Cara Nadia,

ti scrivo oggi che so di non poterti fare male, poiché sei entrata in una dimensione in cui non ti possono dare dispiacere le critiche, così come ti saranno indifferenti gli apprezzamenti e gli applausi.
È passato poco più di un anno da quando hai offerto la notizia del tuo male.
Prima alle migliaia di tuoi ammiratori che, giustamente, ne sono stati addolorati e sconcertati.
Poi nei social, tutti a diffusione planetaria; poi ancora nella carta stampata, periodica e quotidiana, a diffusione nazionale e locale...
Del tuo coming out iniziale sono rimasto colpito, in particolare, dalla definizione del tuo tumore come "dono".
Lo confesso, colpito e anche irritato.
Mia cara, so che non leggerai queste mie righe, voglio credere nella leggenda che ti indica tornata in quell'Eden, in cui tutto si sa, tutto si vede, tutto si ricorda.
Di tutti.
Ma trattandosi di una leggenda senza riscontri oggettivi, nel dubbio ti dico perché quella parolina così semplice e solitamente bene accetta, mi aveva così colpito e irritato.
Per circa vent'anni, da ancora bambino e non ancora adulto, ero stato circondato da grandi che mi dicevano, a ogni pie' sospinto (perdona questa licenza) che le malattie erano una benedizione, che le malformazioni fisiche erano un'opportunità che il Cielo offriva ai suoi figli prediletti.
Ed ero circondato da gente malata, da gente malformata, da gente tarata nella mente e nel fisico.
Ero in un'età, e in una condizione, per cui mi avessero dato un bicchierino di cicuta invitandomi a berlo come fosse un rosolio, lo avrei fatto... la mia fiducia in quei grandi era assoluta, e non avevo conoscenze che potessero farmi dubitare di quanto mi veniva 'propinato'.
In queste disgrazie era compresa anche la mia storia, che ti illustro in breve, più per i quattro gatti che leggeranno questa lettera che per tua conoscenza. In pratica è un discorso per pochi intimi, che capiranno che questa non vuole essere un'offesa alla tua memoria, e non lo è.
Ho perso mia madre che avevo due anni, mio padre ricordo di averlo visto, una prima e sicuramente ultima volta, in un carcere.
Né di lei né di lui ho mai saputo nulla più di quel poco/niente che mi è stato raccontato da chi li aveva conosciuti, per parentele e conoscenze compaesane.
Sono stato ospitato in due strutture: la prima era un piccolo ospizio, dove avevo avuto un primo assaggio di contiguità con una vecchiaia abbandonata e malandata in salute; ero l'unico bambino tra i saggi di un tempio (era già successo a un bambino mio predecessore, secoli prima); solo che questi non erano saggi ma povera gente, macilenta e malandata e abbandonata, appunto.
Tre suore e un prete accudivano come potevano questo gruppo, cui era stato aggiunto un giovanissimo prossimo vecchietto. Questo non male come salute, ma identico agli altri per il resto
Sai, a circa tre anni non è che fosse possibile esprimere pareri in merito al pozzo in cui venivi, tuo malgrado, calato.
Successivamente sono stato destinato a un orfanotrofio, un ricovero per orfani e trovatelli; un luogo un po' sui generis, poiché non si limitava all'accoglienza dei bambini, ma aveva al suo interno un mondo intero di malanni di ogni genere. E in questo nuovo pozzo ho trascorso quell'adolescenza in cui il bicchierino di amara cicuta poteva apparire dolce rosolio.
Bene, in tutti questi anni a nessuno è venuto in mente di presentarmi questa situazione come un dono, e neanche come opportunità.
Che fosse stata un'opportunità l'ho riconosciuto in anni successivi, saputo il contesto dei tempi e dei modi in cui mi era stata 'offerta'. Più che un'opportunità, una possibilità: unica, non ce n'erano altre, allora, e non c'erano possibilità di scelta.
Forse il mio piccolo cervello era pronto ad accogliere i racconti di miracoli, ma non la presa d'atto che quanto mi succedeva potesse essere l'unica possibilità di salvezza.
Già, i miracoli...
Al tuo "dono" era seguita una descrizione precisa dei tempi, dei modi, degli sviluppi della tua malattia.
In quattro mesi il tumore sarebbe stato scoperto quasi casualmente; negli stessi quattro mesi avresti subito un intervento chirurgico; a tamburo battente saresti stata sottoposta a un ciclo di chemioterapia associata a radioterapia. A tutto questo era seguita una guarigione completa, assoluta e definitiva.
Ecco, avessi presentato il tutto come un miracolo, memore di quanto insegnatomi, forse avrei fatto uno strappo al concetto sviluppato nel tempo, relativo a questi interventi soprannaturali, e, sempre forse, ci avrei creduto.
Solo in seguito hai corretto un po' il tiro, offrendo il tuo scoop come un incoraggiamento a coloro che sono colpiti, nelle varie forma, da tumore, a tener duro, a combattere, a essere guerrieri, non malati.
Nel frattempo le cose sono peggiorate, e le tue sofferenze hanno avuto fine.
Avrei da dire anche sull'incoraggiare i tumorati al combattimento: purtroppo parte in causa, come milioni di altri, ti posso assicurare che la voglia di tener duro, di combattere, di non darla vinta a quell'accidente, c'è in tutti.
Lo vedo sui volti di chi mi circonda in una saletta (troppo piccola per tenerci tutti e troppo grande per contenere il battito di tanti cuori traboccanti solo speranza) in attesa di una visita di controllo oncologico. Che sovente non è visita curativa ma presa d'atto sul progredire del male; la stabilità è già una vittoria, sufficiente a calmierare il pulsare frenetico del cuore; rarissimamente segnala una regressione. Comunque mai definitiva.
Siamo in una trincea, basta un capello fuori dal riparo e c'è un cecchino sempre all'erta che impallina senza pietà; o sulla tolda di una nave, scrutando l'orizzonte per vederne la fine lontana, quando un siluro manda a picco sogni e speranze...
Sai, mancasse questa voglia di vivere, non ci vorrebbe molto a mettere fine a tutto: un ponte, due binari, qualche metro di corda...
Che richiedono più coraggio: due forme diverse di coraggio, una il per vivere sapendo di morire, l'altra per morire rifiutando di vivere così. Non c'è vittoria con la prima, non c'è sconfitta nella seconda.
In quella per vivere rientra l'ironia, talvolta anche il sarcasmo... verso la malattia.
Non è accettabile l'offesa verso il malato, verso i malati.
E la tua prima esposizione dei fatti lo è stata, con una presentazione che era uno 'schiaffo' a chi da anni combatte, anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, ora dopo ora... e, alla fin dell'avventura, minuto dopo minuto, per un respiro in più.
Se il tuo annuncio in quella forma fosse stato divulgato in chiacchiere da bar, in circoli privati, magari chiusi ai comuni mortali, in simposi ristretti di medicina specialistica, forse sarebbe passato inosservato o quasi. Anche la presentazione successiva del tuo libro sarebbe stata l'ennesima tra tante pubblicazioni che ogni giorno vedono la luce.
Il coraggio da te dimostrato nello svelare una malattia, presentandola rara quando rara più non è, aveva il sapore di uno strano lancio mediatico; diretto a chi e perché è rimasto un mistero. A parte gli applausi, meritati, e i like ricevuti, l'unico ritorno evidente è stato un proliferare incredibile di coming out di persone che avevano avuto, talvolta in un passato remoto, un tumore e se ne dicevano guarite.
Per mesi, ogni giorno i media hanno portato alla luce le dichiarazioni di personaggi, i più ex famosi, che con le loro dichiarazioni forse hanno tentato di rinverdire fasti passati.
A pro di chi? a pro di cosa?
Vedi, mia cara, tu hai vissuto in un mondo diverso dal mondo comune. Chi ha seguito il tuo esempio vive tuttora in un mondo diverso da quello comune. Sia per le attenzioni che per le possibilità di cura, che in quell'altro mondo (e non parlo di quello tuo attuale) proprio non esistono.
I quattro mesi, da te raccontati, tra lo scoprire il male e risolverlo sono una fiaba, visti da chi per avere una diagnosi e un indirizzo terapeutico deve aspettare mesi... dando tempo al cancro di incancrenirsi ulteriormente, fino a diventare incurabile. O deve sobbarcarsi centinaia di chilometri per poter avere una visita di controllo o un esame oncologico, con prenotazioni che rasentano l'anno di attesa.
E in un anno, tu oggi insegni, possono succedere tante cose...
Se nei tuoi interventi avessi messo il dito su queste verità, avrei visto nel tuo messaggio un senso compiuto, e validissimo e quanto mai attuale.
Hai combattuto, come hai detto da guerriera, ma in questa lotta hai avuto a pronta e completa disposizione tutte le armi disponibili e conosciute... il fatto che si siano rivelate insufficienti a debellare il male, a vincere, finisce per avere un'importanza relativa: quando la medicina dice "è stato fatto tutto il possibile", nel caso tuo, e degli altri personaggi che hanno esposto agli applausi  e ai like la loro condizione, è presumibile che corrisponda al vero.
Siamo tutti guerrieri, la differenza sta nell'armamento: un conto è scendere nell'arena con in mano una daga, diverso se ci scendi con in mano uno spazzolino da denti. Vero, la belva alla fine sbrana tutti, ma la lotta ha un sapore diverso.
Lo ripeto, nel tuo caso e in quelli simili al tuo.
Per gli altri è, e per ora resta, un sogno...
La tua notorietà, con le casse di risonanza che ti ha offerto, ha assemblato attorno a te e alla tua malattia milioni di persone, fan li chiamano, che ti hanno supportato in quanto fosse possibile per rendere meno pesante la tua battaglia.
Nel mondo comune, in quello più comune, avviene il contrario: dopo le prime pacche sulle spalle, di parole di circostanza, di inviti a combattere, si forma tutt'intorno un deserto, amicizie e incontri, prima consuetudinari, quasi di colpo cessano.
Rispunteranno, garantito al limone, nel giorno dell'ultimo addio, corredati di "quanto era buono, una perdita incolmabile, rip...", e chi più ne ha più ne mette.

Perdona questo sfogo, so che va controcorrente, ma so anche che una giornalista come te, che delle verità aveva fatto bandiera, in queste righe non troverà malanimo ma solo la descrizione di situazioni che forse già conoscevi e delle quali, nell'ultimo periodo, hai avuto modo di apprezzare il peso.
Ti sia gradito il saluto di un sconosciuto, che le circostanze hanno reso fratello, l'abbraccio... e un arrivederci che, non offenderti, spero il più lontano possibile.



Commenti

  1. Condivido il tuo pensiero. Cari saluti.

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