lunedì 17 dicembre 2018

"Per un bicchiere di latte"

Il virgolettato indica chiaramente che si tratta del titolo di un libro.
Ne avevo letto una recensione, piuttosto vaga per la verità, in vista della sua presentazione non ricordo più dove. A cui peraltro non avrei partecipato, dato che si sarebbe, forse, parlato di un argomento per me, ieri oggi domani, difficile da affrontare.
Andare e fare scena muta non rientrava nelle mie corde.
Ho preso il libro più o meno alla cieca, con la speranza (ma forse più con il timore...) di trovare risposte a domande contingenti.
Risposte che già conoscevo.

Nessuna prefazione; meglio così, le prefazioni limitano il campo, indirizzano già a qualcosa che magari non corrisponde a quello che si prova soggettivamente al termine di una lettura.
E neanche postfazione; giunto alla fine di una lettura mi faccio un'idea tutta mia, che potrebbe non collimare con quella di colui che la propone.

Latte: penso al primo alimento dei neonati, perlomeno quelli nati da mammiferi. Finite le poppate dal seno materno, resta nutrimento principe, sovente fino al primo bicchiere di vino che indica il passaggio al gradino successivo all'adolescenza. Non ancora alla maturità. Questa si ritiene raggiunta quando il latte viene sostituito da altre bevande o intrugli che il più delle volte fanno capire che la maturità è ancora lontana a venire.
Ma restiamo sul latte.
Solitamente si tratta di latte vaccino, o di ovino... ma volendo c'è anche il latte di mandorla, o latte non destinato al consumo orale, tipo il latte detergente per lo strucco femminile.
Non avendo potuto abusare di questo alimento né nella primissima infanzia né nella successiva adolescenza non ne ho grandi ricordi.
Forse nato già maturo, col tempo mi sono ritrovato come una pera dimenticata sull'albero, troppo matura per essere degnamente consumata, destinata a finire concime per la crescita di erbe varie, note come gramigne, perloppiù causa di allergie.
Così pensando al latte, vado subito al ricordo di Poppea, che col suo latte di asina, a suo tempo, aveva eccitato le fantasie di gioventù. Ma non credo che fosse quel latte la causa di quelle... svolazzate.
Pare che alcune Spa in cerca di emozioni sfrenate lo stiano richiamando in vasca. Ma c'è il fondato dubbio che, con la scarsità di equine a portata di mano, possa trattarsi di latte creato in laboratorio; la chimica oggi fa miracoli.

Quanto detto finora non ha niente a che fare con il libro di cui vado a parlare.
Però quel "per" mi aveva portato, prima della lettura, a un tentativo di indovinare cosa avrei trovato nel libro ancora intonso.
Per sentito dire, poi confermato dalla lettura, Console era, ed è, appassionato di motori.
Le moto di grossa cilindrata e le vetture dette di grossa cilindrata... per me, e forse per alcuni altri, di 'enorme' cilindrata, sia le moto che le auto, fuorissimo dalla mia portata.
Già il titolo mi aveva portato a Indianapolis, alla sua 500 Miglia formula Indy.
Avevo legato il suo bicchiere di latte alla bottiglia dello stesso elemento, scolata o almeno sorseggiata dai vincitori di quella gara, in vece degli champagne Magnum con cui in tutte le altre gare, di Formula 1 e succedanee, si innaffiano a vicenda vincitori e presenti sul podio; allargando poi gli spruzzi a chiunque sia alla portata di questi.
Motori e latte, sarebbe uno strano binomio per la stesura di un romanzo.

Purtroppo nel libro non ci sono riferimenti a quella 500 Miglia, né al latte che festeggia il vincitore di quella gara.
Infatti, per l'Autore, la costante presenza del latte nel suo scritto non è segno di una vittoria, bensì ricordo indelebile di una sconfitta, una di quelle sconfitte che lasciano in chi resta un vuoto incolmabile, per tanti che siano gli anni che fanno sembrare lontano l'amaro di quel calice.
Un bicchiere, mezzo litro, una caraffa di latte, non possono essere una specie di bianchetto a cancellare una vita, a modificare un destino.

La quarta di copertina presenta "Per un bicchiere di latte" come romanzo.
A sostegno ci sono tutti gli ingredienti per renderlo tale: una gioventù spericolata, al limite dall'essere letteralmente traviata; rimorsi e rimpianti; dolori, psicologici prima e fisici poi; i rialzi dopo cadute devastanti... tutto al plurale. Solo una voce è rimasta al singolare: l'amore.
Alla voce 'amore' l'Autore ha inserito un solo nome, quasi a invitare a una forma di romanticismo vecchio stampo, ormai (purtroppo) caduto in disuso.
Tra le altre cose, lui non credente, ha infilato anche una preghiera al Cielo in uno dei tanti momenti di crisi. Non crisi spirituale: uno di quei momenti in cui tutto appare perduto, nei quali anche qualunque appiglio può essere utile al loro superamento. Non al punto di gridare al miracolo quando ciò avviene...

Avverso la definizione di romanzo c'è l'uso della prima persona nello svolgimento di tutto il racconto. Un po' raro nei romanzi tout court.
In aggiunta la messa in campo del nome stesso dell'Autore affidato al protagonista.
E, non bastasse, pure del cognome.
E i riferimenti, precisi geograficamente e attuali. Altri interpreti, corollario logico alla vicenda, indicati solo con le qualifiche, ma facilmente individuabili, direi con precisione millimetrica.
Come fosse una biografia. Un'autobiografia.

Potrebbe essere una biografia romanzata, e passerebbe indenne la pignoleria dell'estensore di questo commento.
Quanto all'amore (documentato da immagini oltre che da reiterate dichiarazioni che solo un innamorato [che il volgo direbbe 'cotto'] può esternare senza tema di apparire fuori tempo) mi dà l'impressione di un caldo mantello steso a coprire, e scaldare, un passato di balordaggini e sofferenze da dimenticare.
Tornando a Indianapolis, oltre al latte del vincitore, ha un'altra prerogativa: l'avere introdotto sulle vetture concorrenti nella 500 Miglia il primo specchietto retrovisore.
Ecco, che sia romanzo o biografia, il testo di questo libro fa pensare a uno specchietto retrovisore virtuale, da cui Console ha riportato la visura, quasi fosse una cronistoria.

E se, alla fin della ventura, anziché romanzo o biografia, quanto raccontato fosse solo il riporto di un sogno?
Un sogno lungo 36 anni... mica bruscolini.



2 commenti:

  1. E poi vedo questa recensione, diversa da tutte le altre e mi chiedo chi sara questo gatto nero che tanto in fondo riesce a vedere...
    Ma poi si sa, i gatti sono dei in terra e capirne i poteri ci è proibito, quindi prendo atto di ciò che ho letto e quasi felice torno al mio sogno.
    Grazie, Albino

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    1. I gatti, soprattutto quelli neri, sono tutt'altro che dei in terra. L'unica loro dote, dei gatti intendo, ammesso che di dote si tratti, è la curiosità. Ad alcuni basta gettare un gomitolo di lana e ci impazziscono. Ad altri capita che, mentre sonnecchiano pigramente sul ciglio di una strada, passi un Martino (non il santo, diciamo una via di mezzo tra Lutero e King) che, anziché una pallina gli butti tra le zampe, che so, un libro per esempio, e questo gatto (nero per caso) ci si sciali, e gli venga bene parlarne.
      Grazie a te, in non molte righe hai raccontato un mondo ai più ignoto, e che meriterebbe una maggiore attenzione. Sai, dice il saggio, non di soli tumori muore l'uomo...
      Al volo: buon anno e soprattutto buona salute.

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