domenica 25 marzo 2018

Agonia di una Fata...


Nella quarta di copertina, quella che dà il benvenuto al lettore, questo libro viene presentato come "romanzo". Dissento: un romanzo, per come lo intendo io forse sbagliando, è puro frutto di fantasia, libero di spaziare in ogni campo del creato e anche oltre, senza briglie, senza vincoli che lo costringano su binari di logiche prefissate. Accettarlo come romanzo sminuirebbe il peso e il valore come contenuto di umanità e di amaramente dolci sentimenti. Parere personale, che non ne intacca il valore. Leggerlo come diario, racconto o romanzo, resta un fatto soggettivo e niente influente sul piacere della lettura.

I precedenti "bambini" di Nicola erano (sono) divertenti, un passatempo e un piacere di lettura veramente godurioso, soprattutto nelle sue singole peculiari esplosioni di pazzia al quadrato; penso a tutti i personaggi messi in campo nel tempo, alcuni (poco-poco) riflessivi, molti altri chiaramente fuori di testa, allegramente anarchici, e, forse proprio per questo essere diversamente pazzi, di una simpatia rara, anzi unica.
Dire qualcosa di quest'ultima sua creatura dopo le "scampagnate" nelle precedenti, è cosa dura, è un secchio d'acqua gelida che risveglia brutalmente da una sbronza solenne e prolungata. Francamente, più che romanzo o racconto o altro, lo vedo e sento come un improvviso pugno nello stomaco, affibbiato proditoriamente dopo una lunga serie di carezze, che sembravano non avere fine.
Lo metterei 'fuori catalogo', così come 'fuori catalogo' direi dell'Autore.
È una lunga cartella clinica, diluita in più di quattrocento pagine, in uno spazio temporale di poco meno di quattro mesi; i quindici anni trascorsi dalla sua 'chiusura' definitiva non sono bastati a farla apparire soltanto come un ricordo, non l'hanno sbiadita nel tempo, anzi il tempo stesso pare averne ravvivato l'inchiostratura.
E fossero centocinquanta gli anni dall'evento, non sarebbero sufficienti a cancellare quel periodo; è come se un laser micidiale avesse inciso, cesellato, scolpito, nella mente e nel cuore dell'Autore i mesi, i giorni, le ore, i minuti tutti, precedenti l'amputazione di una parte di sé, la migliore.
La più migliore, direbbe l'ineffabile minestra Fedeli...
Un materasso di rovi, puntuti e pungenti, come madre natura vuole che siano tutti i rovi.
Ci si trova sdraiati a pieno corpo e, giorno dopo giorno, ci si rivolta e rigira, quasi a cercare sollievo da un pungimento ininterrotto e doloroso, prontamente sostituito da altri rami spinosi, freschi di giornata e sempre più puntuti, mano a mano che si avanza nella lettura.
Con Nicola che, in ogni capitolo, getta su quelle spine ampie manate di petali di rose, sorrisi amorevoli e amarevoli, tentativi di copritura e spuntamento di quelle maledette spine; "altri sfaceli" che dovrebbero lenire il dolore delle punture inflitte; scaglie di un vivere quotidiano, affatto quieto, che nella sua apparente normalità quasi finiscono per fare più male delle spine stesse.
Per raggiungere lo scopo, ce la mette tutta, aiutandosi con la fervida fantasia, mettendoci il suo "mestiere" (nello specifico un brutto termine, da intendere esclusivamente come capacità innata di vedere e soffrire, soffrire e raccontare, esternando il tutto senza farsi sopraffare dalla giusta e logica e umana emozione), senza peraltro riuscire nell'intento.
A ogni inizio di capitolo, dopo la data del giorno 'guadagnato', una nuova spina si conficca in chi legge, e non bastano le camionate di 'petali' successive a tentativo di cancellare il dolore.
E non credo che questo lui volesse: attenuare l'impatto forse sì, certo non aggirarlo o annullarlo.
La mamma che, con una lentezza velocissima, si avvia alla chiusura del suo diario, ha trovato nel figlio un cronista che ne racconta ogni sospiro, ogni pensiero, ogni desiderio...
Ogni sofferenza.
Ma questo figlio cronista va oltre quello che potrebbe essere il freddo resoconto di una lenta agonia, di una morte annunciata: racconta le sue di speranze, le sue disperazioni, i suoi timori e tremori, gli esperimenti, le imprecazioni, le bestemmie...
E le preghiere: rivolte a entità astratte, nelle quali ha smesso da tempo di credere, smaliziato da evidenze negative; ma anche elevate, queste invocazioni, verso altre divinità lontane, frutto di chiare fantasie romanzate; si affida a prove empiriche che ritiene assurde, che sa quanto siano truffaldine verso menti labili, ingabbiate in credulità ancestrali, che lui respinge schifato pur nel suo speranzoso metterle in atto.
Quasi vergognandosene...
Quando non esistono freni o vergogne nel tentare tutto (tutto-tutto-tutto) per allungare il più possibile la vita di una persona amata, ancor più se questa ti è madre.
Nel suo percorso, non manca di proporre i vari personaggi che ruotano intorno a tutta la vicenda: buoni, meno buoni, indifferenti e figli di puttana...
Questi ultimi la più parte, come sempre, da sempre.
Dice della dolcezza e della disponibilità di persone mai, o poco, conosciute prima.
Dice della inumanità di altre che per 'mestiere' (qui quanto mai spregiativo) vivono quotidianamente a contatto del dolore e della sofferenza e della morte, e che di queste hanno fatto motivo di lauta vita; freddi robot, carogne semoventi.
Dice della burocrazia, questa presenza bieca che già avvelena l'esistenza delle vite quotidiane, e che, di fronte a gravi malattie, diventa becera e ossessiva, avvelenando e avvilendo chi è costretto ad incocciare nei suoi stupidi labirinti.
Credo che anche oggi la sua Fata, la stessa che, lei sofferente, gli chiedeva "E tu, come stai?", a distanza di tanti anni gli direbbe ancora, come allora, "Te völet, l'è inscì!", 'cosa vuoi, è così!', il mondo non è cambiato...
Non sa che, da allora, il mondo è cambiato, sta cambiando...
In peggio, in molto più peggio...

Da leggere...
Da gustare proprio no, il dolore non si gusta.
Per farlo bisognerebbe stralciare tutti gli 'sfaceli' contenuti nel tomo, gustando solo quelli, però risulterebbe snaturato l'impianto nel suo complesso.
La Fata e l'Autore qui sono in simbiosi, inscindibili l'una dall'altro. Soffrire e sorridere, sorridere e tornare a soffrire: non ci sono altre possibilità.
Finché c'è una impossibile incredibile speranza che avvenga un 'miracolo'...
Durante e dopo non restano che le lacrime.








3 commenti:

  1. Grazie Pietro! (Anche a nome della Fata.)
    Dissento solo dalla didascalia iniziale (che tra parentesi richiede l'uso di lente d'ingrandimento... :D), cioè dal fatto che no sia, a modo suo, un romanzo: se mi sono deciso a pubblicarlo dopo 15 anni è stato proprio grazie all'idea di romanzarlo, cioè di "corradinizzarlo". Già così è fruibile in modo assai duro e struggente, ma nella forma iniziale di diario rischiava di non essere leggibile neppure da me stesso.
    Grazie ancora per l'attenzione che hai dedicato a questo libro, compresa la bella foto che hai realizzato lassù!!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. L'incipit l'ho messo piccolino proprio perché era un accenno a una mia prima personale impressione, che avrebbe potuto poco/niente interessare chi fosse venuto a leggere. Credo che gli sfaceli siano di Corradino (romanzo +), ma che la cronaca del vissuto non possa essere considerata tale. Punti di vista che, come detto, nulla tolgono e nulla aggiungono al valore e al peso proprio del libro.
      In bocca al lupo per questo, e anche per la future gestazioni.

      Elimina
    2. In effetti è un libro talmente atipico che faccio fatica pure io a "classificare" ciò che ho fatto, perché le invenzioni corradinesche (ma non tutti gli "sfaceli" sono invenzioni, perché in presa diretta commentavo anche ciò che leggevo e che mi accadeva attorno) non dovevano togliere nulla - e nulla hanno tolto - alla dura verità del dolore e di quanto accadeva alla mamma negli ospedali, e a noi due dentro la nostra casa.
      Di nuovo grazie!

      Elimina