Umberto
Un nome a caso: Umberto
Un nome pescato nel calderone dei ricordi,
per dare un titolo a questo racconto.
Se vado a cercare gli Umberto conosciuti ne trovo una
sfilza, perloppiù gente importante: un re (minuscolo, per come è passato alla
storia), un oncologo, un poeta, uno scrittore, un politico (Terracini, per
esempio), un cantante, un attore… e via andare, su questi livelli.
La fantasia mi consente di sentire, come uno stormir
di fronde, sulla destra, lontana, una voce stentoreamente gentile, che mette i
puntini sulle “i”, anche se in quell'Umberto queste non sono presenti:
“Uhe,
bauscia, de Umbert ghe n’è dumà
v’un, tuc i-alter sun nisciun. Pirla!”.
Da un qualcosa sulla sinistra, che non si capisce se
sia una quercia, un ulivo o un tappeto di papaveri, quasi a far da contrappeso,
un delicato ammonimento, una specie di cartellino giallo:
“Se in questo post ti azzardi a
parlare di quell’Umberto mi fermo qui, ritiro gli ambasciatori e ti faccio
arrosto. Ho smesso di mangiare i bambini, ma un gatto con patatine al forno non
è scritto da nessuna parte che non me lo posso fare. Gatto avvisato…”.
No, non voglio parlare di quell’Umbertochetuttiglialtrisonnessuno. Che, tra l'altro, all'epoca del racconto aveva ancora i calzoni alla zuava ed era studente modello... dicono le biografie.
E non vado a parlare del più noto "Umberto D" di De Sica.
Il mio Umberto è quella che per antonomasia si dice 'una persona
comune'.
Un po’ fuori dal comune, a dire il vero; per questo
lo voglio qui raccontare in modo più specifico, dopo averne accennato in un
vecchissimo post.
Vado ai tempi del periodo lavorativo, con colleghi
che erano tutti macchiette, che la lunga frequentazione ha stampigliato
indelebili nella memoria.
Con una precisazione, forse ignorata da ciascuno
nella propria singolarità, che vede macchiette tutti gli altri e quasi mai se
stesso: eravamo tutti macchiette.
Sarebbe bello sapere, per esempio, che ricordi hanno
gli ex colleghi, di quel capo reparto che a suo tempo sovente faceva loro
girare le palline e li fustigava spesso sulla schiena con un righello metallico
largo cinque centimetri per quaranta di lunghezza (ma battendo solo di piatto). Senza
mai ricevere denunce o proteste, neanche da parte dei sindacalisti, pur essendo
questi solitamente rompiglioni. Una leggera punta di sadismo che bene si
sposava con un diffuso masochismo, forse accentuato da un vago senso di colpa,
visto che per buona parte erano dei lavativi.
Simpatici come singole persone, lavativucci assai sul verbo
lavorare.
(Bei tempi; passati; remoti).
L’Umberto mio era…
(Inciso: vado a raccontare con l’indicativo passato
prossimo non perché questo Umberto sia scomparso; in realtà non so se lo sia o
meno, ma proprio per non defungerlo con un passato remoto, pur se questo in
realtà, come detto, remoto è. “Ei fu…” è già stato immortalato, e si riferiva,
appunto, a un personaggio noto appena defunto; non voglio rischiare di dare il mio Umberto per morto, quando magari è più vivo e vegeto di me).
Dicevo, questo Umberto era nato in una città che,
per la legge sulla privacy, evito di citare; vuoi mai che mi scappi qualcosa
ritenuto negativo per l’immagine di quel comprensorio, e mi vengano chiesti
miliardi di euro di risarcimento all’ipotetico danno morale arrecato.
Però posso dire, senza tema di offendere chicchessia,
che il suo logo preferito è condensato in tre parole:
“Turùn,
Turàs, Tetàs”
che mi pare sia già un indizio che dice tutto, senza
colpo ferire.
Vado a descrivere brevemente il soggetto, sia per la
parte fisica che per quella comportamentale, più o meno collegate l’una
all'altra.
Una delle sue caratteristiche era il fatto di essere
un leghista ante litteram, quando le
uniche leghe conosciute allora riguardavano soltanto gli sponsali tra metalli, tipo il piombo con l'antimonio.
Citando la sua città, per descrivere come fosse
ormai invasa da elementi estranei, la loggava come
“Terùn,
Turàs, Tetàs”
quando i
negher, i mandarini, gli albanesi, i marocchini, erano ancora lontani a
venire.
Quando era di cattivo umore, ovvero quando qualcuno del capoluogo della
sua regione lo ‘urtava’, anche questo qualcuno era dumà ‘n terùn, magari
centrando il bersaglio, visto che il peso demografico anche in quella città
pendeva da tempo a favore degli “stranei”.
In merito amava raccontare di una battaglia nella
sua città, relativa all’aggregazione di una quarta T alle tre esistenti. La scelta pare fosse orientata verso un personaggio
che dava lustro alla città, senza bisogno di chiedere poltrone in cambio.
Pur essendo ancora in vita, il candidato indigeno
più indicato era Tognazzi. Ugo Tognazzi.
Ma il peso degli “stranieri” era stato tale che il
progetto era stato accantonato, per evitare lo scorrere del sangue per le vie
cittadine.
Infatti, motivando le proposte con la necessità di
sprovincializzare, i-alter avevano messo in campo le candidature chi di
Totò, altri ancora di Trilussa.
Secondo l'Umberto mio, el
Tugnass sarebbe andato benissimo, ma sarebbe stato la quinta T, dopo
quella dei Terun, aggiuntiva anziché sostitutiva ai Turun.
Questa quarta T, ormai invadente come e più dell’erba
gramigna, sarebbe stata da eliminare; nel migliore dei casi da allontanare,
possibilmente con le buone.
Sembrava una boutade,
allora...
Il fisico, guarda le combinazioni della vita,
sosteneva adeguatamente questa sua missione di protoleghista.
Era alto un metro e un cazzo (come direbbe l'Alighieri) di calibro medio, anche se l’altezza di una persona è sempre
una forma di calcolo relativamente soggettiva.
Per dire, se confrontata con quella di un baskettista, (circa due metri, senza tacchi) preso a caso da un elenco telefonico, la sua era abbondantemente inferiore.
Se confrontata con quella di un noto politico di destra, preso a
caso dal solito elenco telefonico (un metro e un cazzo, ma di calibro minuto, forse con i tacchi), sarebbe risultato alto come un corazziere (memento Rascel nel film omonimo).
Più che rotondetto, lo ricordo quadrato.
Come un comodino.
Capelli crespi di un riccioluto cortissimo,
fittissimi, nerissimi, tanto che i negher
arrivati successivamente lo avrebbero preso come modello ideale per le loro
acconciature.
Tra le sue varie caratteristiche spiccava quella
della discrezione.
Ogni giorno (che ci fosse il sole, la neve, la
pioggia, la nebbia, un tempo così-così…) aveva un problema nuovo da esporre,
un’esperienza da raccontare, un consiglio da richiedere, un’indicazione da
valutare.
E tutto questo lo dedicava a una persona soltanto.
Per volta.
Tanti eravamo presenti, e, uno alla volta, venivamo
a conoscenza del suo dilemma quotidiano.
Data la sua discrezione, alla fine di ogni
“confessione” singola, la raccomandazione costante a ciascuno era:“Me
racumandi, al dis a lu, che è persona per bene, ma non ne
parli ad altri, non credo che capirebbero...”.
Per
raggiungere le ‘vittime’ delle sue confidenze aveva una tattica
particolare. Aspettava che un collega, qualunque, fosse prossimo alla
macchinetta del caffè, o all’uscita dallo spogliatoio, o dal bagno, che fosse intento a valutazioni private, purché solitarie, dei propri problemi: mollava tutto e si
lanciava in fretta e furia a braccarlo.
Iniziava l’esposizione del suo guaio contingente e
non lasciava andar via il malcapitato se questi non aveva sorbito fino all’ultima goccia di contenuto del suo
calice.
Solitamente amaro.
Se si avvicinava un terzo, interrompeva il monologo
e si allontanava, promettendone la ripresa a quanto prima possibile.
A me aveva riservato un rapporto privilegiato: ero
di solito tra i primi a cui si confidava, nonostante questo rapporto fosse stato, dal primo momento, una sottilmente formale presa per i fondelli.
Forse reciproca.
Intanto, su una trentina di colleghi di contatto quotidiano, era l’unico
con cui dall’inizio alla fine della colleganza lavorativa il “lei” era rimasto
invariato. E pure la chiamata col cognome...
Reciproci pure questi.
Inoltre, come introduzione all'esposizione dei suoi problemi, se a
questi era previsto seguisse un consiglio o un parere da elargire, la sua frase
di approccio era sistematica:
“Senta, mi è capitato questo e questo; secondo il
suo modesto parere…”, ecc.
La prima volta che avevo sentito del peso dato a priori a un mio eventuale (peraltro giustamente modesto) consiglio, avevo
accettato che fosse, come detto prima, una birichina presa per il sedere,
scherzosa, e avevo ignorato, senza reagire.
La seconda volta (o forse anche la terza o quarta)
che la ‘modestia’ dei miei pareri era ormai consolidata, incassavo questo suo incipit, adeguando le risposte.
Se il consiglio richiesto dava la possibilità di
scelta tra una ipotetica linea A e una linea B, in netto contrasto tra loro, gli offrivo
quella che (sempre a mio modesto parere) era la più negativa, la meno probabile,
la assolutamente impossibile andasse a buon fine.
Credendo ogni volta di avere così risolto perlomeno
il problema della rottura di marroni; avendolo indirizzato malamente alla
soluzione del suo, di problema, con il logico tracollo della fiducia nei miei
‘modesti’ pareri.
Troppo semplice.
Si dice: il vino buono sta nelle botti piccole.
Anche la malignità, se è per quello. Ve lo dice uno che in merito la sa lunga, per esperienza diretta...
E Umberto di
quella straboccava.
Regolarmente, tempo dopo, veniva a raccontarmi di
avere risolto il problema allora esposto, proprio seguendo il mio (sempre
modesto) parere elargitogli.
Avevo l’impressione che fosse un adepto del sub-flippismo(*) più raffinato.
E mi sentivo ogni volta, e sempre più, preso per
i fondelli, ed era un'impressione che ormai saliva fino quasi a punzecchiarmi le tonsille.
Un episodio, da lui raccontato a tutti nel solito
modo discreto, mi è rimasto impresso e, in verità, inizialmente era stato un ulteriore,
leggero, colpo alla già scarsa immagine che mi ero fatta del suo quoziente di intelligenza.
Una sera, molto sul tardi, dopo avere portato un botolo suo simile a fare i bisognini corporei in un prato adiacente la ferrovia, rientrava verso casa con l'obbrobrio di cane al guinzaglio.
Era una sera nebbiosissima, che i lampioni a lato
della strada rendevano spettrale.
Nel suo incedere prudente e solitario (a parte il
cagnetto), in un rettilineo aveva percepito, ovattato dalla nebbia, uno strano
cigolio; avanzando ancora, aveva notato, tra le auto parcheggiate in fila indiana una
appresso l'altra, che una di queste aveva sobbalzi anomali, tipo quando si
tenta di avviare una vettura con la marcia inserita.
Con movimenti sussultori, con alternanze ondulatorie.
Da
pensare più a un mini terremoto che ad altro…
Curioso più d’un gatto, non si era allarmato, anzi
si era avvicinato, scostando la nebbia come fosse la tenda di una finestra.
Accostandosi, aveva intuito che quella vettura nascondeva un’alcova.
“Ostia,
chi ciùlen!”, aveva esclamato tra sé e sé,
continuando con falsa indifferenza il suo cammino.
(Inciso: Ostia, lo sanno tutti, è Roma Marittima,
da tempi antichissimi, non è cosa nuova. Come non è nuova la pratica cui lui aveva pensato e poi apertamente citato; pare sia antichissima pure quella, tanto da non richiedere traduzione: si riferisce chiaramente ad un’attività che tutte le
casalinghe, ma anche le suore, conoscono bene e che, di solito, salvo strani malesseri occasionali, svolgono con ardore e amore [quest'ultimo non indispensabile]. Ed
è una di quelle poche mansioni cui partecipano volentieri i partner, ma anche i frati, senza brontolare).
Lui e il suo botolo avrebbero forse proseguito, magari fischiettando (lui) per evidenziare la sua indifferenza al probabile
spettacolo hard, ma lo spostamento improvviso della nebbia gli aveva fatto
prendere un colpo.
Quella macchina era la sua, e i cigolii e gli
squassamenti erano provocati da qualcuno che al suo interno faceva
goga-mi-goga.
Quasi incredulo per la profanazione della sua
vettura, si era accostato quel tanto sufficiente a sbirciare all’interno, per
vedere…
Quello che nessun padre vorrebbe mai vedere.
Sua figlia che, forse per ripararsi dal freddo, si
era coperta con un tizio, presumibilmente un uomo, a lui, Umberto, sconosciuto. Aveva specificato che visto dal 'cu' (con la u francese) , il vero sesso della copertura non era visibile; intuibile sì.
Qui torno a quello che prima ho definito un colpo
all’immagine che mi ero fatta del suo quoziente intellettivo: aveva proseguito,
con l’indifferenza messa a dura prova dal cuore che batteva a mille.
Per come lo conoscevo, avrei giurato che si sarebbe
fermato, facendo un macello, perlomeno verbale.
Invece no; e, così facendo aveva leggermente
ritoccato la mia valutazione del suo QI.
In meglio, sì, ma questa era talmente bassa che
anche col ritocco restava ampiamente sotto la linea di pareggio.
Peraltro raccontando l’episodio all’urbe, all’orbe e
ai sordi tutti, era prontamente rientrato nei parametri già noti.
Forse aveva richiesto esplicitamente un 'modesto' consiglio in merito a quanto avvenuto; se lo ha fatto, sicuramente avrà domandato se non
fosse il caso di cambiare macchina (A), visto il cigolio lamentoso che questa
esprimeva, oppure portarla semplicemente a grafitare (B).
Avevo consigliato la A, pensando gli potesse portare disagio usarla dopo la profanazione.
Sub-flippiscaniamente l'aveva forse fatta grafitare, e la teneva, a pensarci bene, come una reliquia, come il fuori onda che segue spiega con dovizia di particolari.
Peccato che all'epoca non fossi ancora sufficientemente maligno, altrimenti in vece della grafite avrei suggerito l'uso della vaselina, che allora andava alla grande; per lubrificare gli stantuffi delle sospensioni, senza macchiare più di tanto i tessuti limitrofi, era la trovata del secolo.
Fuori
onda.
Dopo un post che trasuda buonismo dalla prima
all’ultima virgola, il lettore avrà, forse, la curiosità di sapere il finale dell'episodio.
In verità non lo so, ma la simpatia verso il soggetto mi fa ipotizzare una (piccola) cattiveria.
Rientrando in casa, il buon Umberto, calciato il
botolo sotto il tavolo, calmata l’aritmia per lo choc appena subìto, avrà convocato la moglie che, incidentalmente,
era una sua copia clonata, e le avrà comunicato quanto scoperto in quella
terribile serata nebbiosa:
“Ohi,
mijé, t’el set, la tusa el ciula com tuc i-alter donn!”.
Una notizia che per qualunque mamma (pur sapendo che
quello è un sentiero da percorrere per quasi tutte le figlie, anche se fattesi suore) sarebbe stato motivo di
collassi, pianti, crisi isteriche e stridore di denti, alla moglie era apparsa
come la liberazione da un incubo.
La figlia, in effetti, era un incrocio multiplo tra la Mariangela di Fantozzi, il padre, la madre e il botolo.
E visto che, con tutta la buona volontà, quattro
comodini non fanno un armadio, il sospiro di sollievo della mamma nel sapere
che anche questo suo mobiletto, legno del suo legno, aveva imparato a fare le
pulizie di casa era più che giustificato.
Si vedeva all’orizzonte la possibilità che andasse a
ripararsi dal freddo lontano dalla loro abitazione; un’ipotesi mai presa in seria
considerazione, prima di questo evento straordinario. La coperta aveva un'importanza relativa; mi piace pensare che si trattasse di qualcuno facente parte della quarta T del logo cittadino.
Credo che sant'Omobono (nomen omen), patrono della TurùnTuràsTetàsTerùnTugnass, avrà ricevuto fiori e opere di bene come mai da nessun altro.
Tanti auguri per la tua salute, si spera che il nostro gatto preferito abbia scelto un veterinario in gamba.
RispondiEliminaRitorna presto dalla tua revisione, il tagliando ogni tanto va fatto :)
RispondiEliminaSembra un tipo delle mie parti da come lo descrivi, o forse più di una città più ad est rispetto a me :-D
RispondiElimina"Un caro saluto, e un 'a presto rileggerci', dal PC del vostro gatto preferito"...... ma è carinissima sta chiusa al post!
RispondiEliminaE tu sei, eccome se lo sei, il mio gatto preferito!
Un bacio grande
P.S.:Eh....gatto gattino.....quando un Umberto ti si appiccia addosso il difficile poi è staccarselo!
Eppure sto nome significa "illustre orso giovane", accidentaccio!
Avendo una figlia maggiorenne non sarei stupito se questa fosse dedita alle "pulizie di casa".
RispondiEliminaPerò la MIA auto no.
Che la Forza sia con te.
Miao.
miaooo, a presto
RispondiEliminaPietro ti aspettiamo dopo la revisione,torna presto!
RispondiEliminaLu
un caro saluto a te, il nostro caro Telegattone ;)
RispondiEliminaMi hai fatto letteralmente morire dal ridere. Sei bravissimo con le tue battute, la tua ironia che è bonaria e per questo fa ancora più effetto.
RispondiEliminaMi sono proprio divertita.
Ed ora,in bocca al lupo (che crepi) per la tua revisione.
Ti aspettiamo!!
RispondiEliminaIntanto, un gigantesco in bocca al lupo! Con la tua incisiva scrittura hai parlato di un personaggio indimenticabile, che nella mia modesta esperienza non riesco a ricostruire per intero neanche con l'apporto, ad esempio, della memoria di tanti viaggiatori - gran chiaccheroni, in genere! - incontrati in tanti anni. E, poi, Cremona? Ad una prossima volta...
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