe stuprare. Bene, per semplificare ti metterei un'immagine, tratta da altro benemerito sito, che spiega come sia possibile stuprare qualcuno pur essendo donna. Immagine che peraltro non riesco a immettere.
Comunque, cerco di spiegartelo con un italiano zoppo, ma comprensibile: nel momento che si usa, nel proprio sito, un filmato in cui una donna (straniera, bianca) viene stuprata da un uomo (straniero, nero), usandolo a sostegno di una lotta senza quartiere verso stranieri invasori, tu diventi una giustiziera delle Ande. Nel momento che la vera stuprata viene riconosciuta, nonostante il velo apposto alle immagini, questa si sente stuprata una seconda volta. Vista la vastità del diffuso, migliaia di volte.
Ed ecco che risulta che è la Meloni ad avere stuprato, non lei ad esserlo stata.
L'ho detto come incipit e lo ripeto: non ho la minima fiducia che tu abbia focalizzato il senso di questa parte di post, anzi sono convinto che da questo trarrai altro veleno e offese da sputare. Quanto al pidiota gratuito: nella cloaca elettorale che stiamo vivendo nostro malgrado, non esistono pidioti, leghioti o stellioti o forzioti o altro: siamo ormai ridotti ad apparire, ed essere, totalmente e irrimediabilmente italidioti. Tutti, almeno fino a che accettiamo supinamente che un branco di persone che si spacciano per politici ci intontiscano di promesse immantenibili sul nascere.
Stammi bene, buona giornata e, almeno in questo dammi retta, pensa alla salute, che a dire cazzate ci sono io e altri, che le diciamo solo per ridere un po', cercando per quanto possibile di non offendere o turbare sensibilità che meriterebbero ben altra applicazione.

Ancora Radames: Dia uno sguardo ai giornali del mattino, quelli che non fanno satira sullo stupro. Apprenderà che sullo stupro non si fa satira, ma politica si può fare; non sempre impunemente, a quanto pare. A noi: pidiota è un complimento? Per curiosità: dicendo mamma' a chi si riferisce? Definire merda (con chiocciola) un commento, prima ancora di averlo interpretato e commentare di conseguenza, per lei è satira elegante?

Barbra: Giornali? Abbiamo giornali in Italia? Sono quelli la sua fonte d'ispirazione? La politica, che in Italia è una mer@a, fa politica anche sul filmato di un assassino che uccide un africano. Pidiota non è un insulto, egregio, è piuttosto identificativo di uno stile di vita ispirato al noto partito. Non hai idee? Limitati a scrivere schifezze. Lei ha scritto una schifezza. Senza se e senza ma. Punto. Ora la saluto. Non credo la mia presenza sia oltremodo gradita in questa pagina di satira ad altissimo livello.

Radames: Mi butterò a capofitto dal marciapiede. Con la speranza che l'Amministratore non mi chieda un risarcimento per sì grave perdita.
Vorrei solo che, prima di uscire, mi spiegasse il senso della frase: "La politica, che in Italia è una mer@a, fa politica anche sul filmato di un assassino che uccide un africano".
Ecco, la politica di mer@a fa politica anche sul filmato di una donna stuprata, meglio se stuprata da uno stupratore nero. E la donna stuprata, anziché ringraziare la politica di mer@a, la inguaia segnalando il fatto alle autorità. Deduco che lei, tra gli insulti, in fondo la pensa come me. Vado al fiume a versare le mie lacrime, con la speranza di aumentarne la portata, visto che è a secco... quasi come la mente di chi ragiona accecato dal fanatismo di parte. Ovviamente non alludo a lei, che le idee le ha talmente chiare che accecherebbero un cieco assoluto. Amen.















domenica 21 agosto 2022

Un giorno qualunque al mare

L'anno prima di sposarci ero salito (acchianato, nel dialetto indigeno) al paese per conoscere i genitori di quella che sarebbe poi diventata (c'era ancora un 'forse', ma era solo un cavillo) mia moglie. 
I "suoceri": non so perché suoceri è un termine che non mi è mai piaciuto. 
"Papà - mamma": questi non li avevo mai usati, mi era stata negata l'occasione di impararli, e a quel tempo, prima e dopo il matrimonio, non avevo più l'età per esprimerli; mi sarebbe sembrato un falso ideologico, una forzatura, un appropriarmi di qualcosa che non mi apparteneva.
Così lui, il suocero, era il boss, e lei, la suocera, la bossa, per immediata assonanza. Sono stati tali fino alla loro morte e successivamente, tanto che, sia per mia moglie che per la sorella, non erano più mamma e papà, ma il boss e la bossa

A ogni santa, benedetta, estate lasciavamo la lontana città, nostra sede, per passare una ventina di giorni con il boss e con tutta la famiglia. E il mare... 
Per godere di quest'ultimo si doveva pagare un pedaggio, anzi una penale: ed era il viaggio di scesa e successiva risalita dal paese che ci ospitava. In linea d'aria era a un tir di schioppo, su strada un percorso che non finiva mai; sterrato, in salita o in discesa le curve erano le stesse, e le buche pure.
Da qui, ogni volta che decidevamo di scendere a mare, lo facevamo con la stessa orgogliosa baldanza che aveva consegnato alla Storia, quasi cento anni prima, un esercito perdente. 
Per andare al mare dovevamo scendere a valle, lasciare la macchina di qua dalla ferrovia, e per arrivare alla spiaggia dovevamo attraversare campi coltivati, perloppiù a vigna, con qua e là alberi da frutto a interromperne la monotonia. Casotti costruiti con assi piantate nel terreno, con tetti di pezzi di lamiera sovrapposti uno all'altro. All'interno una tanica semipiena d'acqua, una fiaschetta di vino acquattata sotto una panchetta, e attrezzi da lavoro. Attrezzi che erano poi pale, zappe, talvolta forbici da pota; qualche straccio, sporco di terra raccolta da mani sudate.
Per andare alla conquista di uno spicchio di spiaggia dovevamo attraversare questa giungla, rubacchiando qua un fico, là una mela, più in là una prugna. Lo spicchio di spiaggia era in realtà un deserto, che il Sahara gli faceva un baffo; neanche un cane, come si dice, a contenderci il territorio. In lontananza qualche barca tirata in secca, lontane da eventuali incursioni marine.
Andavamo subito a tastare il mare, con l'alluce sacrificato a rilevare se e quanto fosse gelido. Il silenzio era rotto dallo sciabordio delle piccole onde che amoreggiavano con la rena; nei momenti mistici, tendendo l'orecchio, si sarebbe sentito il parlottio confuso delle centinaia di pesciolini che si spingevano tra loro per spiare, piccoli guardoni depravati, quell'amplesso anomalo.

Non eravamo turisti spendaccioni, eravamo ospiti, e come tali eravamo tenuti al rispetto delle regole del convento che ci ospitava. Una di queste era il rientro per l'ora di pranzo, che oscillava tra le tredici e le tredici. Il boss ci teneva e noi non avevamo motivi per deluderlo. Avevamo sempre rispettato quell'ordine, mai proferito apertamente ma altrettanto chiaramente sottinteso.
Lo avevamo rispettato quasi sempre; anzi, solo una volta, che io ricordi, avevamo sgarrato.

Era un giorno qualunque, di un'estate qualunque, di un anno qualunque, di un primi anni '70 qualunque.
Eravamo scesi con la solita baldanza verso il mare, avevamo lasciato la macchina al solito posto, avevamo traversato la piantagione d'uva, ed eravamo approdati al nostro deserto. Eravamo sportivi: niente ombrellone, niente sdraio o, peggio, lettini. Io in calzoncino/costume, lei in costume a due pezzi; l'asciugamano da spiaggia, io sulla spalla, lei annodato in vita; ai piedi zoccoli di legno a salvataggio dalla sabbia bollente.
Guardando verso il mare, eravamo poche centinaia di metri a sud del fiume che separa le due Regioni.
Fatto il primo bagno, preso il primo sole, avevamo fatto la bella pensata di fare una camminata verso il fiume, per andare a vedere l'ignoto che l'oltre poteva offrire. 
Questo scorreva, placido e lento, lasciando intravvedere i sassi del suo greto, ammiccanti l'invito a traversarlo. E traversammo, evitando di metter piede sui sassi più grossi e scivolosi. 
Le sponde erano sassose, e facevano cornice alla spiaggia sabbiosa che non differiva da quella lasciata. Alla fine di questa non c'erano coltivazioni ma una fitta boscaglia, con qualche albero selvatico a completare il quadro bucolico.
Non c'era un'anima viva, e le eventuali anime morte erano forse nascoste tra i rovi.
Non avevamo l'abitudine alla trasgressione, ma quella mattina ci eravamo sentiti soli all'interno di un piccolo grande paradiso. Un Eden... e noi ci eravamo sentiti l'Adamo e l'Eva del ventesimo secolo. Ci eravamo liberati dei pochi indumenti e ci eravamo buttati in acqua con l'intenzione di fare una bella nuotata e tornare a riva ad asciugarci.

Ma avevamo dimenticato di essere due fiammiferi: lei un cerino, quello che basta una grattatina su una leggera carta vetro per appicciarsi a fiamma viva; io uno svedese...
No, stop, ferma la ripresa: niente capelli biondi, occhi azzurri, pelle lattea, sull'altezza meglio sorvolare... gli svedesi erano (forse ancora sono) quei fiammiferi con la testa un po' più grande di quella  dei cerini, la cui base sono dei bastoncini piatti di legno. Non serve carta vetro per accenderli, basta una carezza e sono subito fiamma.
Così in acqua avevamo fatto quello che l'Adamo ed Eva originali si dice abbiano fatto dopo avere scoperto che la nudità dà sensazioni più profonde della semplice contemplazione del creato. Il fatto che ancora stiamo pagando quella prima scoperta è irrilevante...
Eravamo usciti dall'acqua pienamente satolli ed avevamo raggiunto gli indumenti, abbandonati sui sassi della riva. Con questi avevamo trovato un tappeto di forbicine, quelle bestiole con la coda a forbice, da cui il nome.

Raccontare il terrore di mia moglie è impossibile. Salti, urli, pianti isterici... che forse avrebbero meritato maggior comprensione da parte mia.
Il fatto è che quegli animaletti mi avevano riportato indietro nel tempo, quando in colonia li catturavamo facendo a gara a farsi mordicchiare: riuscire a farle restare appese al dito o all'unghia dava un punteggio in vista di ipotetiche esibizioni in altrettanto ipotetici circhi.

Non era finita. Allontanatici da quel tappetino, ci stavamo preparando a riguadare il fiume e prepararci al rientro, che già l'ora di pranzo si stava avvicinando.
Era l'ora, forse intorno a mezzogiorno, che la centrale elettrica apriva le paratie per lo scarico delle acque della diga a monte. 
E noi non lo sapevamo. 
Avevamo sentito una specie di tuono proveniente dal monte e il fiume in un amen si era trasformato in un torrente impetuoso, aveva ricoperto le sue sponde, precipitando verso mare con una violenza che metteva paura. 
Altro che forbicine... che, forse, avevano percepito prima di noi quel pericolo ed erano in fuga di massa per salvarsi.

Passato il primo sgomento (perifrasi di fifa folle), era sorto il problema del ritorno all'altra sponda e successivo rientro a casa, meglio se per l'ora di pranzo.
Il fiume battagliava per conquistare una fetta del territorio marino, il mare si opponeva con la possanza della sua cubatura. Lo scontro tra i due colossi aveva portato alla formazione di una cresta sabbiosa, in un ampio semicerchio che si concludeva quando la forza del fiume scemava finendo per amalgamarsi dolcemente con l'acqua del mare. Quasi uno sponsale tra l'acqua dolce e quella salata marina.
Avevo valutato la possibilità di 'camminare' su quella cresta di sabbia, contando sul fatto che le due forze, del fiume e del mare, contrastanti fra loro mi avrebbero sorretto nel cammino, rendendolo poco più che una passeggiata. Avevo fatto affidamento su quella legge fisica che dice che due forze uguali e contrarie si annullano dando l'idea di una certa stabilità di movimento.
Ed ero talmente fiducioso (perifrasi di imbranato, ma anche di imbecille) che mi ero avviato in acqua con gli zoccoli ai piedi, per non sciuparne le piante da lattante.
Pochi metri era durata la passeggiata su sabbia ferma, con il supporto vocale della moglie che mi incitava... a tornare indietro, poi il novello Mosè era stato scaraventato verso il largo, lasciando gli zoccoli a imperituro ricordo della sua meccanica sballata.
Ero andato più al largo affrontando il mare aperto e facendo una nuotata che mai più avrei fatto.
Approdato alla riva opposta non avevo baciato il suolo poiché, boccheggiante com'ero, avrei aspirato mezza spiaggia. E di là dal fiume la moglie continuava a gridare...
Dopo tanta avventura, avevo avuto un po' di fortuna. C'era un uomo ai bordi del vigneto che sicuramente si chiedeva da dove fosse sbucato questo naufrago, a piedi scalzi e col fiato così corto. Gli avevo spiegato, più a cenni che a voce, quanto successo, e il brav'uomo si era offerto di andare con la barca a recuperare la mezza mela lasciata in balia delle forbicine.
Ci avevo pensato dopo: aveva voluto che andassi con lui, forse per indicargli con precisione la persona da salvare... ma c'era solo una poverella in chilometri di spiaggia vuota; che gridava tanto da non poter essere ignorata. Forse mi aveva preso in ostaggio. Mah, pensieri del giorno dopo...
Lo avevo ringraziato senza neanche chiedere come si chiamasse. Al terrore delle forbicine e del fiume in piena si stava sovrapponendo quello per l'incontro prossimo col boss, che tra tutti i guai passati era quello che temevamo di più.

Io scalzo, lei ancora in crisi di pianto, avevamo recuperato la macchina e ci eravami avviati all'acchianata al paese, pronti a subire le nerbate del boss, visto che si erano fatte le due passate e che non avevamo neanche avvisato... Noi sapevamo di non averlo potuto fare, ma lui lo avrebbe saputo solo dopo averci scannato.
Infatti era alterato (perifrasi di incazzato nero), ma era un'alterazione dovuta alla preoccupazione, accentuata dalle lacrime disperate della bossa. E non ci aveva messo molto a riporre l'ira nel cassetto.
Mi ha sempre divertito il pensiero che non fosse tanto il fatto di avere, caso mai, perso la figlia (ne avevano un'altra, e col tempo si sarebbero consolati; si sa, chi vive si consola prima di chi muore) ad averli messi in ambasce, quanto quello, sempre caso mai, di avere perso me che, detto tra noi, avevo il merito di aver portato lontano una ragazza difficilotta, quasi scapestrata, a tratti isterica... come dimostrato nell'episodio. Per quanto ho capito negli anni successivi, lui era felice che lei stesse bene, ancora più felice che stesse bene ma lontano.
È chiaro che questo pensiero l'ho tenuto sempre per me: non ho molti affetti, e la mia giugulare è tra quei pochi. 

venerdì 19 agosto 2022

Tanti auguri... o quando non li fai

Gli auguri, si sa, fanno sempre piacere. Le Feste, quelle che nei calendari sono segnalate col cambio di colore, sono occasione di scambio, tra parenti amici conoscenti, di auguri generalizzati. Che non sempre richiedono una risposta.
I compleanni e gli onomastici, ma più i primi, chiedono gli auguri, in alcuni casi li pretendono. E, se non arrivano, si è a rischio di fatwa, inviata a chi non adempie a quello che dovrebbe essere un piacere, ma viene ritenuto un dovere.
Sui social, in particolare su Facebook, impazza l'usanza di postare auguri per ogni giorno della settimana e per ogni periodo del giorno: si inizia con il buongiorno, seguito dal buon pomeriggio, eppoi buona sera e buona notte, sogni d'oro. E ci sono i fanatici che ad ogni augurio rispondono con like appropriati: baci, abbracci, ricambio... di solito non seguito da "a te e famiglia" che saprebbe di burocratico.
Sul social citato, i partecipanti hanno un profilo che, teoricamente, dà informazioni sul titolare. Più che altro si tratta di tentativi di avere notizie da parte dell'interessato, in barba all'ormai onnipresente diritto alla privacy  che compare in ogni transazione, dalle bollette ai contratti più diversi.
Luogo di nascita, studi, titoli di studio, rapporti sentimentali, preferenze (musicali, di lettura, di film...).
Solitamente su queste informazioni i naviganti glissano, e finiscono in "non segnalato" a ogni voce richiesta.
Solo le date di nascita hanno, ma non sempre e non in tutti i profili, una risposta.
L'unica che sfugge alla legge sulla privacy, che non necessita della riservatezza riservata alle altre informazioni.
Facebook la memorizza e puntualmente il giorno genetliaco del partecipante pubblica l'avviso del felice evento; avviso destinato a chi, una volta o sempre, dialoga col festeggiato, per qualsivoglia motivo.
E questo provoca videate di auguri, decine e decine di "tanti auguri" sovente supportati da immagini, fisse o mobili, che sono complimenti al personaggio, alla sua età, alle sue bravure...
Una cosa umanamente accettabile, ma che a me non piace.
Personalmente non ho bisogno che da una nuvola mi si ricordi la cadenza della festa di persone che apprezzo, che mi sono amiche fuori dai social: di queste ho le date segnate in un'apposita agenda, e non succede che possa dimenticare di mandare la mia vicinanza alle cose belle... e a quelle brutte; già, perché al sollecito degli auguri via web corrisponde quello per disagi, guai, malattie o peggio.
La ricerca spasmodica di consenso e partecipazione da parte di persone sconosciute a qualunque evento possa suscitare e sollecitare un like, 'mi piace', che sia di festa o di cordoglio, la trovo deprimente.
Cielo, i gusti sono gusti e il fatto che a me la cosa non vada a genio, giustamente, lascia il tempo che trova.
Mi sembra la richiesta dell'elemosina di un augurio da parte di persone che non la darebbero a un poveretto che fuori da un supermercato chiede qualche centesimo, magari per mangiare.
Ah, sì, è vero... gli auguri via web costano nulla e fanno felice chi li ottiene.
Succede che, soprattutto al compleanno, non mi siano mandati gli auguri da persone a cui io non manco di mandarli. Me ne frega una cippa... tanto, purtroppo o per fortuna, gli anni avanzano, bene o male, anche senza quelli. 
Né mi prendo la briga di rinfacciare, come fosse lo sgarbo di un fedifrago, il mancato invio.

Una treina d'anni fa, in occasione del compleanno di un antico collega, avevo visto su Facebook il pro memoria per i distratti. Che aveva suscitato, ovviamente, una caterva di auguri. Non mi ero unito al coro, poiché ritenevo di avergli mandato la mia partecipazione sul cellulare, via whatsapp, il servizio di messaggistica veloce ed economica.
Un paio di giorni dopo, sul sito aveva scritto un messaggio che era una vera e propria fatwa verso chi non era stato partecipe di questa sua festa. Aveva ringraziato sentitamente per gli auguri coloro che (spontaneamente) glieli avevano mandati, e fin qui era tutto, come minimo, doveroso. Aveva poi aggiunto, in chiusa, di sapere chi non aveva aderito al suo messaggio e che, quanto prima, avrebbe sistemato il conto. Con termini diversi, ma il senso era chiaramente quello.
L'antico, neanche tanto velato, "me la lego al dito".
In un primo momento avevo ritenuto di essere in regola con l'abbonamento e, sul cellulare, lo avevo richiamato di brutto, dicendogli che i motivi per non avere adempiuto a quello che lui dava come obbligo, potevano essere molteplici. Era la difesa d'ufficio dell'ignoto malpagante.
Aveva risposto, sinteticamente: "Poi ti spiego...".
Per mettermi l'animo in pace avevo controllato i messaggi inviati e... non risultavano auguri. Avevo provveduto, imputando alla disattenzione la gravissima mancanza. 
L'ignoto, o uno degli ignoti, ero io. Ma il fatto mi aveva rattristato, e non poco. Non per i miei (pur colpevoli) mancati auguri, ma per una improntitudine che mi aveva basito.  
Spiegazioni non ne ho poi avute, ma il karma ha fatto il suo corso. Non essendoci la mia data di nascita sul social, per due anni, e presto sarà il terzo, non ho ricevuto i suoi auguri.
Sono sopravvissuto... e continuo a non partecipare, per partito preso, alle varie chiamate ad auguri lanciate sul web: non voglio essere pecora che bela a richiesta. 

La vicenda si è ripetuta di recente, credo sia un vizietto comune, con un navigante, che ha ottenuto una discreta visibilità proprio grazie a Facebook. Era il suo compleanno e poiché non rientra nella categoria degli amici o conoscenti stretti dei quali, come detto, ho un segnadate apposito, ho ignorato volutamente l'invito alla formulazione degli auguri.
Giorni dopo, pronta la fatwa:

"Mi è d'obbligo una riflessione, siete stati in tanti ad onorarmi di un pensiero, e la cosa onestamente mi riempie di gioia. A tot anni posso dire di aver compreso che, i miei vizi superano in numero ed in tenacia le mie virtù, ma ho fatto pace con me stesso ed ho accettato questa condizione. Come posso dire di essere un profondo conoscitore dell'animo umano e come ogni mia previsione, tutto si è compiuto, sapevo chi avrebbe scritto, chi avrebbe chiamato, chi avrei visto e chi non avrei visto... e voglio ringraziare tutti gli artefici di questo grande quadro, perché ognuno a modo suo, mi ha dato conferma nel bene o nel male di ciò che già immaginavo essere. Grazie a tutti, per tutto come per niente, ma grazie!".

Ho messo tot agli anni (nell'originale del messaggio erano espressi), che dicono di una persona piuttosto giovane, e il pensiero che abbia potuto esprimere questa acidità mi lascia perplesso, ancorché indifferente, in vista di una maturità che gli riserverà ben altre sorprese.
Non sempre piacevoli come gli auguri 'estorti' a suon di like.
Commosso fino all'osso, so di essere tra i destinatari del messaggio, magari non privilegiato, ma se dicessi che la cosa mi angustia, mentirei.

venerdì 12 agosto 2022

I miei stupidi intenti

I miei stupidi intenti, di Bernardo Zannoni, edito da Sellerio, è un racconto che vede come protagonisti una vecchia volpe e una giovane faina. 
Della volpe, Solomon, si riesce a sapere qualcosa cammin facendo, strappando a morsi le informazioni su quella che fu. Della faina, Archy, sappiamo tutto fin dalla nascita; l'immagine in copertina chiarisce da subito che lei sarà la primadonna del racconto.
Primadonna solo perché non esiste il termine primuomo per indicare un attore maschio. Infatti entrambi sono animali maschi; maschiaccio la volpe, maschietto la faina, nel rispetto delle misure fisiche e psichiche dei due. Intorno a loro ruota una fauna variegata che si ritaglia un proprio posto nel racconto, e che occupa archi di tempo sufficienti a lasciare l'impronta definita del suo passaggio. 
C'è anche una breve presenza umana, che si risolve in un lampo, e non lampo per modo di dire: altolàchivalà! e sparo; nella migliore tradizione dell'agire dell'Uomo.
L'intento dell'Autore, affatto stupido, è quello di umanizzare gli animali della storia, con gli stessi sentimenti e le stesse problematiche degli esseri umani tradizionali.
Tutti gli animali del racconto rispettano i canoni di tutte le favole, che li fanno parlare, soffrire, godere, piangere, ridere; racconta di crudeltà innate e sentimenti delicati che, per le prime, hanno quasi la stessa natura di quelle umane, mentre i secondi, in queste, vanno scemando, destinati a scomparire nel prosieguo di un imbarbarimento progressivo irreversibile.
Ma Solomon prima e Archy in seguito, sanno leggere e scrivere, ed è una loro prerogativa unica. E queste qualità prevedono la presenza di un qualcosa da leggere, di un qualcosa da scrivere.
È infatti un libro il principale oggetto del desiderio, quello che è mastice di tutto il racconto: per la cui conquista i due protagonisti litigano, si azzuffano, si odiano e si amano; rischiando pure la pelle per difendere quelle pagine che dicono cose che nessun altro animale conosce. 
In quel libro è immanente la presenza di Dio; non di un dio, ma proprio del Dio degli esseri umani, quello che fa e disfa a suo piacimento, quello che decide le vite e le morti di tutto l'universo. Ed è la sua ricerca che porta i nostri eroi all'umanizzazione più spinta, con reazioni che comportano quelle che, viste dall'ottica umana, sarebbero imprecazioni o vere e proprie bestemmie, ma che proferite da loro appaiono come invocazioni rivolte direttamente a quel Dio che non conoscono. Preghiere diversamente espresse, alle quali, come nelle migliori tradizioni, non ottengono risposta.
Tutta la storia è godibile già se limitata al solo gusto della lettura, ma quello che attizza è proprio questo inserimento nel racconto dei due elementi che lo caratterizzano: il libro come oggetto prezioso, e Dio, presenza assente, che vuole essere costantemente attenzionato, senza mai esporsi o dare risposte.

La convenienza del dìvide et ìmpera

Il 'dividere per vincere' risale, per quanto ne so, alla storia romana, all'episodio della lotta tra Orazi e Curiazi, raccontataci fin dalle elementari, a da noi tenuta viva sui campi di battaglia calcistica. Che era la più vicina al nostro quotidiano, assai più degli Scevola, dei Regolo e dei cavalli senatori. Le Poppee, le Agrippine e le Cleopatre erano fuori dalla nostra portata immaginifica: sì, sapevamo che erano donne, come lo erano tutte le Madonne che veneravamo... e poi?

La Storia d'Italia è l'esempio più lampante di quanto sia stato utile dividere in piccoli staterelli lo Stivale per tenerlo sotto i vari predomini, succedutisi nei secoli. Poi venne l'unità (minuscolo per non confonderla con una testata giornalistica, a suo tempo gloriosa) che ufficialmente estromise i potenti che fino ad allora l'avevano dominata, per accettare una sottomissione a un potere centrale che, proprio per mantenere questo, ha sminuzzato i territori solleticandone i campanilismi ancestrali in modo da controllare meglio un popolo che il federalismo lo vede ancora come era visto nel Medioevo. Cioè abbondantemente malvisto.

E vennero le Regioni, le Province, i Comuni... e poi i Comitati di quartiere. Ognuno di questi settori ha provveduto nel tempo a creare una propria isola di potere, con relativi palazzi che sovente, soprattutto in alcune Regioni, superano in grandiosità le pur maestose cattedrali, vanto della Santa Romana Chiesa, che a suo tempo aveva contribuito all'unificazione nazionale, purché sotto il suo tallone.

Oggi ci sono alcune Regioni che, come logica, non avrebbero motivo di essere tali. Per numero totale di abitanti e per estensione territoriale. Ma ogni tentativo di accorpamento va a sbattere contro tutta una serie di ostacoli, artatamente burocratici, per evitare operazioni che sarebbero utili per ridurre costi e costi e ancora costi, sopportati dai cittadini popolo per sostenere apparati e burocrazie residuo di antichi e obsoleti  ducati. Popolini tra l'altro felici di avere un minigoverno che credono operi per il loro esclusivo benessere.

Si era parlato di eliminare le Province... e per attuare la loro cancellazione furono raddoppiate. Creando, è vero, posti di lavoro e palazzi ad hoc, e uffici e parchi macchine (blu, come i nostri cieli), e gruppi di potere, i cui presidenti e consiglieri, una volta insediati devono (per legge?) essere definiti onorevoli; e, perlomeno come titolo, possono fregiarsi di quel titolo a vita. In alcune Regioni quei presidenti amano essere definiti Governatori, e gli onorevoli di cui si circondano più che consiglieri si presentano come consigliori.

I Comuni: in tempi di vacche grasse si sono moltiplicati, più assai dei mitologici pani e pesci: ogni piccolo agglomerato di case, talvolta di cascine, ha voluto diventare comunità conosciuta e riconosciuta a livello nazionale. E ogni nuovo 'staterello' ha avuto diritto al suo prìncipe e, come ogni prìncipe che si rispetti, alla sua piccola corte. Questi, in un tempo lontano, veniva scelto tra i meglio della comunità. L'eletto indossava il suo ermellino virtuale e si metteva al servizio dei concittadini, talvolta rimettendoci di tasca propria pur di non deluderne le aspettative, visto che gli onorari di cui godevano avevano il sapore di parsimoniosi rimborsi spesa.
Era il tempo dei Podestà, in un periodo che affidava loro ogni delega per il mantenimento del decoro e dell'ordine del territorio, con nomine che venivano dall'alto ed erano valutate non in base alla 'pulizia' dei soggetti prescelti ma alla fedeltà al credo all'epoca imperante.

Poi venne la democrazia, conquistata con sacrifici e sangue. I Sindaci vengono creati dai cittadini, con il voto, ufficialmente libero e convinto. Il loro onorario è stabilito in base al numero di cittadini da amministrare. Più risultavano in anagrafe, più l'assegnato era alto. Non essendo valutabile con un pro capite difficile da contabilizzare, le prebende sono distribuite per fasce di residenti. Fino a 3.000 abitanti,  da 3.001 a 5.000, da 5.001 a 10.000... e via andare fino ai 250.000, non capoluoghi di provincia. A ciascuna fascia è destinato, per legge, un riconoscimento monetario mensile, con una scaletta che ne destina una parte al sindaco, altra al suo vice, altra ancora al presidente del consiglio comunale e agli assessori. I consiglieri trovano riconoscimento con gettoni di presenza, presumibilmente alle sedute consiliari. 
In italia risultano attivi 7094 comuni, tra città metropolitane, capoluoghi di provincia, grossi centri, centri medi e centri piccoli. Ci sono anche dei microcentri, che con la loro esistenza danno un'idea, diciamo, poetica a tutto l'insieme amministrativo nazionale. 
Del totale fanno parte i circa 5500 comuni con meno di 5.000 abitanti, una settantina di comuni con meno di 100 abitanti e una decina con meno di 50. Due o tre tra questi si aggirano stabilmente intorno ai 30 abitanti.
Villaggi dei Puffy, senza offesa ai cittadini di questi e quei villaggi.
Una scuola elementare di un paese medio o un piccolo condominio avrebbero più presenze che in questi mini comuni. E ciascuno ha il suo sito, il proprio sindaco, vicesindaco, giunta e consiglio comunale. Con fascia sindacale regolamentare, gonfalone e quant'altro li rende a tutti gli effetti Comune d'Italia. Il sorriso spontaneo che sfugge nel visitare questi siti non sa di ironia ma di infinita tenerezza.
Ogni tanto a qualche economista sconsiderato sfugge l'ipotesi di un accorpamento di questi piccoli centri, sì da renderli, appunto, economicamente adeguati ai tempi. Proposte regolarmente respinte, solitamente per campanilismi risalenti al Medioevo, tramandati come religione di difesa della tradizione, del territorio, delle sue proprie usanze. Quelle stesse caratteristiche che, in macro, risultano evidenziate tra i centri più grandi, a misura regionale.
Un sito a caso: circa 30 abitanti (tra 29 e 33 a seconda dei movimenti occasionali, altalenanti tra decessi e nascite), 13 amministratori, 2 alunni in età scolare (rispettivamente 9 anni un maschietto e 14 una femminuccia), più, per buon peso, un neonato considerato in età pre-scolare. Facile pensare subito alle lotte all'ultimo sangue per avere la carica di primo cittadino... 
E salendo fino ai 100 abitanti non è che la musica cambi molto: è un'unica sinfonia, senza tempo, senza tempi e senza una metrica musicale logica.

Ai campanilismi ancestrali si è aggiunta ultimamente una legge di adeguamento dei costi amministrativi comunali. C'è chi li dice adeguamenti al costo della vita, chi li dice incentivi alla partecipazione popolare più diretta e incisiva della semplice scheda elettorale che, inserita nell'urna, viene presentata già come tale ma che, in realtà, appare più un premio alle chiacchiere e alle promesse dei candidati.
Un adeguamento talmente sostanzioso che da alcuni è stato definito semplicemente immorale.
Per i tempi in cui questa legge è stata emessa, per le modalità tacite in cui è stata inoltrata, per il peso ulteriore a una situazione economica nazionale già paurosa al presente e spaventosa per il futuro.
Ma forse al popolo la faccenda interessa poco: le pandemie (eh sì, non è più solo una, che già di suo ha fatto, e sta facendo, più danni di una guerra guerreggiata), le guerre (eh sì, sono più di una, che direttamente o indirettamente ci coinvolgono), le bollette, i costi generali di tutto, dalla sanità ai trasporti alla monnezza alla siccità alle catastrofi paranaturali... sono chiaramente invenzioni di chissachì, che lasciano il tempo che trovano poiché nessuno le prende in considerazione. Nessuno lassù, nell'alto dei cieli, in quei cieli in cui stazionano i rappresentanti del popolo, che già duellano per mantenere o accaparrarsi le poltrone che diano loro benessere e un futuro roseo, fuori dalle beghe terrene e dagli svariati accidenti che ne colpiscono i viandanti, se ne cura.
Se vinciamo, ci pensiamo noi... dicono tutti.
Tanto per stare in una via di mezzo: il sindaco, il vice sindaco e il presidente del consiglio comunale dei comuni tra 5.001 e 10.000 abitanti, dal 2022 si sono trovati sotto il cuscino un aumento sostanzioso che, per semplificare, corrisponde al raddoppio di quanto percepito fino al 2021. In dobloni sonanti, per un sindaco in questa fascia di amministrati, significano circa 4.000 € al mese, lordi (precisazione obbligata: 'lordi' non è da intendere 'sporchi', ma tasse comprese. Forse); per tredici mensilità, come a ogni dipendente che si rispetti.
Fino a ieri, la corsa al podio di sindaco (e del suo staff) era questione di prestigio, talvolta di vera volontà di ben operare per il bene degli amministrati. Non avveniva mai, che io sappia, per la ricerca di un posto di lavoro, di uno stipendio; tant'è che sovente i candidati erano professionisti affermati, ai quali era difficile addebitare una caccia al tesoro che presumibilmente sarebbe andata contro i loro interessi professionali.

Ci sono paesi che, più che limitrofi, sono letteralmente incastrati uno nell'altro, senza altri confini oltre quello di un rettilineo con la segnaletica che indica il cambio, l'una appresso l'altra. Ho scoperto l'esistenza dei punti di confine in occasione dei famosi/famigerati posti di blocco nella prima esplosione della pandemia di Covid. Le strade di collegamento regionale erano presidiate dalle forze dell'ordine federali, quelle che uniscono i paesi dai rispettivi vigili; che si fronteggiavano, a distanza di sicurezza, per bloccare le entrate e le uscite. Come nei migliori transiti di frontiera, c'erano strade minori non controllabili, per mancanza di personale o per scarsa credibilità sulle operazioni di blocco. E come in tutte le frontiere, erano la falla che consentiva di passare da una parte all'altra senza lasciapassare (chi ricorda più i dpcm sfornati a risme intere, in un continuo di precisazioni e contraddizioni?). E al bar, prendendo un caffè, la voce di questi buchi nella rete veniva divulgata solo tra conoscenti fidati, che manco i vecchi contrabbandieri.

Ebbene, tempo fa c'era chi aveva ipotizzato una unificazione di questi Comuni, non tanto per un vantaggio economicamente rilevante quanto per poter avere, con un consistente aumento dei cittadini amministrati, un maggior peso nelle trattative con la sede provinciale e quella regionale. Proposte cadute in nome di un campanilismo decantato, che era peraltro anche copertura di altri interessi.
Con questo provvidenziale aumento degli stipendi (o salari, parcelle, onorari...) viene dato il colpo di grazia alla possibilità di unione tra Comuni a identica vocazione. Chi potrebbe essere così incosciente da rinunciare a una torta così ricca in nome di una logica economica che i tempi grami che stiamo attraversando renderebbe più urgentemente indispensabile?
A questo punto, i candidati sindaci di questi paesi medio/piccoli si presenteranno come difensori dell'autonomia cittadina o riusciranno a convincere gli elettori che non si presentano per un posto di lavoro, portando in dote la promessa di intenti miranti al bene comune, ma certamente non più disinteressato.
L'adesione a questa legge deve essere votata in consiglio comunale; sia le Giunte in carica che le forze di opposizione si guarderanno bene dal rifiutare l'offerta: per le prime è il presente, per le seconde un auspicabile futuro.
Ai timidi accenni di dissenso da parte di cittadini strabiliati, la risposta più gettonata è che il peso di questo beneficio non graverà sulle singole comunità ma sarà erogato direttamente dallo Stato. Sorvolando sul fatto che lo Stato siamo noi tutti; almeno, così si dice. 
L'Italia, nei tempi, è stata definita in molti modi, vuoi di apprezzamento vuoi denigranti. Da alcuni decenni è nota come la Repubblica delle Banane, dove i banani da divorare sono i suoi fortunati abitanti. O anche Paese di Bengodi, dove coloro che, appunto, godono sono in aumento e i paganti questi godimenti sono in calo inarrestabile.

L'antico dìvide et ìmpera è diventato il moderno dìvide et manduca, col beneplacito di chi ammannisce il desco.