Vigilia di Ferragosto
Non è un bel post, ma, come in altri casi simili, lo "devo" pubblicare. Chi non vuole rovinarsi la festa, passi oltre, non me ne avrò a male.
Un anno fa, vedendoli passare, li avevamo soprannominati "La donzelletta": era stato un soprannome cumulativo, non era il momento adatto a memorizzare i singoli nomi, di chicchessia.
Erano due uomini, maturi, quella maturità che si dà alle persone cui non si riesce ad affibbiare un'età, comunque collocata in quella via di mezzo tra l'adolescenza lontana e la vecchiaia non ancora imminente.
Alti, di quell'altezza sobria che non si fa notare, magri, entrambi con un po' di pancetta, quella che è soltanto un po' di stomaco sporgente da un verticale piatto.
Due fratelli, dovevano avere comprato vestiti in serie, visto che, in tutto quest'anno passato, il loro look non era mai cambiato.
Tutti i giorni, per loro, erano stati uguali al primo in cui li avevamo visti passare (pur se all'epoca i nostri occhi erano appannati da lacrime sempre latenti, in bilico precario prima di cadere nei fazzoletti usa e getta), uno con pantaloni lunghi, maglietta, un gilet su questa, indossato sempre, con pioggia e con sole, quel sole infuocato dello scorso anno e quello ancora di più di oggi, un cappellino con la tesa anteriore rigida (quello, siamo sicuri, sempre lo stesso); l'altro, meno sportivo, senza gilet e senza cappellino, ma per il resto fratello al fratello.
Si distingueva subito, appena spuntavano dall'angolo dell'ala C, la loro camminata, un po' sbilanciata quella del 'cappellino', più ritta quella dell'altro; un camminare che non era né lento né affrettato, che però consentiva loro di portarsi velocemente all'entrata grazie alle lunghe gambe con passo adeguato.
Passavano, un gesto con la mano, un 'buona sera' e sparivano dentro la struttura.
Più indietro, a debita distanza dovuta alle sue gambette corte proporzionate al resto del fisico, con loro c'era una donnetta, già anziana senza essere vecchia, gonna sempre in tinta scura, da cui ogni tanto spuntava l'orlo di una sottogonna bianca, stivalotti d'inverno, scarpe basse dalla primavera inoltrata fino all'autunno, una camicia, di solito a quadretti bianchi e blu, la pettinatura talmente immutata da far pensare a una parrucca.
Qui non ci sono molti motivi per sorridere, ma quando ne capita uno sarebbe un peccato farselo scappare.
Il suo passaggio era stato quasi inosservato per le prime volte, quando, sconosciuti a lei quanto lei a noi, si gettava uno sguardo veloce a chi transitava, per tornare subito ai fatti propri, che altro avevamo per la testa anziché notare i comportamenti degli altri.
In seguito, con il ripetersi invariato di questi, non avevamo potuto evitare di registrarli e farne un (affettuoso) motivo d'ilarità.
Arrivava con passetti frettolosi, accelerati dalla necessità di stare appresso ai due fratelli gambelunghe; quando arrivava davanti a noi c'era una decelerazione improvvisa, non proprio una fermata, un rallentamento abbinato allo sguardo che girava verso di noi, in attesa del nostro saluto in risposta al suo, che era fatto più con gli occhi che con la voce. Ottenutolo, subito ripartiva a passo più veloce, quasi a voler recuperare la frazione di secondo 'persa' per adempiere a un dovere divenuto nel tempo quasi istituzionale.
Ci sembrava una metropolitana umana; quando questa parte 'sparata', da chiedersi dove creda di arrivare, visto che dopo poco si dovrà nuovamente fermare, e appena lo fa si sente un breve tuffo allo stomaco che quasi si protende in avanti, subito rigettato indietro dalla ripartenza. Un attimo, tanti attimi, uno al giorno per un anno.
La sua persona, il suo vestiario, il suo modo di fare timido e impacciato, ci aveva fatto pensare alla "donzelletta" del sabato del villaggio. Per estensione, tutto il terzetto era diventato "la donzelletta".
I due maschi erano figli di un'ospite, la donna ne era sorella.
Per poco più di un anno, tutti i giorni, la scena del loro arrivo si era ripetuta, identica quali che fossero le condizioni meteo e le festività; i due fratelli ogni tanto si alternavano, una volta uno, la volta successiva l'altro, più sovente insieme; la donzelletta sempre presente, sempre con un timido sorriso ogni volta che incrociava il nostro sguardo.
Andavano nel reparto, e ne uscivano spingendo la carrozzina con la mamma e sorella, si mettevano lungo il muro dell'entrata, seduti sulle sedie imbottite, e offrivano a questa signora quello che le avevano portato: uno yogurt, qualche cremetta, un po' d'acqua, regolarmente prelevata volta per volta dal distributore a gettoni. Non era in grado di sorbire altro.
Le parlavano, e le sue risposte erano monosillabi, più pensati che sussurrati: era un dialogo unilaterale, che offriva informazioni senza chiederne.
Questa donna aveva un visino diafano, gli occhi vivi ma non vivaci, il busto eretto contro lo schienale faceva capire un'altezza della persona adeguata a quella dei due figli.
In anno di frequentazione si vengono a conoscere particolari, che uniti come tessere di un mosaico, danno un quadro, non completo ma sufficientemente chiaro, sul passato delle persone.
Avevamo così scoperto che il nomignolo "donzelletta" più che alla sorella metropolitana si sarebbe adattato a lei, alla paziente così affettuosamente accudita.
Da quando era ragazzina, nei tempi duri del dopoguerra, per aiutare in casa prima, per accudire i figli poi, al mattino prima dell'alba, inanellato uno straccio da mettere sul capo, su questo appoggiava un canestro con dentro i prodotti di un piccolo orto, qualche uovo quando le galline li scodellavano nella paglia, e se ne andava in paesi vicini, che tanto vicini non erano, e che il lungo camminare rendeva sempre lontani.
Lungo i sentieri nei boschi, sulle creste delle colline che costeggiano la marina, dove le strade erano migliori, ma più lunghe seguendo queste le coste frastagliate. Rientrando la sera a casa, con i pìccioli raggranellati, pochi sempre, ma bastanti a tenere in piedi una famiglia e a sfamare quei due piccoli, già allora marcantoni sempre affamati.
Una vita da "donzelletta".
Finita in malo modo, in un "dolce far niente" non sognato, tanto meno desiderato.
Ecco, il suo "in sul finir del giorno" è avvenuto la mattina della vigilia di Ferragosto.
Pomeriggio di una vigilia infuocata, in tutti i sensi.
Un'altra signora se n'è andata.
Non ne sappiamo nulla, e mi dispiace. E' rimasta sconosciuta fino alla fine, solitaria come lo è stata la sua ultima degenza.
In questi posti, i malati si identificano in chi li viene a visitare. Se sono allettati, oppure se ogni tanto escono in carrozzine sospinte dalle infermiere o dagli altri addetti, non c'è la possibilità di inquadrarli in una storia di vita, in un qualcosa "che rimanga ne' cuori esuli a conforto". Per chi frequenta questi posti, il sostegno reciproco, la lacrima come la risata, sono indispensabili per sopravvivere.
Mancando i visitatori, mancano le informazioni, e quelle, limitate, di chi assiste queste persone non sono sufficienti a lasciare un ricordo in chi, comunque, un ricordo vorrebbe registrare.
Per se stessi, non per la storia.
Abbiamo saputo della sua morte per la presenza anomala di un sacco di persone. Quello che abbiamo pensato di loro lo abbiamo chiuso nel cuore, ma è facile da intuire.
Ancora vigilia di Ferragosto, da sembrare incredibile.
E' morto un "ragazzo", Antonio detto Antonuccio, 53 anni.
Lo avevamo conosciuto ragazzo e tale era rimasto fino alla fine.
Parzialmente assente fin dall'infanzia, un fisico rotondetto ma non obeso, crisi epilettiche e malanni vari lo avevano tenuto lontano da una vita sociale accettabile.
Andava in giro nella contrada, talvolta spingendosi oltre fino alla marina; si rendeva disponibile per lavoretti presso i negozi della zona, lavoretti che dava l'impressione di volere pagare lui per farli, poiché questo lo faceva sentire utile a qualcosa, a qualcuno.
Il suo tratto identificativo era il saluto: a chiunque lo incontrava agitava la mano, salutando, felice quando riceveva risposta, anche solo con un segno della testa per chi aveva le mani occupate o transitava in macchina.
Aveva posti specifici dove appostarsi e ci passava ore in attesa dei viandanti, in attesa di un saluto, la sua bevanda preferita.
Circa un mese fa aveva avuto un brutto peggioramento, era stato operato a non sappiamo cosa, e dall'ospedale era uscito non più rotondetto, quasi rinsecchito. Non era più andato in giro, e quando, seduto su una sedia fuori dalla porta di casa, che dà sulla strada, qualcuno passando lo salutava non rispondeva più al saluto, lo sguardo fisso nel vuoto, forse aspettando Ferragosto.
Un anno fa, vedendoli passare, li avevamo soprannominati "La donzelletta": era stato un soprannome cumulativo, non era il momento adatto a memorizzare i singoli nomi, di chicchessia.
Erano due uomini, maturi, quella maturità che si dà alle persone cui non si riesce ad affibbiare un'età, comunque collocata in quella via di mezzo tra l'adolescenza lontana e la vecchiaia non ancora imminente.
Alti, di quell'altezza sobria che non si fa notare, magri, entrambi con un po' di pancetta, quella che è soltanto un po' di stomaco sporgente da un verticale piatto.
Due fratelli, dovevano avere comprato vestiti in serie, visto che, in tutto quest'anno passato, il loro look non era mai cambiato.
Tutti i giorni, per loro, erano stati uguali al primo in cui li avevamo visti passare (pur se all'epoca i nostri occhi erano appannati da lacrime sempre latenti, in bilico precario prima di cadere nei fazzoletti usa e getta), uno con pantaloni lunghi, maglietta, un gilet su questa, indossato sempre, con pioggia e con sole, quel sole infuocato dello scorso anno e quello ancora di più di oggi, un cappellino con la tesa anteriore rigida (quello, siamo sicuri, sempre lo stesso); l'altro, meno sportivo, senza gilet e senza cappellino, ma per il resto fratello al fratello.
Si distingueva subito, appena spuntavano dall'angolo dell'ala C, la loro camminata, un po' sbilanciata quella del 'cappellino', più ritta quella dell'altro; un camminare che non era né lento né affrettato, che però consentiva loro di portarsi velocemente all'entrata grazie alle lunghe gambe con passo adeguato.
Passavano, un gesto con la mano, un 'buona sera' e sparivano dentro la struttura.
Più indietro, a debita distanza dovuta alle sue gambette corte proporzionate al resto del fisico, con loro c'era una donnetta, già anziana senza essere vecchia, gonna sempre in tinta scura, da cui ogni tanto spuntava l'orlo di una sottogonna bianca, stivalotti d'inverno, scarpe basse dalla primavera inoltrata fino all'autunno, una camicia, di solito a quadretti bianchi e blu, la pettinatura talmente immutata da far pensare a una parrucca.
Qui non ci sono molti motivi per sorridere, ma quando ne capita uno sarebbe un peccato farselo scappare.
Il suo passaggio era stato quasi inosservato per le prime volte, quando, sconosciuti a lei quanto lei a noi, si gettava uno sguardo veloce a chi transitava, per tornare subito ai fatti propri, che altro avevamo per la testa anziché notare i comportamenti degli altri.
In seguito, con il ripetersi invariato di questi, non avevamo potuto evitare di registrarli e farne un (affettuoso) motivo d'ilarità.
Arrivava con passetti frettolosi, accelerati dalla necessità di stare appresso ai due fratelli gambelunghe; quando arrivava davanti a noi c'era una decelerazione improvvisa, non proprio una fermata, un rallentamento abbinato allo sguardo che girava verso di noi, in attesa del nostro saluto in risposta al suo, che era fatto più con gli occhi che con la voce. Ottenutolo, subito ripartiva a passo più veloce, quasi a voler recuperare la frazione di secondo 'persa' per adempiere a un dovere divenuto nel tempo quasi istituzionale.
Ci sembrava una metropolitana umana; quando questa parte 'sparata', da chiedersi dove creda di arrivare, visto che dopo poco si dovrà nuovamente fermare, e appena lo fa si sente un breve tuffo allo stomaco che quasi si protende in avanti, subito rigettato indietro dalla ripartenza. Un attimo, tanti attimi, uno al giorno per un anno.
La sua persona, il suo vestiario, il suo modo di fare timido e impacciato, ci aveva fatto pensare alla "donzelletta" del sabato del villaggio. Per estensione, tutto il terzetto era diventato "la donzelletta".
I due maschi erano figli di un'ospite, la donna ne era sorella.
Per poco più di un anno, tutti i giorni, la scena del loro arrivo si era ripetuta, identica quali che fossero le condizioni meteo e le festività; i due fratelli ogni tanto si alternavano, una volta uno, la volta successiva l'altro, più sovente insieme; la donzelletta sempre presente, sempre con un timido sorriso ogni volta che incrociava il nostro sguardo.
Andavano nel reparto, e ne uscivano spingendo la carrozzina con la mamma e sorella, si mettevano lungo il muro dell'entrata, seduti sulle sedie imbottite, e offrivano a questa signora quello che le avevano portato: uno yogurt, qualche cremetta, un po' d'acqua, regolarmente prelevata volta per volta dal distributore a gettoni. Non era in grado di sorbire altro.
Le parlavano, e le sue risposte erano monosillabi, più pensati che sussurrati: era un dialogo unilaterale, che offriva informazioni senza chiederne.
Questa donna aveva un visino diafano, gli occhi vivi ma non vivaci, il busto eretto contro lo schienale faceva capire un'altezza della persona adeguata a quella dei due figli.
In anno di frequentazione si vengono a conoscere particolari, che uniti come tessere di un mosaico, danno un quadro, non completo ma sufficientemente chiaro, sul passato delle persone.
Avevamo così scoperto che il nomignolo "donzelletta" più che alla sorella metropolitana si sarebbe adattato a lei, alla paziente così affettuosamente accudita.
Da quando era ragazzina, nei tempi duri del dopoguerra, per aiutare in casa prima, per accudire i figli poi, al mattino prima dell'alba, inanellato uno straccio da mettere sul capo, su questo appoggiava un canestro con dentro i prodotti di un piccolo orto, qualche uovo quando le galline li scodellavano nella paglia, e se ne andava in paesi vicini, che tanto vicini non erano, e che il lungo camminare rendeva sempre lontani.
Lungo i sentieri nei boschi, sulle creste delle colline che costeggiano la marina, dove le strade erano migliori, ma più lunghe seguendo queste le coste frastagliate. Rientrando la sera a casa, con i pìccioli raggranellati, pochi sempre, ma bastanti a tenere in piedi una famiglia e a sfamare quei due piccoli, già allora marcantoni sempre affamati.
Una vita da "donzelletta".
Finita in malo modo, in un "dolce far niente" non sognato, tanto meno desiderato.
Ecco, il suo "in sul finir del giorno" è avvenuto la mattina della vigilia di Ferragosto.
Pomeriggio di una vigilia infuocata, in tutti i sensi.
Un'altra signora se n'è andata.
Non ne sappiamo nulla, e mi dispiace. E' rimasta sconosciuta fino alla fine, solitaria come lo è stata la sua ultima degenza.
In questi posti, i malati si identificano in chi li viene a visitare. Se sono allettati, oppure se ogni tanto escono in carrozzine sospinte dalle infermiere o dagli altri addetti, non c'è la possibilità di inquadrarli in una storia di vita, in un qualcosa "che rimanga ne' cuori esuli a conforto". Per chi frequenta questi posti, il sostegno reciproco, la lacrima come la risata, sono indispensabili per sopravvivere.
Mancando i visitatori, mancano le informazioni, e quelle, limitate, di chi assiste queste persone non sono sufficienti a lasciare un ricordo in chi, comunque, un ricordo vorrebbe registrare.
Per se stessi, non per la storia.
Abbiamo saputo della sua morte per la presenza anomala di un sacco di persone. Quello che abbiamo pensato di loro lo abbiamo chiuso nel cuore, ma è facile da intuire.
Ancora vigilia di Ferragosto, da sembrare incredibile.
E' morto un "ragazzo", Antonio detto Antonuccio, 53 anni.
Lo avevamo conosciuto ragazzo e tale era rimasto fino alla fine.
Parzialmente assente fin dall'infanzia, un fisico rotondetto ma non obeso, crisi epilettiche e malanni vari lo avevano tenuto lontano da una vita sociale accettabile.
Andava in giro nella contrada, talvolta spingendosi oltre fino alla marina; si rendeva disponibile per lavoretti presso i negozi della zona, lavoretti che dava l'impressione di volere pagare lui per farli, poiché questo lo faceva sentire utile a qualcosa, a qualcuno.
Il suo tratto identificativo era il saluto: a chiunque lo incontrava agitava la mano, salutando, felice quando riceveva risposta, anche solo con un segno della testa per chi aveva le mani occupate o transitava in macchina.
Aveva posti specifici dove appostarsi e ci passava ore in attesa dei viandanti, in attesa di un saluto, la sua bevanda preferita.
Circa un mese fa aveva avuto un brutto peggioramento, era stato operato a non sappiamo cosa, e dall'ospedale era uscito non più rotondetto, quasi rinsecchito. Non era più andato in giro, e quando, seduto su una sedia fuori dalla porta di casa, che dà sulla strada, qualcuno passando lo salutava non rispondeva più al saluto, lo sguardo fisso nel vuoto, forse aspettando Ferragosto.
nessun problema. per me Ferragosto e' da sempre il giorno de il Sorpasso di Risi, figurati.
RispondiEliminaper me è un bel post
RispondiEliminaok è colpa mia..tu avevi avvertito, ma io ingorda, convinta che qualsiasi cosa tu scriva mi piace, ho letto tutto e ora sono triste...so che mi passa, so che succede, ma penso ad Antonio che non saluterà più con la mano chiunque voleva regalargli in sorriso...
RispondiEliminaHai fatto bene a pubblicarlo, ancora meglio nel giorno dove è d'obbligo "magnà, beve" e per divertirsi spruzzarsi di schiuma a Ibiza. O Ostia.
RispondiEliminaIo odio l'estate, come Bruno Martino, e proprio ieri ho desiderato non dipartire in questa bastarda stagione.
carissimo Pietro,poteva essere anche la vigilia di Natale o di Pasqua,se qualcosa deve succedere non guarda il calendario o la festività.
RispondiEliminaHai raccontato due bellissime storie,degne di essere conosciute.
Tutti ricorderanno Antonio,e il suo saluto,sempre pronto ad essere utile.
Un altro discorso merita la Signora.C'è chi viene assistito anche dai familiari,quotidianamente e chi viene abbandonato a se stesso.
Ti abbraccio
E' il destino degli osservatori. In queste mattine dedicate tra le 8.30' e le 9.30' alla cura dell'ultimo rettangolo di Wiz anch'io guardo. Chi ha fiori, chi non ne ha, tombe curate oppure no. Essendo il luogo deputato al silenzio bisogna affidarsi ad uno sguardo muto. Al massimo un buongiorno. Io queste storie non le saprò mai, mi trovo alla fermata successiva, al capolinea.
RispondiEliminaAbbraccione, amico gattone nerissimo!
Nel 1990 ho fatto parte di un gruppo di artisti, creato allo scopo di effettuare un esperimento a carico di vecchi ricoverati in un "Altenheim", casa di riposo. Eravamo io come pittore, una prof. serba, scultrice, un genio del mosaico, una attrice in pensione e una maestra di piano.
RispondiEliminaAbbiamo lavorato sulle "Flege", cioè quei vecchietti non indipendenti e bisognosi di cure dal mattino alla sera.
Il risultato non è stato eclatante, perché non abbiamo ottenuto un rientro nella cosiddetta normalità, che è assurdo a quell'età; ma per me è stata una lezione di vita: ho imparato a vivere lentamente, pensando lentamente e parlando a bassa voce.
Un ricordo toccante, che il tuo pezzo molto bello ha rispolverato fuori dalla memoria: Frau Liselotte Kollmann. Aveva 92 anni; appena mi ha visto mi ha chiamato apostrofandomi con un "Wo warst du eigentlisch stehen geblieben?", in chiaro testo italiano "dove diavolo ti eri cacciato?". Non ci eravamo mai visti, ma lei mi aveva preso per suo marito, un ufficiale della marina da guerra tedesca del secondo conflitto mondiale. Mi dava ordini, ma era calma solo quando c'ero io, al punto che il personale mi pregò di rimanerle accanto per avere un po' di quiete.
Cosa che ho fatto. Ho vissuto un anno a contatto di questa novantenne amburghese con la puzza sotto il naso, che mi aveva preso per suo marito.
L'esperimento era finito, ma io sono rimasto ancora due settimane, con le benedizioni del personale tutto e della figlia sessantenne di Liselotte.
Sono andato via il giorno dopo che lei è morta.
Ero molto triste quel giorno; d'un tratto mi sentivo maledettamente solo sul cuor della terra.
la vita è anche questo:
RispondiEliminamalattia, solitudine, difficolta'.
L'Anima ha un suo corso quando attraversa questo mondo.
Ciao gatto.
Molto toccante e necessario per ricordare tante situazioni dolorose in cui non pensiamo mai di poterci trovare.
RispondiEliminaCristiana
Sei una persona di rara sensibilità umana.
RispondiEliminaPost triste ma è la vita. Un abbraccio forte
RispondiEliminaHa ragione Maini, sei una persona di rara sensibilità umana.
RispondiEliminaGrazie gattonero per aver raccontato due storie umane e solo chi soffre veramente sa raccogliere tanto dolore.
Ciao
Post molto profondo.
RispondiEliminaSaluti a presto.
Ciao ogni tanto anche questo è necessario per riportarci alla realtà!
RispondiEliminaSono io che devo darti del Lei, mi sa ... Che la "donzelletta", la signora senza nome e Antoniuccio ci salutino, rasserenati, dalla plaga misteriosa dove si trovano. Un abbraccio. Marì (ci diamo del tu entrambi: che ne dici?!!)
RispondiEliminaCiao Gatto.
RispondiEliminaLo so...avevi detto di stare attenti a leggere questo post, ma come si fa a non leggere racconti così, che ti arrivano al cuore?Anche se scappa una lacrimuccia, vale sempre la pena.
E mentre leggevo nella mente vedevo tutti queste persone nel loro vivere e in più pensavo ad un ragazzo, un uomo (era un uomo) molto semplice ma gentile e sempre sorridente: Osvaldo, il nostro miglior tifoso di quando giocavo a pallavolo.
Una persona sorridente e pronta al saluto con chiunque volesse scambiare anche solo uno sguardo verso di lui.
E quando se n'è andato sorrideva comunque...
Te l'ho già detto che hai un modo di scrivere incantevole?
^________^
Nunzia
Ciao.
RispondiEliminaLa vita-non vita- emerge soprattutto in posti così tristi..
Un saluto.