Gioventù abbrustolita (III)

Sesto comandamento: non fornicare

Adolescenza, tempo di crescita, fisica e culturale. Tra le cose da imparare c'era il sesso, la sessualità in genere. C'era, si fa per dire; in realtà non c'era il primo e della seconda manco avevamo idea di cosa fosse. Era come la storia di Babbo Natale, di cui avevamo sentito parlare ma che da noi non era mai passato; la notte santa mandava a nome suo un Gesù Bambino, che ad ogni ragazzo faceva trovare sotto il cuscino un mucchietto di doni, dando con questi la prova provata della sua esistenza: un mandarino, due caramelle, un medaglione di zucchero dotato di anellino per infilarci lo spago e metterlo al collo, con stampata la figurina di un bimbo in braccio alla madre, forse una Madonna, ma a noi interessava il resto... Il tutto non arrivava all'alba, salvo lo spago. Se la fame avesse avuto un'età, era sicuramente la nostra. Senza bisogno di scrivere lettere, tanto meno letterine, che avrebbero intasato il suo lavoro, del Babbo intendo, nella distribuzione dei regali. Agli altri, quelli del mondo di fuori...
Il punto di partenza per la scoperta del dannato sesso era sapere da dove arrivavano i bambini. 
Proprio dal Natale, dove "è nato! è nato!" avrebbe dovuto arrivare un segnale, un qualcosa che ci aiutasse a capire gli sviluppi di quella nascita. Niente: nel presepe si vedeva un neonato posato in una mangiatoia colma di fieno, la madre inginocchiata da una parte, il (presunto) padre dall'altra, e poi pastori con pecorella a girocollo, bestie che manco l'arca di Noè, tanto verde, ruscelli... ma tutte bocche cucite, cosicché le domande ci restavano in gola.
Ancora implumi, eravamo già affetti da una strana forma di paranoia: strana, poiché cercava qualcosa senza affatto sapere cosa. Era come stringere fra le mani un grumo d'aria pensando di leggerlo come fosse un libro.
Non fornicare, diceva chiaramente il sesto dei Comandamenti. Sicuramente doveva essere un dettato importante per essere inserito in un decalogo emesso come libro mastro della convivenza umana... se solo avessi(mo) saputo a cosa si riferiva.
A chi legge oggi, può apparire da ignoranti o, in alternativa, da imbranati della prima ora. 
Incolpevolmente lo eravamo, ingenui e imbranati.
Richiesta specificamente, la spiegazione che veniva data era decisamente chiarificatrice, e solo a ragazzi ingenui e imbranati, appunto, poteva apparire più nebulosa del verbo originale. 
"Non commettere atti impuri", era la soluzione offerta al quesito. Non plus ultra, non più oltre.
Nel mondo di fuori probabilmente c'era chi, magari reticente, dava una interpretazione più vasta di quel termine astruso: i genitori, qualche maestro, lo scambio di informazioni tra coetanei...
L'unico nostro appiglio era un Dizionario della Lingua Italiana, edito da Lattes nel '36, quindi recente, con tanto di dedica al duce, che del fornicare dava questa lampante definizione: "(Fòrnix, Bordello), intr., Commettere atti impuri". E la merenda era servita...
Gli indizi che venivano forniti in merito erano indiretti, quasi casuali, che si affidavano più all'intuito di adolescenti in una non definita fase di maturazione che a un insegnamento che, tra i tanti divieti, emergeva come tabù intangibile, intoccabile, infrangibile: il sesso. In tutte le sue manifestazioni ma, per quel momento, soprattutto in quelle vocali.
La sera, quando tutti eravamo infilati sotto le coperte, un assistente passava a controllare che avessimo le braccia al di fuori; per evitare il rischio di commettere peccati verdi. E non avevamo idea di cosa diavolo fossero; approfondire significava beccarsi un paio di sberle... che per noi erano peccati solidi in risposta a domande virtuali.
Chiedere alle suore? Con loro non avevamo rapporti così intimi (vabbé, inteso come confidenziali) da poter avanzare domande su un argomento che, pur nella nostra incommensurabile ignoranza, sapevamo essere più che delicato.
Sapevamo vagamente che la definizione del sesso degli angeli era stata da tempo superata: gli angeli non avevano sesso. E noi, a fasi alterne, eravamo degli angeli. In chiesa, durante le funzioni, a scuola ma non sempre... era durante la ricreazione che l'angelo che era in noi si assentava per far posto a quello che, se non proprio un demonio, di questo aveva piedi e mani e lingua. All'occorrenza i denti.
Ecco, il sesso era apertamente demonizzato. Ma mentre al bestemmiare, al rubacchiare, al mentire c'era una spiegazione, al benedetto sesso non c'erano risposte.
Eravamo assetati di sapere, sapevamo tutto della storia romana, più o meno tutto della geografia, qualche informazione sulle squadre di calcio, sul giro d'Italia; per non parlare delle vite di Gesù e di tutto il suo indotto di santi, madonne, perfino dei beati prossimi ad essere proclamati santi; sui raffreddori del papa o dei cardinali; sapevamo chi dei preti di nostra conoscenza fumava, di quelli che tabaccavamo avevamo conoscenza diretta per via del bavaglino marrone che luceva sul nero delle talari e che, da vicino, solleticava gli starnuti.
Avevamo visto un documentario dell'Istituto Luce, rigorosamente in bianco e nero, con immagini che giravano a scatti, con cadute di nevischio che impedivano una visuale costante del filmato. Ed era un filmato che aveva suscitato il nostro interesse, poiché speravamo da questo risposte a quesiti altrimenti inerti.
Questo mostrava una fila di signori e signore che guardavano da una lunga vetrata, al di là della quale si vedevano alcune ragazze vestite da infermiere, con i camici a mezza gamba e la crestina bianca a copertura parziale dei capelli. Ciascuna impegnata a maneggiare dei bambini in nuvole di polvere bianca, forse talco. Gli spettatori al di qua della vetrata erano visibilmente felici.
Noi non ascoltavamo l'audio che raccontava meraviglie sul governo dell'epoca, parlava di genitori felici, di bimbi curati ecc. Noi guardavamo, e già il solo guardare aveva scatenato le nostre fantasie: avevamo capito, senza che alcuno ce lo spiegasse, da dove arrivavamo i bambini. C'erano, chissà dove, fabbriche specializzate a sfornarli, e la polvere bianca niente niente che fosse proprio farina.
Non avevamo percepito collegamenti con il sesso, ma era già un piccolo passo; non proprio come quello assai successivo sulla Luna, ma per noi quasi lo era.
Un compagno era andato per qualche giorno da suoi parenti in una cascina fuori città. Al rientro all'ovile, il nostro, aveva mirabilie da raccontare e, a gruppetti limitati, durante la ricreazione ce le partecipava con entusiasmo. La più incredibile diceva di una grossa mucca, più grossa delle altre, che (gli avevano detto) aveva fatto un vitellino. Che, udite udite!, era stato estratto dalla sua pancia. Già lui, che era stato sul posto, era ancora incredulo e altrettanto eravamo, per riflesso condizionato, anche noi.
La sua incredulità era dovuta a una domanda che aveva posto ai grandi e che non aveva avuto una risposta, quale che fosse; un'omertà assurda, quando ci sarebbe voluto poco a dire la verità: il vitello come aveva fatto a entrare nella pancia di quella mucca?
A complicare le cose ci si mettevano pure i confessori. Già avevamo le idee poco chiare su cosa si dovesse confessare, ma era un'operazione, la confessione, che era meglio richiedere periodicamente, onde evitare sguardi obliqui, sempre forieri di interventi maneschi. Se non ci si confessava per periodi sospetti, non fare la comunione poteva destare allarmi; farla senza essersi confessati appariva come probabile atto sacrilego, con conseguenze imprevedibilmente prevedibili.
Potevi vuotare il sacco, inventarti peccati pur di fare numero, ma alla fine la domanda era di prammatica, forse prescritta in un ipotetico manuale del confessore: "Ti sei toccato?".
Oggi, dopo i decenni trascorsi, sorrido, poiché voglio vedere in quella domanda una vena di innocenza. Da parte dei confessori, intendo. Per parte mia, nostra, era una domanda a fondo perduto; peraltro ambigua. Tornando a quanto espresso in precedenza a riguardo alla nostra ignoranza crassa in merito, la domanda avrebbe avuto senso se fosse stato appurato in precedenza che si sapeva tutto, o quasi, della faccenda.
Per incredibile possa apparire, la nostra verginità mentale consentiva di vedere in un sì o un no la chiusa della confessione. Se era un no, si veniva rimandati a una successiva interrogazione, con un filo di dubbio; il difficile veniva se la risposta era sì, poiché a questa seguiva pronta altra domanda: "Quante volte?". 
Alla lunga, sapevamo a cosa si riferiva, c'era solo una parte del corpo che era esclusa da ogni conversazione, ogni accenno, verbale o per immagini; alla fine il pensiero finiva per essere concentrato su quella. Pur essendo destinata a una funzione che per noi si esauriva nell'orinatoio.
Già, quante volte ci si toccava? quante volte, anche in solo in un giorno, ci si toccava per liberarsi da stimoli che, se trattenuti, finivano per diventare impellenti, fino ad esplodere motu proprio?
Poteva succedere, soprattutto di notte...
A complicare le cose, raggiunta inconsapevolmente l'età che divide l'infanzia dall'adolescenza, erano sopraggiunte le prime polluzioni, notturne. Anche queste inattese, e per le quali non eravamo preparati, potevano apparire come normali minzioni, pur se di normale avevano proprio niente.
(Credo sia opportuno precisare che i sostantivi polluzione e minzione sono stati appresi solo molti, ma molti, anni dopo; così come i verbi mingere e orinare che, nel nostro pratico volgare, erano pisciare e basta; anche quest'ultimo bandito dal parlare ufficiale).
Eravamo (ero stato, in prima persona singolare) terrorizzati da questo evento, che altrove sarebbe stato rilevato come una forma di evoluzione fisica naturale, affatto preoccupante. Altrove, non per noi...
Per noi si era trattato di un involontario svuotamento della vescica, magari in seguito a un sogno che lo aveva previsto, magari invogliato.
E che sarà mai! Un movimento fisiologico post-infantile che qualunque medico avrebbe diagnosticato con un sorriso di compatimento, di fronte al terrore (e all'ingenua ignoranza) che questo fatto aveva provocato.
Infatti... se ci fosse stato un medico con cui confidarsi senza passare dal filtro prefettizio; per confessarsi non era necessario specificare il perché, per l'incontro con un medico sì; e non è che si potesse chiedere semplicemente una visita: si sarebbe dovuto chiarire il perché, e questo perché (per quello che ritenevamo noi) era di avere orinato, nottetempo, nel letto.
Secoli dopo, devo riconoscere che, forse, il racconto di quanto avvenuto non avrebbe avuto altra conseguenza che la presa d'atto del passaggio dall'infanzia alla pubertà, anche da parte del prefetto, senza altre conseguenze. Forse saremmo stati tranquillizzati, senza neanche arrivare da un medico.
Forse... e in quel forse c'era una motivazione che aveva ottimi fondamenti di dubbio.
Nella camerata, solitamente occupata da poco meno di cento ragazzi, una decina di questi (forse qualcuno in più) risultava bagnaletto (non piscialetto come segretamente erano definiti, sempre in omaggio a quanto specificato dianzi): erano ragazzi con questo piccolo difetto, che forse un medico avrebbe saputo risolvere, magari con facilità. O uno psicologo, che tutti avevamo storie che potevano essere causa di queste minzioni notturne.
Invece del medico, veniva fatta prevenzione. Ai piedi del letto di questi ragazzi era annodata una fettuccia; tutte le notti, c'era una suora anziana, non più in grado di svolgere altri compiti utili alla comunità, che vegliava (o faceva il possibile per vegliare) sulla camerata. A ore prestabilite passava lungo la camerata, sentiva più che vedere le fettucce e dava la sveglia affinché i prescelti si recassero in bagno. Purtroppo non sempre i suoi orari coincidevano con i bisogni dei ragazzi: capitava che, o prima o dopo il giro di richiamo, la pipì fosse scappata.
E qui ribadisco il "che sarà mai!" prima espresso: una pisciatina non ha mai ucciso nessuno... avrebbe detto chi all'esterno avesse saputo del poco lieto evento.
Non era quella che ci terrorizzava: quello che ci riempiva di ambascia era la cura messa in atto per risolvere quella che non era considerata malattia, seppur lieve, ma pesata come semplice e pura pigrizia.
E la "cura" consisteva nel tenere in testa, per tutto il giorno, nelle ore di ricreazione, la mutanda umida. Il che comportava l'esclusione da tutti i giochi, dal pallone alle biglie al passo volante, che non veniva decretata dai compagni, ma assunta dai ragazzi stessi per la vergogna di un copricapo che ne raccontava l'infamia notturna di volta in volta perpetrata.
Ed ecco spiegato il perché del terrore provato a quelle prime polluzioni.
E non avevamo la più pallida idea di un possibile collegamento con un fatto sessuale, che molto più avanti sarebbe diventato motivo portante della vita, nostra e non solo nostra.
Ho sempre evitato l'onta, vuoi perché non ero nella lista dei bagnaletto, vuoi perché quel liquido si solidificava presto e nel cambio mensile delle lenzuola non risultavano tracce visibili. Il che, tra l'altro, escludeva che potessero essere frutto dei peccati verdi, tanto osteggiati dal prete fanatico della nostra purezza.

Il mio primo ventennio di vita si era accavallato con il precedente, che sarebbe passato alla Storia per motivi ben più pesanti di questo mio. Il Ventennio è stato raccontato, illustrato, commentato, interpretato in modi diversi, come tutti gli avvenimenti storici. Questo mio non passerà alla Storia, poiché non ha documenti, tanto meno immagini; ha solo ricordi che, nitidi come sono, risvegliano un periodo che sovente mette disagio raccontare. Quanto brevemente descritto faceva parte di uno strascico del Ventennio, durante il quale i ragazzi erano da curare solo in vista di farne carne da cannone; per il resto i ragazzi, gli orfani soprattutto, erano da domare prima, e plasmare poi. La carne da cannone non era più necessaria, ma il retaggio del domare e poi plasmare era ancora fresco, e solo il tempo avrebbe prima attenuato e poi cancellato. L'olio di fegato di merluzzo, destinato ai ragazzi un po' debolucci nel fisico, aveva sostituito quello famigerato di ricino, ma sovente risultava più punitivo che curativo.

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