mercoledì 2 maggio 2018

Cara Terra, usa&getta

A margine dell'Earth Day 2018, per noi Giornata della Terra, appena "festeggiata", una breve carrellata su quella che è la situazione dei rifiuti in genere e delle plastiche in particolare.
Tre immagini che dicono più di tante parole.

La prima è quella più conosciuta, ampiamente divulgata dai media e dal web. Una delle tante isole "artificiali", dove prima o poi sarà concesso costruire, non appena il troppo carico toccherà il fondale.
Si comincerà con le palafitte per arrivare poi a grattacieli in gara per quello più alto.

"Così tra questa immensità s'annega il pensier mio e il naufragar m'è dolce in questo mare"... 

... poetava Giacomo Leopardi due secoli fa nel suo 'Infinito'. In duecento anni l'ermo colle si è trasformato in montagne di rifiuti, in putride isole artificiali, le cui cime ed il cui mare a tutto invoglia meno che a salutari arrampicate o a nuotate corroboranti.
La seconda immagine, leggermente meno nota (almeno a me, ma non faccio testo essendo molto in arretrato con le belle notizie) apre la stura a interpretazioni le più diverse e colorite.. 


Patrimonio dell'umanità dal 1988, in origine era stata cooptata per la salvaguardia della fauna marina e isolana, con boschi di corallo e animali tipici dell'isola. Come sia stato possibile un accumulo di rifiuti così vergognoso, visto che l'isoletta non è più stata abitata e che, grazie alla conquista 'ecologica', è ormai inabitabile, è un mistero.
A questo punto mi chiedo perché le nostre discariche (senza riferimento ai monumenti abbandonati che fanno storia a sé), non possano fregiarsi anch'esse del prestigioso titolo.
E la Terra dei Fuochi?
E i nostri incendi boschivi?
Non meriterebbero di ottenere l'ambito riconoscimento?
Siamo forse i figli della serva?
Non sono questi monumenti (ok, all'imbecillità) degni di salvaguardia?
Secondo una ricerca a livello mondiale siamo terzi consumatori di plastiche, dopo Messico e Thailandia. Già medaglia di bronzo, puntiamo a salire sul podio più alto.
E siamo sulla buona strada, se fosse vero il sondaggio che racconta di come due italiani su tre ritengano migliore e più sicura e più salubre l'acqua venduta in contenitori di plastica. 
Il 67%...
Se parlassimo di risultato elettorale, un esito simile vorrebbe dire essere a un passo da una possibile, anzi probabile, dittatura.
Senza mescolare diavoli e acque sante, è fuori luogo parlare di dittatura della plastica sul nostro vivere quotidiano?
Una dittatura che rende ai concessionari qualcosa come circa tre miliardi di euro (dati del 2015), solo in Italia. Per un liquido prezioso che ufficialmente è gratuito.
Tre miliardi per contribuire ad affossare (meglio: plastificare, imbalsamare, mummificare) il nostro pianeta. 
E noi.

So che sono discorsi che oggi sono accolti con sbadigli di sufficienza, ma mi piace andare indietro nel tempo e ricordare quello che eravamo e di come si viveva.
Le acque in bottiglie di plastica fecero la prima comparsa negli anni '60; erano una novità, un segnale del mettersi al passo col resto del mondo moderno dopo le batoste della guerra.
Sembravano "americanate" e come tali significavano il top della leggerezza e del risparmio.
Prima l'acqua detta "minerale" era venduta in bottiglie di vetro, da un litro (non so se per scelta o per legge). Ricordo bene, nella zona in cui allora bazzicavo, la San Bernardo, ma credo che altrove ci fossero acque altrettanto valide sotto l'aspetto depurativo, con cui ammiccavano a chi poteva permettersele.
L'acqua del rubinetto, quando c'era, era un bene di tutti. Senza studiare più di tanto sul suo contenuto di metalli o prodotti chimici naturali. 
In colonia marina, noi ragazzini andavamo alla disperata ricerca di gocce d'acqua succhiando direttamente con la bocca dai rubinetti, mammelle metalliche per gole riarse dalla salsedine. Forse quelle gocce contribuivano alla formazione di anticorpi, altro che depurare.
Erano lacrime di H2O, senza etichette e senza pubblicità.
I vetri di allora, tutti, erano "vuoto a rendere", ossia al primo acquisto si pagava una quota di cauzione che garantiva il rientro del vuoto. In cambio di altro pieno, di acqua, birra o altri liquidi. 
Un modo per vincolare l'acquirente a una fedeltà continuativa, salvo perdere il costo del vuoto.
Pesate oggi, si trattava di poche lire, ma all'epoca avevano la loro considerazione nell'economia domestica.
Un po' quello che succedeva con le bombole del gas, che infatti era impossibile trovare nelle discariche o lungo le strade; sarebbe stato come buttare soldi dal finestrino di una vettura.
Le acque dei rubinetti erano naturali; diventavano "minerali" e frizzanti in casa, con l'aggiunta di bustine di idrolitina; cedrate, aranciate, chinotti, nascevano dall'amalgama nel liquido di bustine o di fialette specifiche per ogni prodotto.

Il latte. Era venduto in bottiglie di vetro da un litro, col tappo di carta stagnola. Vuoto a rendere.
O con bottiglie di vetro o con contenitori in acciaio si faceva rifornimento giorno per giorno nelle latterie, che ricevevano il liquido fresco proveniente dalle campagne circostanti, in recipienti d'acciaio inossidabile. Noi ragazzini, più che dal latte eravamo attratti da questi bidoni luccicanti, con manici e chiusure a vite.
Le latterie, quelle segnalate dall'apposita insegna, avevano inserito nel banco un contenitore, da cui prelevavano il latte da mescere nelle bottiglie o nei baracchini, per il quantitativo richiesto.
Più avanti avevano visto la luce le confezioni a lunga scadenza, in scatolette di tetrapack, con l'esterno in cartoncino e l'interno in un materiale plastico; quelle che dopo anni e anni non sai se vanno nel rifiuto differenziato carta o plastica.
Usa e getta, ovviamente.
Le latterie pian piano sono sparite, passando ai supermercati la distribuzione dei latti con aggiunte o detrazioni di sostanze, a seconda delle necessità o delle mode.

Nel martirologio delle plastiche, impossibile dimenticare l'uso in campo sanitario.
Nel cui ambito chi ricorda ancora le siringhe di vetro con relativo bollitore?
Sparite, in nome di una sicurezza e praticità innegabili, in un usa e getta che contribuisce alla creazione delle isole citate in apertura di post.
Chi frequenta o visita ospedali, ambulatori o case di cura o di riposo, avrà fatto caso all'uso continuo dei guanti di lattice, sfilati, cambiati e gettati con gesti quasi automatici, in quantità industriali.
Consumo di siringhe usa&getta che si è esteso prima alle abitazioni, poi ai parchi, poi alle spiagge...
I guanti: chi usa ancora quelli di gomma, riutilizzabili fino al loro consumo fisiologico? Sono ancora in uso nelle ditte di spurgo dei pozzi neri o delle tubature fognarie; nelle case sono stati sostituiti dai guanti in lattice, inventati a bella posta per poter essere jndossati una sola volta, quando sfilati sono inutilizzabili. 
Quindi gettati...
Nella differenziata della plastica.



E vogliamo ignorare il settore automobilistico?
Al tempo dei vuoti a rendere delle bottiglie in vetro, le autovetture erano fatte quasi interamente in metallo, erano esclusi gli interni nei quali non erano lesinati i tessuti.
Un incidente stradale, a parte gli eventuali danni fisici, era un ritocco al portafoglio. Limitabile se si aveva disponibile una carrozzeria bene attrezzata.
Esistevano i battilastra, che con martelletti, puntali, ventose, tassi, riuscivano a rimediare i danni, perlomeno quando possibile, con un ritocco sopportabile dei portafogli. I carrozzieri cercavano i migliori, contendendoseli, un po' come avviene oggi per gli chef nei ristoranti. Come questi, i più bravi diventavano bandiera dell'officina, che manteneva la ragione sociale solo in virtù delle fatturazioni.
I periti delle assicurazioni avevano vita facile nel riconoscere, dalle riparazioni metalliche, la gravità del danno e il relativo rimborso.
E le vetture avevano una vita, con un po' di fortuna che non guasta mai, quasi senza fine. Entravano a pieno titolo nel cumulo ereditario alla morte del proprietario.
Oggi? Il più piccolo contatto che provochi una crepetta nella carrozzeria obbliga al cambio radicale della parte danneggiata. 
Paraurti, parafanghi, cofani, tettucci, portiere, interni... ciascuno in blocchi di plastica, non riparabili... qualche bullone tiene insieme il tutto e basta una chiave inglese per denudare completamente il mezzo.
I pezzi cambiati? Al riciclo, come le bottiglie e i guanti e le siringhe e i sacchetti della spesa...

Ufficialmente la plastica, così come il vetro, la carta e il metallo, è tutta riciclabile.
Ufficiosamente, mi chiedo: ma allora tutta questa plastica che ci sta soffocando sui mari e sui monti e nelle città da dove proviene?
Stiamo spendendo soldi a palate per trovare pianeti su cui mandare la nostra spazzatura; non è che gli abitanti di quegli stessi pianeti ci hanno preceduto e ci mandano i loro rifiuti, con tanti saluti?
Corre voce (ma credo sia una notizia falsa, di quelle che vanno tanto di moda oggidì) che questi alieni, senza mai aver messo piede sulla Terra, abbiano piazzato dei meccanismi potentissimi che creano, qua e là a capocchia, una forza centripeta che attrae i materiali plastici, leggeri e indistruttibili, che loro differenziano nei loro pianeti.
Un impianto nel Pacifico, uno nell'Atlantico, altri di potenza minore, sperimentali, anche nel Mediterraneo e nei mari artici.
Avrebbero fatto questo cogliendo gli attimi fuggenti delle notti buie e tempestose (cit. Snoopy), quando sulle acque i traffici sono limitati e le telecamere spente.
Dopo di che gettano i loro rifiuti a casaccio, sui monti e sulle città, nei deserti e nelle pianure: sanno che saranno attratti dai loro marchingegni da migliaia di chilometri di distanza.
E questo, forse, è il motivo per cui i nostri monti e le nostre città, i nostri deserti e le nostre pianure, sono così puliti e senza traccia alcuna di plastificati (altra falsa notizia): finisce tutto nei mari.

Loro, forse, alieni.
Noi, sicuramente, alienati.


Nessun commento:

Posta un commento