venerdì 2 novembre 2018

Riciclo di poesia

Da un libretto, piccolo quanto prezioso, editato nel 1984 da Ruggero Battaglini, editore in Parma, nel 1984, prendo, tra altre di Autori vari, questa poesia in vernacolo romagnolo.
Non c'è un motivo particolare per offrirla: semplicemente mi piace e se qualcosa piace il condividerla raddoppia il piacere.
Alitata da Leonardo Maltoni nel 1979. Di questo Autore so poco, l'ho scoperto e apprezzato abboccando all' "amo" gettatomi da Ruggero, e che qui ancora ringrazio. Giornalista, scrittore, insegnante, nato nel '36 a Cesenatico e morto, giustamente rimpianto dalla Romagna tutta, a Cesena nel 2016. E poeta, che definire dialettale sarebbe riduttivo.
A questa ho fatto seguire la lettura di altre sue poesie, sempre in romagnolo, e tutte mi hanno lasciato un misto di dolcezza amarognola, quasi il ricordo dei rametti di dulcamara che suggevo da ragazzino nei tempi di colonia marina.
Di Leo Mantoni propongo questa poiché la trovo divertentemente sentimentale.
Chi ha voglia, e tempo, la legga nel dialetto originale; potrebbe essere l'occasione per cominciare a capirsi, visto che l'italiano, lingua molto più antica e sempre bella, sta lentamente scomparendo, storpiato senza pietà, senza peraltro dare spazio ai dialetti, che sono la lingua che tutti abbiamo poppato per prima.

L'imbarìgh

Da quand ch’ho vèst che i’an i ciàpa via,
che mor i dè senza un po’ ’d rimissiòn,
ho mes da un chént la mi reputaziòn
e am so zarchè e mi post in ‘t l’ustarìa.

D’in sdài in ‘t’la scaràna ad lègn e ‘d paja,
la nòta la’s strabìga pièn pianìn,
un zìgar, un sbadài, un pér ‘d quartìn,
do ciàcri, e ac-sé… a m’ingòz fin a la scaja.

E cun la testa pèrsa in ‘t un élt mond
cun la chitàra a bagàt una canzòn
par zarché and chilzè via che magòn,
ch’l’ha ardòt la mi vita a un mér ad piomb.

L’ingarbòj ad tot i dè, d’incùa e ad ììr
par un pér d’ori ài las in ‘t’un cantòn
e vers e zìl a soffi un’uraziòn
ch’im lassa sté pr’un po’ i mi pansìr.

Pu a m’imbarìgh pien pien, cun discreziòn,
a stagh so e a m’invèj longh a la stréda,
a trabàl cùme un scàf a l’ingulfèda
fin che a mardùs in péta a e mi purtòn…

… E a lè a m’afèrum, e quési cun rispét
a guérd cun i guzlùn in ti oc cla stéla
che a guardèva, agrapé a cla burdèla
che un dè la m’ha vlù ben. E am vagh a lét.


L’ubriaco

Da quando ho visto che gli anni scappano,
che muoiono i giorni senza pietà,
ho messo da parte la mia reputazione
e mi sono cercato un posto all’osteria.

Seduto su un sedia di legno e di paglia,
la notte si trascina pian pianino,
un sigaro, uno sbadiglio, un paio di quartini,
due chiacchiere, e così bevo fino alla sbornia.

E con la testa perduta in un altro mondo
con la chitarra rovino una canzone
per cercare di calciare via quel magone,
che ha ridotto la mia vita a un mare di piombo.

Le delusioni della vita, di oggi e di ieri
per un paio d’ore le lascio in un angolo
e verso il cielo soffio una preghiera
affinché per un po’ i miei pensieri mi lascino in pace.

Poi mi ubriaco pian piano, con discrezione,
mi alzo e mi avvio lungo la strada,
vacillo come una barca nella tempesta
finché mi trascino di fronte al mio portone…

… E lì mi fermo, e quasi con rispetto
guardo con le lacrime agli occhi quella stella
che guardavo, abbracciato a quella ragazza
che un giorno mi ha voluto bene. E vado a letto.



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