Otto anni fa, dodici giorni dopo
E’ la città immortalata da Omero, con le sue passioni, il suo coraggio e la sua ingenuità. Riportarne qui la sua storia sarebbe superfluo.
Troia è anche una ridente cittadina del foggiano (‘ridente’, poiché si usa definire così ogni paesotto che non sia più borgo e non ancora città). Con un nome così, il ‘ridente’ stride un po’, ma contenti i paesani contenti tutti.
Tra l’altro, nella sua storia c’è un fatto curioso che non sono riuscito a spiegarmi: nel suo stemma originario era raffigurata una scrofa allattante dei maialini e il nome della città era diverso; nel 1500 la scrofa era stata sostituita da un’anfora con dei serpenti in essa inzuppati, e il nome era stato cambiato in quello attuale, che dà l’idea del nobile animale senza mostrarne l’onusta figura.
Per addolcire l'impatto che questo
Nel seguito di questo "racconto" compare una figura che, per rispetto alla privacy, dovrò citare con un nome di fantasia; casualmente ho pensato a Tròia, che, visto appunto il preambolo, non dovrebbe risultare offensivo.
Angela, il martedì successivo al ricovero, era stata operata, le era stato applicato un drenaggio esterno ed era alimentata con le fleboclisi; applicati al petto i sensori e ad un dito un aggeggio per la rilevazione costante della pressione arteriosa; un monitor nella testata del letto trasmetteva i dati relativi al decorso post-operatorio.
Già dalla partenza dal primo pronto soccorso era agitatissima, tanto che per fare le TAC avevano dovuto ‘sedarla’ totalmente.
Quell’agitazione era riemersa, amplificata, al risveglio dall’anestesia somministrata per l’intervento.
Le avevano fermato le mani con dei bendaggi alle sponde laterali del letto, ma, nonostante queste legature, riusciva a strapparsi dal corpo tutto quello che non faceva parte del suo corpo stesso.
Dopo tre giorni di tentativi, che avevamo fermato, era riuscita a strapparsi anche il drenaggio esterno, che era posizionato alla sommità del capo. Era stato necessario un ulteriore intervento per posizionare un drenaggio all’interno che convogliasse l’eventuale uscita di liquido cerebrale in dispersione verso l’addome.
Avevamo chiesto qualcosa per calmarla; ci avevano risposto che non era possibile, a causa di possibili interferenze con l’assestamento post-operatorio della zona cerebrale interessata.
(L’ignoranza è la madre di tutte le cazzate, e, da ignorante, a posteriori rivedo il corso della vicenda Sposini: tenuto in coma farmacologico, quindi ‘sedato’, per diversi giorni dopo l’intervento. Ribadisco la mia ignoranza, ma trovo strano che, a fronte di un intervento delicato e di una agitazione parossistica che ne metteva a rischio l’esito, non fosse stato possibile un passaggio farmacologico perlomeno calmante; ferme restando le possibili differenze tra i due casi).
Fatto sta che i dieci giorni successivi erano stati un vero inferno sia per Elena che per me. Ci davamo il cambio ogni mattina e stavamo accanto al letto fino al mattino successivo. Che ci trovava con gli occhi sbarrati per la veglia continua e il sistema nervoso a rischio di collasso.
Le oltre due ore di autobus per il ritorno a casa erano coperte da un sonno improvviso e traballante. Per fortuna il viaggio era da capolinea a fine linea, altrimenti chissà dove saremmo finiti.
D’altronde era impensabile il ricorso a un mezzo nostro: sarebbe stato un sicuro suicidio preterintenzionale.
Il primario, che l’aveva operata, lo avevamo visto qualche volta in transito nel corridoio del reparto.
E lo avevamo visto da vicino il mercoledì pomeriggio, quando, accompagnato dalla dottoressa Tròia, mi aveva comunicato le inattese dimissioni di Angela, programmate per il giorno successivo.
Vale la pena di ricordare che lei era ancora vincolata al letto, ancora agitatissima e sempre non cosciente.
Non avessi saputo il significato della parola ‘panico’ l’avrei appreso dal vivo in quel momento.
Avevo pensato al trasferimento nel reparto di neurologia medica per un prosieguo delle cure; la dimissione nuda e cruda era una ennesima mazzata dopo il malanno che ci aveva colpito.
Senza una guida telefonica per cercare un ricovero adatto alle condizioni di Angela, senza neanche un nome da cercare che avesse le caratteristiche per una terapia adeguata, parlare di panico è perfino eufemistico.
Avevo telefonato al nostro medico di famiglia, gli avevo spiegato l’accaduto e chiesto una dritta per l’immediato dopo ospedale. Mi aveva dato un nome, assicurandomi che avrebbe telefonato lui stesso per fermare un posto.
Avevo poi chiamato Elena, affinché cercasse sulla guida telefonica il recapito di quella casa di cura. Purtroppo l’ufficio ricoveri era aperto solo fino alle due del pomeriggio, bisognava richiamare al mattino dopo, dalle 8 in poi.
Inoltre avevo chiamato un servizio ambulanze per il trasporto in autolettiga, rinviando all’indomani la comunicazione dell’orario della dimissione.
Nottata più infernale che mai.
Il giovedì mattina, alle 8 avevo chiamato la casa di cura; avevano chiesto un’oretta per vedere il loro programmato, avrebbero richiamato loro per la risposta positiva o negativa.
Positiva, dalle 14 in poi il posto c’era, disponibile fino alla sera; dopo quell’orario sarebbe stata annullata la prenotazione, per renderlo disponibile per altro eventuale ricovero.
Nel pomeriggio di mercoledì, impegnato in telefonate alla ricerca spasmodica di una soluzione, non avevo avuto modo di vedere alcun dottore; tanto meno la dottoressa Tròia (per abbreviare questo testo, che mi sembra leggermente prolisso, eliminerò il titolo accademico, limitandomi al cognome affibbiato a questa esimia persona).
La mattina di giovedì, espulso dal reparto (dalle 8 alle 12 veniva intimato il “fuori tutti” per consentire visite mediche, medicazioni e pulizie del reparto), come detto mi ero tuffato nella ricerca dell’alternativa al portarla direttamente a casa.
Un paio di volte avevo tentato di mettermi in contatto con un medico per comunicare l’evoluzione della mia ricerca.
L’infermiera di guardia alla porta, mi aveva lasciato fuori:
“Dopo le 12” era stata la sua sentenza.
Verso le 13, non vedendo movimenti riguardanti la dimissione avevo chiesto chi fosse delegato all’operazione; era la Tròia.
Ero andato nello studio, lei era davanti al computer, le avevo chiesto notizie in merito all’uscita di Angela.
“Non mi ha fatto sapere la destinazione, quindi non compilo la dimissione”.
Le avevo fatto presente che il pomeriggio precedente non l’avevo vista per dirle del procedere della ricerca.
A quel punto la Tròia era schizzata dalla sedia ed era uscita furibonda dallo studio, urlando come un’ossessa.
Camice spalancato sul davanti, poppe in poppa, si era lanciata nel corridoio, gridando a tutti l’offesa ricevuta, forse intendendo il mio ‘non averla vista’ come la definizione di ‘assenteista’.
Dopo aver dato spettacolo davanti a infermieri, degenti e parenti di questi, era rientrata nello studio sbattendo con violenza la porta.
Tròia, secondo me, non era medico da neurochirurgia, bensì da neurodeliri.
Da ricoverata.
A parte il fatto che le dimissioni non erano state concordate, ma decise unilateralmente, non mi risulta che fosse obbligatorio comunicare la destinazione una volta usciti dal nosocomio.
Avremmo potuto andare direttamente a casa o in altra struttura, nel foglio di dimissione non era previsto risultasse la scelta.
Il suo comportamento indicava un'unica alternativa: buttarci da un ponte, Angela, Elena ed io.
Con i nervi che non erano corde di violino bensì filo spinato, avevo bussato ed ero entrato nello studio, implorando a mani giunte che facesse questo foglio di dimissione, altrimenti sarebbero saltati tutti gli accordi presi con la clinica e l’ambulanza.
Continuando a urlare, mi aveva invitato a uscire, alzando il telefono per chiamare il posto di polizia, per denunciare un’aggressione da parte mia.
Si parla sovente di ‘istinti omicidi’ dell’essere umano.
Me li sono sentiti addosso: Elena ed io eravamo due stracci che da tredici giorni assistevamo uno straccio stracciato, ed essere trattati così da una miserabile, mi aveva portato a quei pensieri, e solo l’assenza di un’arma aveva impedito il completamento dell’opera.
Ero tornato nella camera, avevo telefonato alla clinica per bloccare il posto per l’indomani: nessuna garanzia di poterlo tenere.
Avevo bloccato l’ambulanza, in attesa degli sviluppi.
Mi sarei messo a piangere, ma sarebbero uscite lacrime di sangue tanto ero furibondo.
Ero andato dalla caposala chiedendo il modulo per le dimissioni volontarie, e, grazieadio, mi aveva assicurato che avrebbe sistemato la cosa.
Poco dopo aveva dato disposizione agli infermieri per la dimissione: distacco delle flebo e di tutto l’apparato medico.
Il foglio di dimissione ci era stato recapitato in busta chiusa da un portantino.
La legatura era rimasta.
L’abbiamo dovuta staccare noi, con l’aiuto dell’autista dell’ambulanza, al suo arrivo.
Il ‘travaso’ di Angela dal letto alla lettiga ce lo siamo dovuti fare noi; non un infermiere che ci desse una mano.
Nel passaggio lungo il corridoio, tutte le porte chiuse: nessun degente, nessun parente, nessun infermiere, nessun medico.
Deserto.
Avanzando verso l’uscita, spingendo la lettiga cigolante, mi sono sentito il monatto manzoniano mentre spingeva il carretto con sopra un’appestata, lungo le strade deserte della città.
A chi di voi è sopravvissuto a questa lungaggine: nel prossimo post sarò molto più conciso, poiché finalmente sarà un post positivo, e, come al solito, per raccontare le cose belle bastano poche parole e poche righe (vedi Tg e giornali).
(La situazione di Angela, oggi: i miglioramenti cognitivi sono costanti, quelli comportamentali vanno a fasi alterne, con preminenza delle situazioni negative).
Troia è anche una ridente cittadina del foggiano (‘ridente’, poiché si usa definire così ogni paesotto che non sia più borgo e non ancora città). Con un nome così, il ‘ridente’ stride un po’, ma contenti i paesani contenti tutti.
Tra l’altro, nella sua storia c’è un fatto curioso che non sono riuscito a spiegarmi: nel suo stemma originario era raffigurata una scrofa allattante dei maialini e il nome della città era diverso; nel 1500 la scrofa era stata sostituita da un’anfora con dei serpenti in essa inzuppati, e il nome era stato cambiato in quello attuale, che dà l’idea del nobile animale senza mostrarne l’onusta figura.
Per addolcire l'impatto che questo
Nel seguito di questo "racconto" compare una figura che, per rispetto alla privacy, dovrò citare con un nome di fantasia; casualmente ho pensato a Tròia, che, visto appunto il preambolo, non dovrebbe risultare offensivo.
Angela, il martedì successivo al ricovero, era stata operata, le era stato applicato un drenaggio esterno ed era alimentata con le fleboclisi; applicati al petto i sensori e ad un dito un aggeggio per la rilevazione costante della pressione arteriosa; un monitor nella testata del letto trasmetteva i dati relativi al decorso post-operatorio.
Già dalla partenza dal primo pronto soccorso era agitatissima, tanto che per fare le TAC avevano dovuto ‘sedarla’ totalmente.
Quell’agitazione era riemersa, amplificata, al risveglio dall’anestesia somministrata per l’intervento.
Le avevano fermato le mani con dei bendaggi alle sponde laterali del letto, ma, nonostante queste legature, riusciva a strapparsi dal corpo tutto quello che non faceva parte del suo corpo stesso.
Dopo tre giorni di tentativi, che avevamo fermato, era riuscita a strapparsi anche il drenaggio esterno, che era posizionato alla sommità del capo. Era stato necessario un ulteriore intervento per posizionare un drenaggio all’interno che convogliasse l’eventuale uscita di liquido cerebrale in dispersione verso l’addome.
Avevamo chiesto qualcosa per calmarla; ci avevano risposto che non era possibile, a causa di possibili interferenze con l’assestamento post-operatorio della zona cerebrale interessata.
(L’ignoranza è la madre di tutte le cazzate, e, da ignorante, a posteriori rivedo il corso della vicenda Sposini: tenuto in coma farmacologico, quindi ‘sedato’, per diversi giorni dopo l’intervento. Ribadisco la mia ignoranza, ma trovo strano che, a fronte di un intervento delicato e di una agitazione parossistica che ne metteva a rischio l’esito, non fosse stato possibile un passaggio farmacologico perlomeno calmante; ferme restando le possibili differenze tra i due casi).
Fatto sta che i dieci giorni successivi erano stati un vero inferno sia per Elena che per me. Ci davamo il cambio ogni mattina e stavamo accanto al letto fino al mattino successivo. Che ci trovava con gli occhi sbarrati per la veglia continua e il sistema nervoso a rischio di collasso.
Le oltre due ore di autobus per il ritorno a casa erano coperte da un sonno improvviso e traballante. Per fortuna il viaggio era da capolinea a fine linea, altrimenti chissà dove saremmo finiti.
D’altronde era impensabile il ricorso a un mezzo nostro: sarebbe stato un sicuro suicidio preterintenzionale.
Il primario, che l’aveva operata, lo avevamo visto qualche volta in transito nel corridoio del reparto.
E lo avevamo visto da vicino il mercoledì pomeriggio, quando, accompagnato dalla dottoressa Tròia, mi aveva comunicato le inattese dimissioni di Angela, programmate per il giorno successivo.
Vale la pena di ricordare che lei era ancora vincolata al letto, ancora agitatissima e sempre non cosciente.
Non avessi saputo il significato della parola ‘panico’ l’avrei appreso dal vivo in quel momento.
Avevo pensato al trasferimento nel reparto di neurologia medica per un prosieguo delle cure; la dimissione nuda e cruda era una ennesima mazzata dopo il malanno che ci aveva colpito.
Senza una guida telefonica per cercare un ricovero adatto alle condizioni di Angela, senza neanche un nome da cercare che avesse le caratteristiche per una terapia adeguata, parlare di panico è perfino eufemistico.
Avevo telefonato al nostro medico di famiglia, gli avevo spiegato l’accaduto e chiesto una dritta per l’immediato dopo ospedale. Mi aveva dato un nome, assicurandomi che avrebbe telefonato lui stesso per fermare un posto.
Avevo poi chiamato Elena, affinché cercasse sulla guida telefonica il recapito di quella casa di cura. Purtroppo l’ufficio ricoveri era aperto solo fino alle due del pomeriggio, bisognava richiamare al mattino dopo, dalle 8 in poi.
Inoltre avevo chiamato un servizio ambulanze per il trasporto in autolettiga, rinviando all’indomani la comunicazione dell’orario della dimissione.
Nottata più infernale che mai.
Il giovedì mattina, alle 8 avevo chiamato la casa di cura; avevano chiesto un’oretta per vedere il loro programmato, avrebbero richiamato loro per la risposta positiva o negativa.
Positiva, dalle 14 in poi il posto c’era, disponibile fino alla sera; dopo quell’orario sarebbe stata annullata la prenotazione, per renderlo disponibile per altro eventuale ricovero.
Nel pomeriggio di mercoledì, impegnato in telefonate alla ricerca spasmodica di una soluzione, non avevo avuto modo di vedere alcun dottore; tanto meno la dottoressa Tròia (per abbreviare questo testo, che mi sembra leggermente prolisso, eliminerò il titolo accademico, limitandomi al cognome affibbiato a questa esimia persona).
La mattina di giovedì, espulso dal reparto (dalle 8 alle 12 veniva intimato il “fuori tutti” per consentire visite mediche, medicazioni e pulizie del reparto), come detto mi ero tuffato nella ricerca dell’alternativa al portarla direttamente a casa.
Un paio di volte avevo tentato di mettermi in contatto con un medico per comunicare l’evoluzione della mia ricerca.
L’infermiera di guardia alla porta, mi aveva lasciato fuori:
“Dopo le 12” era stata la sua sentenza.
Verso le 13, non vedendo movimenti riguardanti la dimissione avevo chiesto chi fosse delegato all’operazione; era la Tròia.
Ero andato nello studio, lei era davanti al computer, le avevo chiesto notizie in merito all’uscita di Angela.
“Non mi ha fatto sapere la destinazione, quindi non compilo la dimissione”.
Le avevo fatto presente che il pomeriggio precedente non l’avevo vista per dirle del procedere della ricerca.
A quel punto la Tròia era schizzata dalla sedia ed era uscita furibonda dallo studio, urlando come un’ossessa.
Camice spalancato sul davanti, poppe in poppa, si era lanciata nel corridoio, gridando a tutti l’offesa ricevuta, forse intendendo il mio ‘non averla vista’ come la definizione di ‘assenteista’.
Dopo aver dato spettacolo davanti a infermieri, degenti e parenti di questi, era rientrata nello studio sbattendo con violenza la porta.
Tròia, secondo me, non era medico da neurochirurgia, bensì da neurodeliri.
Da ricoverata.
A parte il fatto che le dimissioni non erano state concordate, ma decise unilateralmente, non mi risulta che fosse obbligatorio comunicare la destinazione una volta usciti dal nosocomio.
Avremmo potuto andare direttamente a casa o in altra struttura, nel foglio di dimissione non era previsto risultasse la scelta.
Il suo comportamento indicava un'unica alternativa: buttarci da un ponte, Angela, Elena ed io.
Con i nervi che non erano corde di violino bensì filo spinato, avevo bussato ed ero entrato nello studio, implorando a mani giunte che facesse questo foglio di dimissione, altrimenti sarebbero saltati tutti gli accordi presi con la clinica e l’ambulanza.
Continuando a urlare, mi aveva invitato a uscire, alzando il telefono per chiamare il posto di polizia, per denunciare un’aggressione da parte mia.
Si parla sovente di ‘istinti omicidi’ dell’essere umano.
Me li sono sentiti addosso: Elena ed io eravamo due stracci che da tredici giorni assistevamo uno straccio stracciato, ed essere trattati così da una miserabile, mi aveva portato a quei pensieri, e solo l’assenza di un’arma aveva impedito il completamento dell’opera.
Ero tornato nella camera, avevo telefonato alla clinica per bloccare il posto per l’indomani: nessuna garanzia di poterlo tenere.
Avevo bloccato l’ambulanza, in attesa degli sviluppi.
Mi sarei messo a piangere, ma sarebbero uscite lacrime di sangue tanto ero furibondo.
Ero andato dalla caposala chiedendo il modulo per le dimissioni volontarie, e, grazieadio, mi aveva assicurato che avrebbe sistemato la cosa.
Poco dopo aveva dato disposizione agli infermieri per la dimissione: distacco delle flebo e di tutto l’apparato medico.
Il foglio di dimissione ci era stato recapitato in busta chiusa da un portantino.
La legatura era rimasta.
L’abbiamo dovuta staccare noi, con l’aiuto dell’autista dell’ambulanza, al suo arrivo.
Il ‘travaso’ di Angela dal letto alla lettiga ce lo siamo dovuti fare noi; non un infermiere che ci desse una mano.
Nel passaggio lungo il corridoio, tutte le porte chiuse: nessun degente, nessun parente, nessun infermiere, nessun medico.
Deserto.
Avanzando verso l’uscita, spingendo la lettiga cigolante, mi sono sentito il monatto manzoniano mentre spingeva il carretto con sopra un’appestata, lungo le strade deserte della città.
A chi di voi è sopravvissuto a questa lungaggine: nel prossimo post sarò molto più conciso, poiché finalmente sarà un post positivo, e, come al solito, per raccontare le cose belle bastano poche parole e poche righe (vedi Tg e giornali).
(La situazione di Angela, oggi: i miglioramenti cognitivi sono costanti, quelli comportamentali vanno a fasi alterne, con preminenza delle situazioni negative).
Come ti capisco, caro amico. In certi momenti vorrei essere religioso, per poter immaginare giusti premi e giusti castighi per certe buone e brave persone che ci allietano la vita...
RispondiEliminaUn abbraccio, sempre più commosso e partecipe.
Ma questo è un incubo nell'incubo.
RispondiEliminaNon ho parole.
Se un po' d'affetto può servire, metto a disposizione il mio.
Mi fai sentire quasi fortunato.
I matti e/o i frustrati sono ovunque.
RispondiEliminaSei stato forte e paziente.
Credo, sempre più fermamente, che per quel che si può, naturalmente, le nostre sorti spesso sono nelle nostre mani. Nel caso specifico" la sorte" sei stato tu.
Se tu non ti fossi prodigato e non fossi stat lucido e controllato... Angela sarebbe stata in balia dei venti contrari.
Tutto questo è assurdo. Certa gente sarebbe da radiare e da punire severamente.
Non si scherza con la vita della gente.
Mi associo a Zio Scriba.
Un abbraccio a te e ad Angela
Troia è dir poco... Sei stato grande, gatto, per forza e autocontrollo. Continua così.
RispondiEliminaleggere queste cose,fa toccare con mano in che razza di mondo stiamo vivendo,coraggio gatto verranno giorni migliori.un abbraccio a te angela e tua cognata
RispondiEliminaMa ti sei sentito con un avvocato, in seguito, per vedere se potevi fare qualche citazione?
RispondiEliminaseo stato conciso anche in questo caso: io avrei trovato una valanga di aggettivi per descrivere la dottoressa (?!?!?!) e tutto il suo staff.
RispondiEliminase non pensassi che avete molto altro a cui pensare concorderei con Adriano sulle vie legali...
che schifo
Ho pensato proprio ad Angela quando è successo il fatto di Sposini e, siccome ho cercato di seguire la tua vicenda, mi sono chiesta anch'io perchè ad un paziente si pratichi il coma farmacologico e ad altri no. Io anche non sono medico e cmq il mio parere è scontatao: Angela non è Sposini...quindi....lasci il letto prima del tempo!
RispondiEliminaIo non sono una cattiva nell'augurare disgrazie, ma spero tanto che la Troia, nel momento in cui avrà bisogno x lei o x qualcuno a cui tiene, provi esattamente le stesse ed identiche cose ke tu ed Angela avete dovuto sopportare. dall'umiliazione al dolore, dal panico alla supplica!
Ti lascio il mio in bocca al lupo x Angela, sperando che aumentino le situazione positive!
Un abbraccio ad entrambi ed un bacione ad Elena!
Elisena
P.S.:Sapessi ke rabbia scaturiscono ste distinzioni!!!
Ma che Troia davvero.. è imbarazzante vedere, leggere in questo caso, come certe persone appena ricoprono un ruolo di responsabilità, si dimenticano della responsabilità stessa, e quindi dell'umiltà e del prossimo...
RispondiEliminaMi fa piacere leggere dei miglioramenti cmq.. spero che i post a riguardo siano sempre più positivi..
Ad ogni modo rinnovo un abbraccio per voi, per quanto distante ci faccia essere il blog, e un buon pensiero!
Ciao!
Non ho parole. Ti/vi penso. Solo un abbraccio sentito e affettuoso.
RispondiEliminaAspettiamo buone notizie, piè...
RispondiEliminaLa rabbia mi sbolle solo alla premessa di buone notizie....per il resto non commento neanche, che gente....
RispondiEliminafacci sapere appena puoi!