sabato 30 marzo 2019

Applausi

Era titolata "Applausi" una canzoncina del 1968, genere pop, lanciata dal gruppo I Camaleonti. Carina nella sua semplicità, orecchiabile, tanto da poter essere canticchiata senza pretese a cinquant'anni dalla sua prima uscita. Dai pochi che ancora la ricordano.
Il testo tratta un argomento che all'epoca era nei canoni obbligati di quasi tutte le canzonette: cuore e amore andavano a braccetto, calmierando un anno di profonde agitazioni, passato poi alla Storia per ben altre rivoluzioni e cambiamenti appunto epocali. Soprattutto nei costumi, nei rapporti tra generazioni, nelle guerre e guerriglie, in uccisioni che hanno cambiato il volto della Storia...
All'epoca a cuore e amore non si aggiungeva "dolore" che, pur facendoci rima baciata, non aveva molto spazio nelle canzonette, e neanche troppo nel discorrere quotidiano; nella baraonda di quell'anno il dolore si viveva, e di dolore sovente si moriva.
Ho fatto una piccola variazione nella prima parte del testo, quella che poi è ripetuta come ritornello: al posto di "amore" ho messo "salute", per trovare un aggancio alla sciocchezzuola di cui voglio parlare.
Veramente, un migliore aggancio lo avrebbe dato il termine "tumore", ma sarebbe stata un'entrata a gamba tesa e diretta nell'argomento, il che non è nelle mie corde. Inoltre, mentre la salute non c'è (più), i tumori ci sono; eccome se ci sono!...
Che poi, cuore-amore e dolore-tumore qualcosa in comune ce l'hanno e va oltre il semplice rimaggio delle poesie o canzonette.
Dunque:

Applausi... di gente intorno a me.
Applausi... tu sola non ci sei.
Ma dove sei? Chissà dove sei tu...
Canta ancora, canta ancora...
ma perché cantare
se la salute non c'è? 

Quando ero bambino (e giuro di esserlo stato, pur se l'impressione che offro della mia infanzia potrebbe far pensare il contrario) la parola cancro era tabù. I 'grandi' non ne parlavano, perlomeno non con noi; da voci raccolte da qualche avventuroso che poi riferiva al gruppo, si sapeva che il cancro non erano i granchiolini di cui andavamo a caccia in colonia estiva marina. Al limite si sarebbe trattato di piccoli cancri, di cancriolini... ma non avevamo informatori disponibili a chiarire la differenza. Il simbolo dello zodiaco che raffigura il crostaceo associandolo al cancro non era stato d'aiuto; aveva solo contribuito alla confusione già innata.
A lungo andare una distinzione l'avevamo capita o, meglio, credevamo di averla capita: il cancro era una cosa che portava dritti alla morte; il tumore, invece, era qualcosa che somigliava a un cancro, ma era curabile. 
'Sapevamo' che di cancro si muore, di tumore no. La nostra conoscenza si fermava lì.
E non è che i libri di scuola ci dessero una mano. C'era un solo dizionario, con tanto di dedica al duce da parte dell'autore, ribadita dal peana obbligato dell'editore, ma non dava lumi alle nostre legittime curiosità.

(Che poi, francamente, quei termini non rientravano nelle nostre priorità di ricerca. Le nostre curiosità infantili erano orientate soprattutto alla scoperta di cosa fossimo, da cosa fosse formato il nostro corpo. Per dire, la ricerca su 'pisello' era andata buca; era un legume, e dava ragguagli sulla sua coltivazione a scopo mangereccio. La successiva su 'uccello' era andata anche peggio, avevamo scoperto dal dizionario che trattavasi di animale munito di ali, atte, appunto, a librarsi in volo. Né più né meno che gli aerei.
Dopo indagini, tanto segrete quanto approfondite, avevamo scoperto che il nostro salsiccino era detta 'cazzo', ma il dizionario proprio non lo citava. Nel prosieguo della ricerca eravamo arrivati alla parola 'pene', e su questo avremmo potuto avere finalmente chiarezza. Infatti: pene, s.m., organo riproduttivo maschile. Niente altro, sapevamo tutto senza sapere niente.
La ricerca del contrapposto femminile si era rivelata più ardua. Se il termine maschile era tabù, almeno quanto il cancro se non di più, sull'esistenza della parte femminile era nebbia assoluta; a parte il vago sentore di una differenza non ben definibile sulla base delle nulle informazioni in merito. In pratica, sapevamo che le madonne, le sante e le suore erano donne, senza sapere che fossero anche femmine, dio, i santi e i preti tutti erano uomini, senza capire perché dovessero essere anche maschi. In pratica la differenza tra i due generi era indicata dall'articolo.
Al rientro da una vacanza dai suoi parenti contadini, un eroico compagno aveva raccontato di avere sentito i grandi parlare di 'figa' o 'fica', non era sicuro della giustezza di una delle due; il dizionario aveva dichiarato senza ombra di dubbio che questi termini non esistevano. A lungo cercare, eravamo arrivati alla 'vagina', e su questa il dizionario ci aveva illuminato: vagina, s.f., organo riproduttivo femminile. Stop.
La scoperta di cosa diavolo fossero, e a cosa servissero oltre alla funzione abituale, era rinviata ai secoli successivi, in presa diretta. Ovviamente da imbranati, per la buona ragione di essere ignoranti assoluti della materia, costretti a capirne qualcosa, mai tutto, direttamente sul campo).

Questa dissertazione, che riconosco essere stupidina ma che fa parte di un tratto importante della mia esistenza, per alleggerire l'argomento che invece voglio andare a toccare e che potrebbe risultare antipatico.
Il cancro (o tumore che dir si voglia) è un accidente serio, amaro, che da un po' di tempo in qua pare diventato oggetto di conversazioni che vanno bel oltre i tabù di mia gioventù. Dirò di più: ho l'impressione che il parlarne sia diventato una specie di business, alla ricerca di plausi e applausi che nulla hanno a che vedere con il tragico di questa malattia.
Plausi: si plaude all'eroismo di chi comunica, senza averne avuto richiesta, urbi et orbi di avere, o di avere avuto, un tumore.
Applausi: non si capisce bene a chi e perché; forse sull'onda dell'applauso ormai abituale rivolto alle bare all'uscita dalle funzioni di ultimo commiato? Essendo basso e, come tutti i bassi, maligno, questi applausi mi ricordano Jannacci nella sua "Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale, per vedere se la gente poi applaude davvero...", ossia come una richiesta di anticipo di quelli che ormai si raccolgono a tutti i funerali.

La stura all'usanza l'aveva data una nota presentatrice, il cui tono nel 'raccontarlo' era stato inizialmente trionfalistico per i tempi e lo sviluppo del male, scoperto curato vinto in pochi mesi. Un 'coraggio' incomprensibile, soprattutto a chi con il cancro vive da anni, fino quasi a conviverci, nella speranza che non esploda di brutto, magari quando sembrava ormai debellato. A pronto seguire, nel giro di pochi giorni, l'uscita di un libro che avrebbe dovuto raccontare un iter curativo che indicava soprattutto nella volontà soggettiva il rimedio migliore per guarire. Con la volontà si può tutto...
Intanto applausi, sotto forma di battimani in studio, ma soprattutto di migliaia di like sui social; e poi la scoperta di essere anche in grado di cantare... il che non guasta, in aggiunta al valore mediatico raggiunto per 'merito' del tumore.
E, a distanza ormai di un anno dal primo exploit, non passa giorno che i media manchino di informare su ogni movimento; ci tengano costantemente aggiornati su ogni accesso per esami di controllo o sedute di chemio, da cui riappare regolarmente rilassata e prossima alla soluzione definitiva del problema.

Poi è toccato al famoso ex calciatore. Propagata prima dai media, la notizia del possesso di un tumore era stata poi rimarcata dalla presenza nello stadio gremito, che gli aveva tributato applausi scroscianti e standing ovation.

Era stata poi la volta del politico di lunga data il quale, cogliendo l'attimo fuggente della presidenza di un consesso senatoriale casualmente gremito, aveva comunicato ai colleghi la sua battaglia a un tumore che da anni lo perseguita. Applausi e standing, ovviamente.

Tra l'uno e l'altra non passa giorno che personaggi più o meno noti offrano il loro essere, o essere stati in passato, colpiti da questa patologia.


Applausi... di gente intorno a te...

Non critico né tanto meno condanno queste esternazioni, e neanche punto a renderle oggetto di polemica. 
Semplicemente mi lasciano perplesso.
E le perplessità costringono a porsi, e a porre, domande.
Nello specifico, una sola, che cito nell'antico dialetto romanesco: cui prodest?
Già: a parte le ovazioni e i like, a chi altri giovano queste esternazioni?
Al di là delle platee immediatamente propense all'applauso, a chi sarebbe diretto il messaggio salvifico?

Passo indietro.
I coming out, le uscite allo scoperto sull'omosessualità, avevano lo scopo esplicito di porre fine a una discriminazione nei confronti di differenze sessuali che i tempi attuali ritengono ormai fuori dalla realtà quotidiana. I primi ad esporsi furono personaggi famosi che, in affetti, ebbero il coraggio di mettere in piazza quelli che il volgo riteneva panni (sporchi) da segretare in famiglia; e anche qui sovente tenuti nascosti. Probabilmente anticipando quello che avrebbe potuto essere un outing di gente malevola che, raccontando questa omosessualità magari con insinuazioni o dubbi anonimi, avrebbe potuto dare l'impressione di falsità di colui che intendeva colpire.
Il risultato si è visto: chi si sentiva in sudditanza per questa situazione, a seguito di questi messaggi, ha preso coraggio e si è esposto. E l'accoglienza mi pare sia stata, nel suo insieme, positiva. Permangono ancora isole di ignoranza, becera all'interno anche di famiglie, che non accettano questo riconoscimento come conquista di una umanità condivisa ma la recepiscono come un regresso. E non mancano reazioni di violenza anche fisica a chi spoglia il suo essere dal velo dell'anonimato.

Testimoni di Geova: hanno il primato nella fama di scocciatori per la divulgazione di idee che attecchiscono in misura inversamente proporzionale all'impegno profuso. Giusto o sbagliato che sia il loro messaggio, questo ha comunque uno scopo ben preciso: convincere a una conversione, all'adesione al loro predicare. La loro pervicacia nella diffusione ha poco riscontro, ma loro insistono fino a diventare, come detto, tipico sinonimo di seccatori.

I venditori porta a porta, di aspiratori Folletto o, in un lontano passato, di enciclopedie in dispensa, o di altri prodotti o servizi: anche questi diffondono (tentano di diffondere) un prodotto il cui piazzamento dia loro un piccolo aggio che, a malapena, gli consente di tirare avanti in attesa di tempi migliori. Stessa cosa vale, in ambito tecnologico, nelle offerte, notoriamente seccanti, di prodotti di consumo o di abbonamenti a gestioni soprattutto telefoniche.

E decine di altre categorie che offrono o chiedono qualcosa a un pubblico definito: chi per divulgare la presa di coscienza di un diritto per secoli ignorato; chi per dare speranze per un 'al di là' di salvezza eterna; chi semplicemente per sopravvivere. Che è la più parte.

Tornando al tema: dicono gli eroi che hanno denudato il loro stato fisico d'averlo fatto per dare coraggio a chi combatte la loro stessa battaglia. Combattere, tipo: se ce l'abbiamo fatta noi, ce la possono fare tutti.
Basta volere.
Stendo un velo sulle differenze e le possibilità di combattimento tra loro, tutti, e quelle dei cosiddetti comuni mortali.
Mi chiedo quante volte costoro si sono trovati in una sala d'attesa per una visita oncologica in compagnia di altri fratelli d'accidente; quanto velocemente hanno avuto accesso ad esami ritenuti indispensabili quantomeno alla definizione chiara e definitiva del male; quanto sono stati limitati nella ricerca di centri e cure all'avanguardia...
Tutte cose che, è ben noto, sono alla portata di tutti: il tumore finisce per rendere appunto fratelli, ma tra questi esistono i figli destinati a un delfinaggio acquisito che garantisce protezioni a un ottimo livello e figli naturali che devono accontentarsi di quello che passa il convento.
I primi, oltre che nel meglio delle cure, danno alla volontà il merito di guarigioni o quantomeno di miglioramenti.
I secondi devono affidarsi alla speranza, questa virtù che, spacciata per fortuna, come questa ha gli occhi bendati, anzi sovente è proprio cieca.

Quando, e mi auguro sia mai, a quanti vagamente citati qualcosa andasse storto, quale sarebbe il messaggio da lanciare in coda al battage mediatico delle loro esternazioni?
Non apertamente dichiarato, potrebbe essere un "lasciate ogni speranza,  o voi ch'intrate..." in questo tunnel di cui avevano fatto intravedere un'uscita?

La trincea di combattimento dei più è la sala d'attesa per una visita oncologica. 
Dieci, venti persone, quasi assiepate in uno spazio che, foss'anche ampio come uno stadio, appare sempre angusto e sovraffollato. 
Solitamente la metà dei convenuti è la parte direttamente interessata al riscontro. Gli altri, e soprattutto le altre, sono persone di accompagno. Di queste, alcune in piedi, per mancanza di sedie e per smaltire la tensione, tentando di far rilassare il crampo allo stomaco e alla mente che l'attesa in quei luoghi propizia.
I primi non parlano molto tra di loro, a meno di una conoscenza in visite precedenti. Ma anche in quel caso, non ci si sbilancia più di tanto. Più che altro si tratta di monosillabi di assenso o dissenso dal chiacchiericcìo femminile che riempie la saletta.
Le seconde appaiono più spigliate, una volta rotto il primo ghiaccio, si scambiano pareri un po' su tutto. Parlano di tutto, di cucina e cucito, di tempo e di figlie gravide, di gioventù passata e attuale...
Mai dell'argomento tumore. 
Non perché non sia ritenuta valida una condivisione della situazione, ma semplicemente perché già si sa perché ci si trova lì, in attesa di una chiamata che non si può differire.
Tacita, forse anche una remora inconscia e scaramantica.
I tumorati stanno rintanati nella propria trincea, forse anche per il timore di trovarsi 'impallinati' da chi sta meglio o da chi sta peggio.
Da chi pensa di stare meglio, ma non si fida più di tanto; o da chi pensa di stare peggio, e purtroppo sovente ci azzecca.
Non c'è mai fretta, nessuno che tenti di passare avanti gli altri; un ingenuo tentativo di allontanare un pochino il momento della verità. Di quella del momento. 
Che è, sempre e comunque, una sentenza.
Chi si trova in queste salette d'attesa è qui per combattere, mai ad armi pari.
L'incitamento al combattimento è pleonastico, attendere la chiamata è già una battaglia.
Niente applausi, qui. 
E neanche commiserazioni pietose...
Quando quelli e queste saranno riconosciute valide in assoluto come cura, o almeno come palliativi, sarà caccia aperta ai talk e ai media per cogliere quanto possibile di questi frutti benefici. E anche gli incoraggiamenti a resistere avranno più senso compiuto.
Per ora, riceverli da chi ha potuto scendere in campo con una corazza quantomeno di metallo dà l'impressione di una presa in giro; che alla fine l'urto violento col nemico la faccia a pezzi è altro discorso. 
Ben diversa la situazione di chi questa corazza se la trova, quando va bene, in cartapesta che ai primi scontri già si lacera, lasciando indifesi e in balìa del destino; che non è mai benevolo.
E il saluto di commiato è un semplice 'buongiorno' o 'buonasera'; l'arrivederci non è contemplato, a meno di aggiungerci 'inshallah' ('se Dio vuole'), poco conosciuto come saluto essendo chiaramente in arabo; molto diverso dal più comune 'a Dio piacendo', visto che è anche 'a Dio piacendo' che siamo qui.

A chiusura di questo pistolotto, immutato affetto e i migliori auguri a tutti coloro che combattono questo maledetto accidente. Con la speranza più sentita e condivisa che, in attesa di un meglio definitivo, tutti abbiano la possibilità di sentirsi corazzati in egual misura.
Allora sì, gli applausi avranno un senso e i like un valore...

Per chiudere, una pillola parafilosofica: i vivi sono morti che per tutta la vita cercano l'eternità; i morti sono i vivi che, raggiuntala alla fin della ventura, meritatamente riposano.  

2 commenti:

  1. conosco molte persone che stanno lottando, qualcuno che ce l’ha fatta e qualcuno che purtroppo ha perso. La speranza è che si arrivi a qualcosa di concreto per tutti.
    A presto

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    1. Appunto, Ernest, il fine di queste righe era proprio quello. Si dice "mal comune mezzo gaudio": non è così, con questo accidente il mal comune c'è, fin troppo comune ormai, ma del gaudio non c'è traccia.
      Grazie.

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