domenica 30 giugno 2019

La violenza del tempo

Qualche giorno fa un amico mi ha mandato la poesia. che qui sotto ripropongo.
Non mi pare sia criptata, se perfino uno gnocco (come me) è stato in grado di leggerla, forse di capirla, probabilmente di interpretarla in giusta misura. Magari ad capocchiam  (licenza poetica in latino maccheronico)...
Mi piace pensare che, semplicemente, gli sia piaciuta e l'abbia voluta condividere con me. Mi è di supporto il fatto che entrambi siamo su quel binario, in due vagoni intercomunicanti come i vasi del noto fenomeno fisico, con il via vai del racconto di ricordi... e di acciacchi reciproci.
Purtroppo le poesie in genere sono come pietre piatte che rimbalzano sulle acque placide di un lago, o anche del mare quando la bonaccia lo rende possibile. Certo, in un fiume come il Piave, nonostante il suo placido e calmo mormorio, sarebbe difficile superare i due saltelli (anche perché pare che una sola volta nella sua storia sia stato in quella condizione; infatti poco dopo appariva infuriato e la pietra l'avrebbe rilanciata in fronte a chi aveva tradito i suoi sogni).
Dicevo, le poesie sono pietre piatte che ad ogni rimbalzo risvegliano pensieri, ricordi, situazioni (un tempo magari contingenti, limitate nel tempo, poi via via cronicizzate e senza movimentazioni in vista di un futuro). Ed è abbastanza umano adattarne il senso al proprio singolo personale.
Così non mi ci è voluto molto a specchiarmi nell'immagine proposta, a suo tempo dal poeta e oggi dall'amico.
Càpita ogni tanto, e col passare del tempo càpita sempre più spesso, di sentirsi vagoni vuoti, abbandonati, in cui solo qualche animale randagio ogni tanto va a cercare rifugio.
All'apparenza vuoti, ma pieni di ricordi, di memorie di un vissuto ormai lontano, che porta a sogni talvolta dolcemente amari, che ad ogni risveglio sbattono contro realtà non più prevedibili, disintegrati già prima di vaporizzarsi al primo chiarore di ogni mattino. 
Depositati su un binario morto, non a caso così definito: un binario senza futuro, destinato al riciclo di tronconi di metallo mangiati dalla ruggine.
Il tempo è responsabile anche di questo senso di abbandono.
Quel periodo infinito che va ben oltre la poesia di Leopardi (che lo racconta in chiave di spazio fisico che forse ha una fine, anche se fuori dalla portata degli umani), che comunque al termine ne dà una chiusa in agrodolce. Succede raramente, ma succede...
Il tempo non dà la possibilità di naufragare dolcemente, il tempo è violento, è crudele... quando non affonda di brutto ferisce, senza pietà, martirizza sadicamente in attesa di infliggere la stoccata finale con la medievale 'misericordia' che mette fine al tormento della vittima e al suo divertirsi con essa.
In gioventù si è locomotive, che le frecce d'oggidì avrebbero fatto un baffo, sempre avanti, ostacoli presenti solo per essere abbattuti; poi si diventa treni espressi, veloci con giudizio, poi diretti, e infine accelerati... ancora in corsa, ma felici per ogni sosta a rinfrescare le già stanche membra.
E infine semplici vagoni, vuoti e abbandonati su un binario... morto.
Il tempo è come la macina del mulino di Pasternak che, al grano che piagnucola in vista del suo tristo destino, consiglia di adeguarsi. Il tempo macina, tritura, schiaccia, e per quanto ci si adegui è difficile accettare, adeguarsi appunto, al suo progredire, che non ha un inizio definito e neppure una probabile fine.
Sembra in effetti che tutto finisca, quando quel vagone vuoto viene demolito... ma lui, il tempo, non finisce... Il tempo è la vera eternità. 
O carro vuoto sul binario morto
di Clemente Rebora (Milano1885- Stresa1957)

O carro vuoto sul binario morto,
Ecco per te la merce rude d’urti
E tonfi. Gravido ora pesi
Sui telai tesi;
Ma nei ràntoli gonfi
Si crolla fumida e viene
Annusando con fàscino orribile
La macchina ad aggiogarti.
Via dal tuo spazio assorto
All’aspro rullare d’acciaio
Al trabalzante stridere dei freni,
Incatenato nel gregge
Per l’immutabile legge
Del continuo aperto cammino:
E trascinato tramandi
E irrigidito rattieni
Le chiuse forze inespresse
Su ruote vicine e rotaie
Incongiungibili e oppresse,
Sotto il cielo che balzàno
Nel labirinto dei giorni
Nel bivio delle stagioni
Contro la noia sguinzaglia l’eterno,
Verso l’amore pertugia l’esteso,
E non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe,
Mentre la terra gli chiede il suo verbo
E appassionata nel volere acerbo
Paga col sangue, sola, la sua fede.

Cade a fagiolo questa striscia di Snoopy, fresca di covata, che dà una visione filosofica di tutto quello che fa parte del passato, dei ricordi, dei rimpianti. Peraltro, senza i ricordi quel vagone sarebbe il vuoto assoluto, ferma restando la piccola speranza. 
Piccola speranza generica, senza mete o richieste... che su un binario morto sarebbero campate in aria, sogni e niente più...


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