martedì 26 giugno 2018

Molestie

A proposito di molestie...
Ventiquattrenne, senza famiglia, educato, timido prossimo all'ingenuità.
Ingenuo al limite della stupidità.
Così si descrive, sommariamente e modestamente, il personaggio di questo racconto.
Era stato assunto (a tempo indeterminato) in uno stabilimento nuovo di zecca.
Il 'tempo indeterminato' dopo una cinquina di mesi aveva chiuso i battenti.
Era stato inventato a scopo elettorale. In quella tornata il titolare dell'impresa era stato, come si dice, trombato, e aveva chiesto il fallimento.
Il tribunale aveva nominato un curatore, nella persona di un notaio molto noto in città.
Con un altro centinaio di persone, il nostro aveva perso stipendi e liquidazione, e risultava inserito nella lista dei creditori.
Per seguire l'andamento della vicenda in vista di un (improbabile) almeno parziale recupero, ogni tanto si recava nello studio del professionista. Erano bene accolte le visite singole, onde evitare che i malumori sfociassero in tumulti da piazza. Il singolo al massimo avrebbe dato in escandescenze, facilmente controllabili col ragionamento o, estrema ratio, con l'intervento manuale dei numerosi colletti bianchi che vagavano nell'ufficio.
Il quale ufficio, già nella parte aperta al pubblico, aveva le dimensioni dell'aula di un tribunale.
Una piccola piazza d'armi, con tanti fantaccini, e altrettante fantaccine, intenti a leggere scartoffie e a rispondere ai visitatori su comunicazioni o aggiornamenti delle pratiche o appuntamenti personali col dottore-avvocato-notaio galattico.
Ogni tanto, dopo la visita, il nostro si ritirava con l'assegnazione di un obolo, dato in chiave calmieratrice di proteste furibonde.
Più che l'obolo (che in effetti era poco più di un'elemosina allungata a uno sciancato fuori dalla chiesa), a calmare le acque erano i sorrisi pieni di comprensione delle impiegate.
Una di queste, in una visita all'ufficio verso all'orario di chiusura, aveva chiesto al pivellino se  avesse la macchina e se fosse disponibile a darle uno strappo fino a casa, poiché aveva un impegno a breve e con tram e bus avrebbe fatto tardi.
La macchina c'era, la prima in assoluto, una 500 Fiat di seconda mano, bianco sporco l'esterno ma tenuta come un salotto all'interno.
Tenuta pulita non in previsione di grandi performance amatoriali (che, per sentito dire, erano di moda a quel tempo tra chi poteva permetterselo), ma perché era stato educato a tenere pulite tutte le zone di frequentazione: valeva per il posto di lavoro, per la cameretta ammobiliata che lo ospitava e, appunto, l'autovettura (ancora oggi, nel citarla come 'autovettura' arrossisce un pochino; in effetti era una scatoletta di sardine svuotata del suo contenuto ittico. Ma era anche l'unico suo vero possedimento).
Era una bella ragazza, ne sapeva il nome avendola sentita chiamare da colleghi d'ufficio.
Si chiamava Anita, capelli neri, lunghi e lisci, aveva circa la sua età.
Era socia del CAI e aveva colto l'occasione del viaggio in comune per raccontargli le bellezze dei monti, le nottate in tenda, le baldorie di gruppo nei prati montani...
Il 'tassista' era fresco di patente, quindi ascoltava interessato i racconti della famciulla, tenendo però molto più d'occhio il percorso che lei via via le indicava e che gli era nuovo.
Il poverello aveva ascoltato, neanche pensando a gesti o parole che la potessero fare, giustamente, inalberare.
Nello scambio di informazioni reciproco, le sue erano limitate al minimo, anche perché oltre quel minimo non ne aveva. Dalle carte del fallimento, probabilmente di lui ne sapeva più lei.
Abitava, forse, in un quartiere popolare. Il "forse" è dovuto al fatto che, scesa dall'automezzo (risatina sarcastica) era entrata in un bar e lì era rimasta.
Nel giro successivo, ufficialmente in cerca di un conforto monetario, ma in realtà per rivedere la donzella, con la recondita speranza di intavolare con lei un discorso che andasse oltre le montagne-tende-prati...
Non era nella parte dell'ufficio destinata ai visitatori.
Non aveva chiesto sue notizie.
Non aveva lasciato messaggi tipo "Ditele che la aspetto fuori", che poteva essere travisato e visto come una elegante minaccia.
Aveva trovato un posto di parcheggio da cui, nello specchietto retrovisore, avrebbe potuto vedere l'uscita degli impiegati per poterle offrire un passaggio.
Nel piccolo riquadro aveva visto l'uscita di una frotta di quei fantaccini.
E lei...
Che parlottava con loro, indicando col braccio e l'indice tesi in una direzione che, per pura coincidenza, gli passava sulla testa e lì si bloccava.
In seguito a quell'indicazione il gruppetto si era mosso in quella direzione, con l'aria apertamente minacciosa.
Che fare?
Educato, timido, ingenuo, stupido, erano aggettivi che potevano pure starci...
Coraggioso, proprio no; lo fosse stato in una simile circostanza, agli aggettivi qualificativi già detti avrebbe dovuto aggiungere imbecille, e pure un po' cretino.
Avrebbe dovuto spiegare a un branco di bulli spinti da una bulla... spiegare cosa?
Aveva messo in moto e si era allontanato.
Più avanti era tornato da quel curatore; solito via vai interno, di essa nessuna traccia.
Non poteva essere stato ricordato, quindi aveva chiesto notizie di Anita, con falsa nonchalance.
Non c'era più, era stata licenziata perché esaurita.
Secondo un paio di fantaccini era letteralmente pazza.

In questi tempi di molestatori seriali, il sogno nel cassetto dell'individuo losco che qui racconta, e che qui si propone come unico non-molestatore seriale, è che un bel giorno gli arrivasse una bella denuncia per molestie, avanzata da una certa Anita, socia CAI, amante della montagna, delle tende ed entusiasta dei prati in fiore.
Solo per sapere come, secondo lei, sarebbe andata a finire una storia mai cominciata.



1 commento:

  1. Ciao Pietro. Vieni a trovarmi sulla mia pagina Facebook Professor Perleaiporci.
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