venerdì 16 novembre 2018

In illo tempore

In illo tempore è l'incipit usuale di molti racconti evangelici. Indica un tempo senza tempo, comunque inteso come lontano, molto lontano. Ebbene, a quel tempo, tra le svariate attività che hanno occupato la mia vita, immagazzinate poi come esperienze, c'è anche quella di fiorista.
Attenzione: fiorista, non fioraio. Venditore di fiori, non coltivatore degli stessi, anche se nell'uso comune i due termini si equivalgono. Mai avuto il pollice verde; semmai il mio pollice era nero... di inchiostro.
Anche definirmi fiorista, a dire il vero, è una forzatura, un alzarmi di grado assolutamente abusivo... In realtà ero un aiuto-fiorista, e perfino così quell'abito mi starebbe molto largo.
Era andata così: lei, la moglie, aveva voluto la bicicletta del negozio di fiori e io dovevo pedalare.
Nel vero senso della parola: non aveva la patente e non la voleva, da qui le levatacce prima dell'alba per portarla al mercato specifico per fioristi, le consegne delle varie composizioni o piante, il disbrigo delle pratiche burocratiche che, a confronto del peso specifico di quell'attività, erano più pesanti che le alzate mattutine (per fortuna non a cadenza quotidiana).
Un'attività che, volente o nolente, ha lasciato ricordi che hanno caratterizzato un discretamente lungo periodo della vita lavorativa.
Piacevoli e anche amari.
Ripropongo uno di quei ricordi, uno tra quelli che più hanno lasciato il segno
.
Ho rubato un fiore 



I capelli li ho ancora tutti, o quasi.
Sommo oltraggio alla mia fede granata, sono bianchi e neri, sale e pepe; diciamo allegramente brizzolati.
Vado a raccontare un episodio del mio periodo floricolo, che forse ha contribuito all’innevamento della mia chioma.
Erano venuti in negozio marito e moglie a ordinare un cuscino per un defunto. Non doveva essere un parente, né stretto né prossimo né lontano, perché non apparivano addolorati più di tanto per la dipartita.
Per quel poco di esperienza accumulata, mi erano sembrati più seccati del ‘dovere’ di partecipare a quel lutto.
Pesati i soggetti, avevo proposto, in alternativa al cuscino, un puff, che sarebbe poi un cuscinotto rotondo, contenuto nelle misure e nella spesa.
Fiori semplici, nastro adeguato, scritta spartana, costo sostenibile senza patemi.
Erano talmente compunti nel dolore, che se avessi suggerito di lasciar perdere i fiori, offrendo in loro vece un abbraccio consolatorio ai parenti, avrebbero raccolto volentieri il consiglio.
Preso l’ordine, fatto il puff, con la solita Simchetta tuttofare lo avevo portato a destinazione, alla camera mortuaria di un ospedale della città.
La camera mortuaria è una specie di deposito, in cui i cadaveri attendono la successiva sistemazione nelle casse e l’avvio alle rispettive ‘camere ardenti’.
Non so se chi legge abbia mai avuto modo, non dico di frequentarle, ma solo di passarci, magari per errore o per necessità.
Per chi non le conosce, sappia che sono di una freddezza e di una desolazione senza uguali. Si ha un bel da dire che lì, o in posti similari, dobbiamo finirci tutti: visitandole da vivi la reazione di brividi alla schiena viene spontanea.
E non sono brividi da freddo.
Questa camera era situata in una specie di scantinato, la porta spalancata, illuminazione al limite dell’inciampo.
All’esterno un cortiletto, deserto.
All’interno, una serie di tavoli di marmo lungo una parete, della misura dei letti singoli; su ciascuno era adagiato un cadavere, ricoperto da un lenzuolo.
Una targhetta di cartone, attaccata con cerotto sanitario ai piedi del tavolaccio, con i dati dell’ex vivente, per un pronto rintraccio da parte degli addetti delle onoranze funebri.
Lungo la parete di fronte a questi ‘lettini’, c’era un lungo ripiano, con varie attrezzature, pile di lenzuola, sacchi di cotone e altro non individuabile.
Nel locale, più o meno ancora vivo, c’ero io.
E 'loro'.
Trovato il mio ‘cliente’, avevo depositato il puff ai piedi del suo giaciglio, e stavo per andarmene.
Andarmene è eufemistico, più esatto sarebbe ‘per scappare’.
Ma non era giornata per una fuga, peraltro ingloriosa: con la coda dell’occhio mi era ‘sembrato’ di vedere qualcosa che si era mosso sul ripiano degli attrezzi.
(Il gatto è lontano parente del coniglio, quando è il caso anche della lepre, talvolta del giaguaro; di diverso da questi ha, forse, la curiosità, che, sovrapponendosi alla fifa e alla velocità di fuga, gli infonde un coraggio che di solito non ha).
Avevo guardato meglio, e tutto sembrava tranquillo.
Il battito del cuore, nel frattempo, era ridotto ai minimi termini; convinto che il movimento fosse stato frutto di stupida fantasia, alimentata dall’ambiente, e mi stavo allontanando…
No, accidenti, su quel ripiano qualcosa si muoveva!
Non me l’ero fatta addosso solo perché tutto di me si era ristretto a tal punto da non consentire movimenti corporali di sorta.
Gola, cuore, stomaco, intestino e canali evacuativi… tutto bloccato.
La tentazione di una fuga precipitosa era fortissima, ma la curiosità lo era di più.
Avevo individuato, nella semi oscurità, il punto preciso di quel movimento.
Mi ero avvicinato a una copertina, stesa in lungo su quel tavolato; allungando la mano per sollevarla, questa si era di nuovo agitata, con mio conseguente soprassalto.
Ma ormai non potevo tornare indietro.
Sollevatala, da sotto era volato via un passero, terrorizzato a sua volta, quasi urtandomi nella fuga.
Neanche il tempo di chiedergli come fosse finito lì sotto.
Ed era stato il primo botto a un sistema nervoso ormai fatto a budino.
Il secondo era stato la scoperta, sotto quella copertura, del corpicino di un bambino, una creaturina che forse aveva fatto in tempo a vedere in che razza di mondo era finito, e aveva preferito dire: ‘grazie, passo la mano e me ne vado’.
Fortemente scosso (se doveste leggere ‘sconvolto’, sappiate che non siete stati colpiti da un attacco dislessico: è la vera verità del mio stato d’animo in quell’istante, e per parecchi lunghi istanti successivi), non mi era neanche passato per la mente l’abbinamento del passerotto con l’anima di quel bimbo che, finalmente libera, volava verso il cielo.
Ci ho pensato molto tempo dopo, ricordando.
Racconto, e dopo tanti anni posso anche sorridere, pensando al passerotto spaventagatti, ma gli occhi sono gonfi, come allora.
Ero andato al mio puff, avevo tolto un fiore, una modesta gerbera bianca (che è come una grossa margherita), e l’avevo messo sotto la copertina, a fianco di quella piccola creatura, ormai ex tale.
Sono sicuro che il mio ‘cliente’ non se la sarà presa a male per un innocente furtarello.
Anzi, mi piace pensare che si siano ritrovati in un fantastico prato verde punteggiato di fiori, e che il bambino l’abbia restituita, ringraziandolo per il prestito.
Non sono passati mesi o anni, sono passati parecchi lustri, ma quel bambino, quel passerotto e quella gerbera sono ancora in me, li ho assimilati e, quando sarà ora, li porterò con me, oltre 'quella' porta.

3 commenti:

  1. Non sono mai entrata in un obitorio, ma credo che alla vista di quel corpicino sarei morta anch'io.
    Fortuna che l'immagine di tua moglie che vuole la bicicletta che tu, però, pedalavi mi ha fatta sorridere. E non poco.
    Ecco. Ho dimenticato quel che volevo dirti.
    Nel dubbio, ti informo che anch'io non ho il pollice verde.
    Buon fine settimana.

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