domenica 21 agosto 2022

Un giorno qualunque al mare

L'anno prima di sposarci ero salito (acchianato, nel dialetto indigeno) al paese per conoscere i genitori di quella che sarebbe poi diventata (c'era ancora un 'forse', ma era solo un cavillo) mia moglie. 
I "suoceri": non so perché suoceri è un termine che non mi è mai piaciuto. 
"Papà - mamma": questi non li avevo mai usati, mi era stata negata l'occasione di impararli, e a quel tempo, prima e dopo il matrimonio, non avevo più l'età per esprimerli; mi sarebbe sembrato un falso ideologico, una forzatura, un appropriarmi di qualcosa che non mi apparteneva.
Così lui, il suocero, era il boss, e lei, la suocera, la bossa, per immediata assonanza. Sono stati tali fino alla loro morte e successivamente, tanto che, sia per mia moglie che per la sorella, non erano più mamma e papà, ma il boss e la bossa

A ogni santa, benedetta, estate lasciavamo la lontana città, nostra sede, per passare una ventina di giorni con il boss e con tutta la famiglia. E il mare... 
Per godere di quest'ultimo si doveva pagare un pedaggio, anzi una penale: ed era il viaggio di scesa e successiva risalita dal paese che ci ospitava. In linea d'aria era a un tir di schioppo, su strada un percorso che non finiva mai; sterrato, in salita o in discesa le curve erano le stesse, e le buche pure.
Da qui, ogni volta che decidevamo di scendere a mare, lo facevamo con la stessa orgogliosa baldanza che aveva consegnato alla Storia, quasi cento anni prima, un esercito perdente. 
Per andare al mare dovevamo scendere a valle, lasciare la macchina di qua dalla ferrovia, e per arrivare alla spiaggia dovevamo attraversare campi coltivati, perloppiù a vigna, con qua e là alberi da frutto a interromperne la monotonia. Casotti costruiti con assi piantate nel terreno, con tetti di pezzi di lamiera sovrapposti uno all'altro. All'interno una tanica semipiena d'acqua, una fiaschetta di vino acquattata sotto una panchetta, e attrezzi da lavoro. Attrezzi che erano poi pale, zappe, talvolta forbici da pota; qualche straccio, sporco di terra raccolta da mani sudate.
Per andare alla conquista di uno spicchio di spiaggia dovevamo attraversare questa giungla, rubacchiando qua un fico, là una mela, più in là una prugna. Lo spicchio di spiaggia era in realtà un deserto, che il Sahara gli faceva un baffo; neanche un cane, come si dice, a contenderci il territorio. In lontananza qualche barca tirata in secca, lontane da eventuali incursioni marine.
Andavamo subito a tastare il mare, con l'alluce sacrificato a rilevare se e quanto fosse gelido. Il silenzio era rotto dallo sciabordio delle piccole onde che amoreggiavano con la rena; nei momenti mistici, tendendo l'orecchio, si sarebbe sentito il parlottio confuso delle centinaia di pesciolini che si spingevano tra loro per spiare, piccoli guardoni depravati, quell'amplesso anomalo.

Non eravamo turisti spendaccioni, eravamo ospiti, e come tali eravamo tenuti al rispetto delle regole del convento che ci ospitava. Una di queste era il rientro per l'ora di pranzo, che oscillava tra le tredici e le tredici. Il boss ci teneva e noi non avevamo motivi per deluderlo. Avevamo sempre rispettato quell'ordine, mai proferito apertamente ma altrettanto chiaramente sottinteso.
Lo avevamo rispettato quasi sempre; anzi, solo una volta, che io ricordi, avevamo sgarrato.

Era un giorno qualunque, di un'estate qualunque, di un anno qualunque, di un primi anni '70 qualunque.
Eravamo scesi con la solita baldanza verso il mare, avevamo lasciato la macchina al solito posto, avevamo traversato la piantagione d'uva, ed eravamo approdati al nostro deserto. Eravamo sportivi: niente ombrellone, niente sdraio o, peggio, lettini. Io in calzoncino/costume, lei in costume a due pezzi; l'asciugamano da spiaggia, io sulla spalla, lei annodato in vita; ai piedi zoccoli di legno a salvataggio dalla sabbia bollente.
Guardando verso il mare, eravamo poche centinaia di metri a sud del fiume che separa le due Regioni.
Fatto il primo bagno, preso il primo sole, avevamo fatto la bella pensata di fare una camminata verso il fiume, per andare a vedere l'ignoto che l'oltre poteva offrire. 
Questo scorreva, placido e lento, lasciando intravvedere i sassi del suo greto, ammiccanti l'invito a traversarlo. E traversammo, evitando di metter piede sui sassi più grossi e scivolosi. 
Le sponde erano sassose, e facevano cornice alla spiaggia sabbiosa che non differiva da quella lasciata. Alla fine di questa non c'erano coltivazioni ma una fitta boscaglia, con qualche albero selvatico a completare il quadro bucolico.
Non c'era un'anima viva, e le eventuali anime morte erano forse nascoste tra i rovi.
Non avevamo l'abitudine alla trasgressione, ma quella mattina ci eravamo sentiti soli all'interno di un piccolo grande paradiso. Un Eden... e noi ci eravamo sentiti l'Adamo e l'Eva del ventesimo secolo. Ci eravamo liberati dei pochi indumenti e ci eravamo buttati in acqua con l'intenzione di fare una bella nuotata e tornare a riva ad asciugarci.

Ma avevamo dimenticato di essere due fiammiferi: lei un cerino, quello che basta una grattatina su una leggera carta vetro per appicciarsi a fiamma viva; io uno svedese...
No, stop, ferma la ripresa: niente capelli biondi, occhi azzurri, pelle lattea, sull'altezza meglio sorvolare... gli svedesi erano (forse ancora sono) quei fiammiferi con la testa un po' più grande di quella  dei cerini, la cui base sono dei bastoncini piatti di legno. Non serve carta vetro per accenderli, basta una carezza e sono subito fiamma.
Così in acqua avevamo fatto quello che l'Adamo ed Eva originali si dice abbiano fatto dopo avere scoperto che la nudità dà sensazioni più profonde della semplice contemplazione del creato. Il fatto che ancora stiamo pagando quella prima scoperta è irrilevante...
Eravamo usciti dall'acqua pienamente satolli ed avevamo raggiunto gli indumenti, abbandonati sui sassi della riva. Con questi avevamo trovato un tappeto di forbicine, quelle bestiole con la coda a forbice, da cui il nome.

Raccontare il terrore di mia moglie è impossibile. Salti, urli, pianti isterici... che forse avrebbero meritato maggior comprensione da parte mia.
Il fatto è che quegli animaletti mi avevano riportato indietro nel tempo, quando in colonia li catturavamo facendo a gara a farsi mordicchiare: riuscire a farle restare appese al dito o all'unghia dava un punteggio in vista di ipotetiche esibizioni in altrettanto ipotetici circhi.

Non era finita. Allontanatici da quel tappetino, ci stavamo preparando a riguadare il fiume e prepararci al rientro, che già l'ora di pranzo si stava avvicinando.
Era l'ora, forse intorno a mezzogiorno, che la centrale elettrica apriva le paratie per lo scarico delle acque della diga a monte. 
E noi non lo sapevamo. 
Avevamo sentito una specie di tuono proveniente dal monte e il fiume in un amen si era trasformato in un torrente impetuoso, aveva ricoperto le sue sponde, precipitando verso mare con una violenza che metteva paura. 
Altro che forbicine... che, forse, avevano percepito prima di noi quel pericolo ed erano in fuga di massa per salvarsi.

Passato il primo sgomento (perifrasi di fifa folle), era sorto il problema del ritorno all'altra sponda e successivo rientro a casa, meglio se per l'ora di pranzo.
Il fiume battagliava per conquistare una fetta del territorio marino, il mare si opponeva con la possanza della sua cubatura. Lo scontro tra i due colossi aveva portato alla formazione di una cresta sabbiosa, in un ampio semicerchio che si concludeva quando la forza del fiume scemava finendo per amalgamarsi dolcemente con l'acqua del mare. Quasi uno sponsale tra l'acqua dolce e quella salata marina.
Avevo valutato la possibilità di 'camminare' su quella cresta di sabbia, contando sul fatto che le due forze, del fiume e del mare, contrastanti fra loro mi avrebbero sorretto nel cammino, rendendolo poco più che una passeggiata. Avevo fatto affidamento su quella legge fisica che dice che due forze uguali e contrarie si annullano dando l'idea di una certa stabilità di movimento.
Ed ero talmente fiducioso (perifrasi di imbranato, ma anche di imbecille) che mi ero avviato in acqua con gli zoccoli ai piedi, per non sciuparne le piante da lattante.
Pochi metri era durata la passeggiata su sabbia ferma, con il supporto vocale della moglie che mi incitava... a tornare indietro, poi il novello Mosè era stato scaraventato verso il largo, lasciando gli zoccoli a imperituro ricordo della sua meccanica sballata.
Ero andato più al largo affrontando il mare aperto e facendo una nuotata che mai più avrei fatto.
Approdato alla riva opposta non avevo baciato il suolo poiché, boccheggiante com'ero, avrei aspirato mezza spiaggia. E di là dal fiume la moglie continuava a gridare...
Dopo tanta avventura, avevo avuto un po' di fortuna. C'era un uomo ai bordi del vigneto che sicuramente si chiedeva da dove fosse sbucato questo naufrago, a piedi scalzi e col fiato così corto. Gli avevo spiegato, più a cenni che a voce, quanto successo, e il brav'uomo si era offerto di andare con la barca a recuperare la mezza mela lasciata in balia delle forbicine.
Ci avevo pensato dopo: aveva voluto che andassi con lui, forse per indicargli con precisione la persona da salvare... ma c'era solo una poverella in chilometri di spiaggia vuota; che gridava tanto da non poter essere ignorata. Forse mi aveva preso in ostaggio. Mah, pensieri del giorno dopo...
Lo avevo ringraziato senza neanche chiedere come si chiamasse. Al terrore delle forbicine e del fiume in piena si stava sovrapponendo quello per l'incontro prossimo col boss, che tra tutti i guai passati era quello che temevamo di più.

Io scalzo, lei ancora in crisi di pianto, avevamo recuperato la macchina e ci eravami avviati all'acchianata al paese, pronti a subire le nerbate del boss, visto che si erano fatte le due passate e che non avevamo neanche avvisato... Noi sapevamo di non averlo potuto fare, ma lui lo avrebbe saputo solo dopo averci scannato.
Infatti era alterato (perifrasi di incazzato nero), ma era un'alterazione dovuta alla preoccupazione, accentuata dalle lacrime disperate della bossa. E non ci aveva messo molto a riporre l'ira nel cassetto.
Mi ha sempre divertito il pensiero che non fosse tanto il fatto di avere, caso mai, perso la figlia (ne avevano un'altra, e col tempo si sarebbero consolati; si sa, chi vive si consola prima di chi muore) ad averli messi in ambasce, quanto quello, sempre caso mai, di avere perso me che, detto tra noi, avevo il merito di aver portato lontano una ragazza difficilotta, quasi scapestrata, a tratti isterica... come dimostrato nell'episodio. Per quanto ho capito negli anni successivi, lui era felice che lei stesse bene, ancora più felice che stesse bene ma lontano.
È chiaro che questo pensiero l'ho tenuto sempre per me: non ho molti affetti, e la mia giugulare è tra quei pochi. 

4 commenti:

  1. Mi sono commossa e divertita a leggere della tua avventura... grazie di cuore. Te l'ho mai detto che scrivi assai bene?!

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    1. Ti ringrazio, troppo buona. Sì, me lo hai già detto, oltre dieci anni fa. Da allora sul blog mi sono un po' perso, ma ho splendidi ricordi di quel tempo. Purtroppo molti se ne sono andati, acchianati a quel posto senza confini, penso a Carla Krilù, ad Aldo il Monticiano, a Francesco Zaffuto per citarne solo alcuni. Conosciuti sconosciuti che mi sono rimasti nel cuore. Altri si sono ritirati da blogger, e anche di questi ho bei ricordi, di ironie e condivisioni; mai, dico mai, di insulti o offese altre, come avviene su altri social dove, passato il periodo della curiosità, è ormai quasi impossibile postare o commentare. Ciao, un grande abbraccio e un saluto alla cara, bella, amara Sicilia. In un'amara Italia.

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