lunedì 30 dicembre 2019

Botti... la notte di santo Stefano!

Era prevedibile, non per niente avevo aggiunto al post degli auguri l'anatema contro gli stramaledetti botti, in particolare verso quelli notturni. Che fino a pochi anni fa iniziavano dai primi di novembre per finire dopo l'Epifania. Sicuramente per esaurimento delle merci... dell'esaurimento delle vittime, umane ed animali, le carogne che li sparano se ne fottono allegramente; anzi, più scassano gli zebedei più lo scopo prefisso è raggiunto.
Come detto, fino a pochi anni fa. Da allora, vuoi per le campagne di prevenzione, vuoi per i sequestri di quelle che erano diventate vere e proprie bombe, vuoi per le numerose dita gettate ai cani e i tanti bulbi oculari gettati ai gatti, negli ultimi tempi devo ammettere che il fenomeno ha assunto limiti di sopportabilità più... sopportabili. Inducendo a ritenere i pochi che ancora li provocano come dei poveri handicappati, come tali da compatire; non fino al punto di pietirli. Un tempo erano molti stronzi, oggi pochi, ma sempre stronzi rimangono.
Ero rimasto leggermente basito dal fatto che la notte di Natale, la classica Noche buena, stavolta era uscita indenne, per scatenarsi, non più attesa, la notte successiva, quella che porta dal giorno di Natale verso quella di santo Stefano. Ma si sa, chi spara i botti è un povero deficiente, che non sa stabilire con precisione quando attuare lo stupido sollazzo. Va da sé, sollazzo del... ecc.
Questa premessa era necessaria, prima di andare a raccontare la notte di botti che titola questo post.

Natale, pranzo e cena sereni, niente eccessi di cibo e anche le bevande ampiamente nei limiti di un improbabile alcoltest. Per guidare una poltrona e un telecomando non ci sono sanzioni e perdita di punti in patente in vista.
Per il dopo cena le ragazze avevano programmato la visita a una famiglia di amici. Era un incontro, dal loro punto di vista, doverosa. Dal mio, una semplice scocciatura. Per evitarla, avevo chiesto se fosse cosa buona che mi aggregassi al duo; ma avevo avanzato la domanda in maniera modestamente astuta: "Devo venire anch'io?", con risposta scontata: "Se vuoi...".
Non volli.
Non ho lo spirito poetico che vede tutta la famiglia raccolta, prima al desco e poi fronte il caminetto, né a queste feste né ad altre. La notte del primo dell'anno, per una fetta di panettone e un brindisi, magari sì; ma se anche non fosse non ci farei una malattia.
Inoltre lo stare soli non mi spaventa, anzi col passare degli anni la solitudine attuale mi sembra un allenamento per quella definitiva, sempre più prossima. Consente di pensare, senza quelli che i veneti chiamano, poeticamente, ciacolamenti, chiacchiere tanto per parlare e far passare il tempo.
Uscite loro, avevo rubato dal web il film Il primo Natale, di cui avevo seguito qualche recensione e, obtorto collo, il martellante lancio su un canale televisivo privato, che aveva oscurato quella, che credevo insuperabile, pubblicità che tratta di poltrone e divani; insuperabile nel senso di scassamento della pazienza.
Il film, se non altro, non metteva l'immediata domenica come termine improrogabile per goderne la visione.
Uscite loro, la scena era un po' ripetitiva, ma per chi non ne ha idea offro una rapida panoramica di come un momentaneamente single affronta la prima parte della seconda notte natalizia.
Poltrona, scorta di caramelle mou menta-liquirizia, sigarette accanto al caminetto per brevi soste corroboranti, coprigambe... che non è quello tipico delle persone anziane per calmierare il freddo: questo serve per salvarle dalle unghie della gatta di casa che, non appena mi accomodo, salta in grembo e, felice, comincia a impastare, dimenticando di avere le unghie retrattili, tenendole fisse in sola uscita.

Film, fresco di uscita nelle sale: ne propongo un accenno personale, che non è una recensione, ma il semplice parere di un non cinefilo accanito.
Prende lo spunto dall'ormai stagionato, e giustamente tuttora apprezzato, Non ci resta che piangere, con Benigni e Troisi, Un ritorno al passato, coincidente con una festa natalizia paesana, in cui i due protagonisti si trovano calati nel bel mezzo dell'avventurosa odissea di Giuseppe e Maria vaganti alla ricerca di un tetto in vista della nascita di Gesù. Le solite gag, che fanno da corollario a queste proposizioni del passato viste con occhi e conoscenze attuali. Belle battute, belle scenografie, una visione originale dei racconti evangelici, recitazione non dissimile da altre precedenti esperienze cinematografiche dei due...
Purtroppo, ma è un parere strettamente personale, ho trovato un po' troppo 'pasticciata' la seconda parte del film, troppo buia, poco comprensibile, che ha finito per nascondere battute e immagini, altrimenti interessanti, dal punto di vista della completezza dell'opera. Probabilmente dovuti alla limitatezza del piccolo schermo, magari la visione in sala le rende più accettabili.
Nell'insieme un bel film, senza essere un capolavoro.
Infatti al botteghino pare stia sbaragliando tutti i record di incassi... a conferma che questo mio parere non solo è soggettivo, ma assolutamente da tenere in nulla considerazione. È una di quelle rare volte in cui la piazza (forse) ha ragione.

Fine del film, dose caramelle esaurita, quota sigarette pure, la gatta costretta a scendere nonostante la sua ritrosia, era passata la mezzanotte e il sonno chiedeva il letto.
Apro una breve parentesi, sperando che le informazioni che vado a fornire non siano usate da qualche malintenzionato che un domani voglia omaggiarci di una improvvida visitina.
In casa ho alcuni compiti precipui, talmente accorpati che uno dei miei crucci è su chi mai sarà in grado di sopperire alla mia futura assenza: mettere e togliere tavola, mescere il vino nei bicchieri prima di portarli in tavola, asciugare le posate (ma questo solo ogni tanto, non è un vizio), la sera chiudere gli accessi alla casa...
Abbiamo cinque vie di fuga verso l'esterno, due porte-finestra (si chiudono abbassando una maniglia, manovrabile solo dall'interno) direttamente verso il giardino  una verso la scala del palazzo (con chiusura a chiave, che, per maggiore sicurezza, viene lasciata inserita onde evitare intrusioni non gradite in entrata); e due ulteriori accessi passando dal vano garage.
Tra tutte è basilare la chiusura serale attenta delle prime tre. Che, lo dico solo per dirlo, è un compito di particolare importanza.
Ogni tanto si sente raccontare di mariuoli che entrano, di solito nottetempo, nelle case e si servono di quanto loro abbisogna per tirare a campare. Da noi e in zona non è mai successo, ma è come la superstizione: non ci credo, ma non si sa mai... toccare ferro, legno, agli alle finestre, cornetti, in alcuni casi particolari non appare fuori luogo una grattatina scaramantica per tenere lontani accidenti e peggio... non è essere superstiziosi, solo prudenti, per via di quel "non si sa mai".
Ecco, la chiusura serale è pura e semplice prevenzione.

La mia serata natalizia si era chiusa un po' oltre la mezzanotte, le ragazze non erano ancora tornate e, come detto, frate sonno chiedeva la sua parte di giusto ristoro.
Avevo provveduto a chiudere due delle tre vie di fuga prima citate. La terza era rimasta apribile a sola spinta in vista del rientro, l'ora del quale era sconosciuta perfino alle ragazze.
Dimenticavo: va da sé che le vie di fuga erano tali se viste dall'interno; arrivando dall'esterno erano vie di entrata in casa. Le uniche vie d'entrata...
Senza essere ansioso di natura, contrariamente al solito mi ero portato il cellulare in camera da letto; l'ormai abituale "non si sa mai" mi aveva fatto pensare che una ruota bucata, o qualche piccolo intoppo, avrebbe potuto mettere in crisi due donne, per cui sapere che a portata di mano ci sarebbe stato un pronto intervento avrebbe conciliato una dormita serena.
Il sonno del giusto era arrivato subito, come al solito.
E quel sonno era da subito stato profondo. Molto profondo.
Non abbastanza da non essere svegliato di soprassalto, poco dopo l'una, da alcuni botti, quegli infami rumori che oltre ai gatti spaventano anche me.
Una gragnuola veloce, durata pochi istanti...
Sembrava provenire dal piano sopra il nostro e avevo subito mormorato una prece verso il figlio di Maria (eufemismo) che era stato sempre tranquillo e rispettoso e che proprio la notte di Natale faceva il bastardo.
Non erano durati molto e mi accingevo a riprendere il sogno interrotto, pur conscio che ogni interruptus, come tutti sanno, persus est (latino infantile, più che maccheronico).
Evidentemente non era noche buena.
Poco dopo avevano ripreso, con una furia pazza, al cui confronto perfino i botti nelle zone di guerra sarebbero stati apparsi innocue miccette; quelle che sembrano più peti di gatto che botti.
E non accennavano a diminuire d'intensità, anzi...

Ero schizzato fuori dal letto, fumante d'ira funesta niente contenuta, deciso a salire di sopra per offendere, forse aggredire, quel hijo de puta (non è un eufemismo) per i botti e per la scelta della notte sbagliata per spararli.
Ero, come dire, più che in déshabillé, proprio in mutande ma, prima di indossare qualcosa avevo voluto verificare se le ragazze fossero, o meno, rientrate.
La luce accesa nel soggiorno mi aveva fatto capire da subito che non lo erano...
Nello sguardo veloce nella sala ero stato colpito da una immagine che mi aveva fatto ricordare la notte di halloween (altra stupida usanza americana che, come i botti, punta a spaventare con immagini e mascherate orride i malcapitati che capitano a tiro).
Si trattava di un viso, il cui pallore era accentuato dal fondo del cielo scuro e da un cappuccio nero orlato di (finta) pelliccia, che davano l'impressione di un palloncino danzante nel vuoto. Un viso e due mani che si sbracciavano, una bocca che gridava qualcosa, al di là della vetrata che portava in giardino che, sul momento non riuscivo a capire.
A questa visione spiritica si era aggiunto il trillo del telefono fisso, che mi aveva fatto ritenere che qualcosa di brutto stesse colpendo il palazzo.
Tutte sensazioni durate non più di un millesimo di secondo...
Mi ero precipitato alla porta-finestra per fare entrare la ragazza giovane che, borbottando che le avevo chiuse fuori, si era precipitata ad aprire la porta d'ingresso sulle scale interne del palazzo. Da cui, leggermente alterata (eufemismo), entrava la ragazza meno giovane.
Avevano trovato tutte le vie d'entrata chiuse; per una ventina di minuti avevano tentato in tutti i modi di allarmare il 'custode' dormiente, battendo coi pugni sui vetri, chiamando sul cellulare, battendo sui muri della cantina...
Si stavano rassegnando a passare la nottata in macchina, quando il Lazzaro di casa era risorto, aprendo casa alle due derelitte. L'alternativa sarebbe stata chiamare il 115; o magari il 112, segnalando la possibile mia dipartita.
Capita, perfino sovente, anche questo.
Forse il pensiero che potessi finire in una struttura protetta, da cui fossi impossibilitato a far danni, pur senza fare niente, aveva frenato la chiamata d'emergenza.
I miei botti...
Ero caduto in quel sonno pesante che precede il rem, e che, pare, con l'avanzare dell'età dovrebbe attenuarsi.
Nell'attesa di riprendere il sonno, avevo ripassato le operazioni di chiusura porte della sera precedente: galeotta fu la sequenza seguita ogni sera dell'anno, per cui la porta dal giardino, che credevo di avere lasciata apribile, era stata invece la prima ad essere manigliata.
Avevo accennato al fatto che potevano chiamare sul cellulare: l'avevano fatto, ma era risultato irraggiungibile. Infatti, come tutte le sere, per risparmiare la batteria, avevo inserito la 'modalità aereo', convinto che in quella posizione le chiamate vocali venissero accettate. Non è così...
Ignoranza tecnologica...

Mattina del 26: nella calma che segue la tempesta, avevo buttato lì una frase: 
"Avete visto? Se fossi venuto con voi, saremmo rimasti chiusi fuori casa...".
Era stata accolta con la stessa bonomia di coloro che compatiscono.
Credo che per le future uscite fuori porta non mi sarà più data l'alternativa "se vuoi...", ovvero prenderanno le dovute precauzioni; un'esperienza del genere basta e avanza...

La curiosità mi ha portato a cercare di capire se il sonno pesante potesse essere un rischio; e ho trovato questo pistolotto che mi ha dato un po' di sollievo.
Pare che i pericoli vengano dalla fase rem, quella che contempla anche episodi di sonnambulismo.


Speriamo sia l'ultima sorpresa di questo 2019.
Fermo restando che comunque chi spara botti è un deficiente, quello del piano di sopra si è salvato per un pelo: sarebbe stato uno dei tanti innocenti, cazziati, forse menati, da un altro deficiente, a sua volta fregato dalla ripetitività dei suoi servizi.

Buon anno a tutti, 
e che Dio ce la mandi buona 
in un futuro che appare nebuloso 
almeno quanto il passato.

martedì 24 dicembre 2019

Semplicemente, a tutti


E, visto che ci siamo,




lunedì 16 dicembre 2019

Quando si fa notte

Due poesie di Leonardo Mantoni, tenerezza e calore che, in vista dell'inverno, coi suoi freddi e le sue solitudini, propongono entrambe sentimenti ormai desueti.

Int e' scur   ............   Nel buio

             "Stà dria a me  ...........  "Vieni accanto a me
           adés ch'u slonga  ...........  adesso che si allunga
         l'ombra  dla nòta"  ...........  l'ombra della notte".
  Cun la ligaza  ............  Col fardello
                 di an adòs  ...........  degli anni addosso
        e' cor u s'è ardòt  ...........  il cuore si è ridotto
       un nid d' paura  ...........  un nido di paura
    ènca se u j è la luna.  ...........  anche se c'è la luna.
               "Stà dria a me!"  ...........  "Vieni accanto a me!" 
    A l' pens? A 'l dégh?  ............  Lo penso? Lo dico? 
       An e' so gnenca me.  ...........  Non lo so neppure io.
Mo se a l' pens al'vreb dì  ...........  è perché vorrei dirlo   
 e se a l' degh  ...........  e se lo dico
                l'è ch' a voj crid  ...........  è perché voglio credere
  che là so Qualcadùn  ...........  che lassù Qualcuno
     u m'daga urécia  ...........  mi presti ascolto
      parché l'è un péz  ...........  poiché è da tempo
               che e' lanzòl da chènt  ...........  che le lenzuola accanto a me
           l'armàna giaz  ...........  rimangono fredde
        tot la nòta  ...........  tutta la notte
         e par la ca u m'pè  ...........  e per casa mi sembra
      d'sintì int e' scur  ...........  di sentire nel buio
      al zampadàini d'un gat  ...........  lo zampettare d'un gatto
                    ch'a m'fa vnì piò tènt fred.  ...........  che mi fa rabbrividire ancora di più.


     La tu mèna  ...........  La tua mano

Al so ch'a j ò  ...........  Lo che ho  
  i cavèl impurbié  ...........  i capelli bianchi
      e a n' so piò me,  ...........  e non sono più io,
che i dè i va ch'i vola  ...........  che i giorni volano
                  e i n' s'po' farmè.  ...........  e non si possono fermare.
       Mo me ò ancora voia  ...........  Ma io ho ancora voglia
        d'una landa vàirda  ...........  di una pianura verde
               cun di cèn ch'i cor,  ...........  con i segugi che corrono,
  d'una alvèda intrighèda  ...........  di un'alba tempestosa
        int una vala  ...........  in una palude
           quand che un ciòp d'usèl  ...........  quando uno stormo di anatre
               e' stresa al cani.  ...........  volteggia sulle canne.
           Ò ancora voja  ...........  Ho ancora voglia
     ad stè da stè  ...........  di aspettare
   int e' scur  ...........  al buio
            la tu mèna ch'la m'faza  ...........  che la tua mano mi regali
          una carèza.  ...........  una carezza.
  

domenica 8 dicembre 2019

Goccia su goccia

(Le 'gocce' precedenti sono del 31 luglio e del 27 novembre).

La chiusura della 'goccia' precedente accennava velocemente alla cena di fine giornata lavorativa. Ed è proprio una di quelle cene a fare da trampolino di lancio a questa 'goccia'.
L'epoca: primavera inoltrata di un anno che fu.

Le prime due parti di questo raccontino erano state pollizzate per renderle più commestibili.
Questo racconto parla anche di cose serie, quindi sarà umanizzato: i polli saranno ufficialmente colleghi, in veste forzosa di esseri umani; il pollaio resterà pollaio, ristoranti e albergo continueranno ad essere quello che sono da sempre, enti commerciali con fini di lucro..
Oltre l'aggiornamento della diaria e i rimborsi chilometrici, accennati nella precedente 'goccia', altro punto importantissimo era la scelta del ristorante per la cena. 

La mensa del pollaio era aperta fino a sera tardi, ma un distacco totale dall'ambiente dopo un'intera giornata sonnolenta, era obbligatorio. Per ritemprarsi, in vista di un altro giorno che sarebbe stato fotocopia di quelli passati e di quelli a venire.
Alla ricerca del locale più adatto erano delegati, come logica imponeva, i colleghi indigeni, o comunque bazzicanti in zona.
Di solito tra una riunione e l'altra passavano sei/otto mesi, quindi avevano tutto il tempo per cercare, provare, promuovere o bocciare, e infine proporre. Che questa ricerca potesse portare discapito all'attività lavorativa di costoro, era punto non considerato. 

Al limite, c'era chi, lautamente pagato, avrebbe potuto chiosare in negativo. 
Mai successo: anche i decurioni facevano parte della brigata, e sapevano dare il giusto peso alle cose veramente importanti della vita. Ed erano molto forti di mascella...
Trovare il meglio era per i fortunati prescelti un punto d'onore.
Al termine dell'evento ricevere il plauso del gruppo era il massimo dei riconoscimenti: sulla personale operatività nelle varie zone di competenza lavorativa non si potevano dare giudizi, sia perché non c'erano collegamenti diretti, sia perché la cosa non poteva fregare meno; ma pur essendo il compito di queste ricerche soggettivo, il de gustibus finale complessivo era di promozione o bocciatura, in quest'ultimo sciagurato caso senza appello per le scelte future.
Al branco interessava che chi aveva l'onore della scelta fosse un buongustaio, tutto il resto erano pinzillacchere. Il ricordo di quelle cene doveva restare in memoria più assai delle comunicazioni, peraltro vagamente recepite, nel corso delle riunioni, almeno fino al futuro incontro collegiale.
Durante queste cene, essendo il gruppo formato (purtroppo/per fortuna) esclusivamente da maschi, gli argomenti di accompagno al cibo e alle bevande vertevano su questioni di interesse comune e generale, più a livello mondiale che nazionale.


(Purtroppo: è fuori di dubbio che una presenza femminile, in qualunque manifestazione, dà (quasi) sempre un tocco di gentilezza al convivio.
Per fortuna: è altrettanto fuori di dubbio che, nel caso specifico, sarebbe stata un freno a formulazioni verbali che in questi tipi di pranzi sono di prammatica; qualche termine poteva uscire leggermente fuori dal pentagramma dell'educazione abituale, per dare a questi pasteggi un tono da antica osteria, in ambienti eleganti, che invitavano a compostezza e decoro, e una presenza femminile sarebbe stata una palla al piede a chiacchiere in libertà, probabilmente non usuali nel normale ambito famigliare o lavorativo. Provocando magari un disagio generale che avrebbe poi influenzato il prosieguo del pasto. 
È doveroso, peraltro, specificare che parliamo di un illo tempore ormai assolutamente tramontato. La valanga di cambiamenti succeduta al famoso/famigerato '68 ha nel frattempo rivoltato completamente questa differenza di genere. Oggi, ma anche nell'immediato ieri, ci sono donne che potrebbero mettersi in gara con gli scaricatori di porto, la cui la fama (raggiunta nel corso di secoli) li metteva storicamente ai vertici del libero improperio e del più lascivo turpiloquio, in quello che era definito sinteticamente 'parlare crasso'. Forse non vincerebbero, ma sicuramente non sfigurerebbero...
Altri tempora, altri mores...).

Inoltre, la monotonia degli argomenti in chiacchierata, avrebbe potuto annoiarle...
Infatti si finiva per parlare soprattutto di fi...dejussioni, di fi...lantropia, di fi...renze, di fi...gurine, di fi...lologia, di fi...libusta, di fi..latelia, di fi...ori, ecc. ecc.
La coincidenza del prefissoide, soprattutto a causa di bicchieri presto vuotati, era di grande aiuto alla visione di un universo variegato, che in fondo sulla sillaba più immediata e intuitiva che lo seguiva fa perno il mondo. 
Checché se ne dica...
Ogni tanto, per evitare tempi vuoti e per tenere sciolte le lingue, ci si scambiavano aneddoti sulle rispettive zone, senza mai approfondire troppo l'argomento che, preso seriosamente, fregava, come detto, ad alcuno.
Raramente qualche cena non risultava rispondente alle attese ma, pur non avendo avuto un esito gaudioso, restava comunque nel ricordo, ma unicamente per la compagnia. 

Anche se l'amaro del fallimento sarebbe rimasto, nei secoli a venire, ricordo ricorrente...
E per il vino... che in caso di disastro culinario annegava il disappunto e consentiva di rinviare al prossimo cenacolo, senza ritorsioni troppo violente nei confronti di chi aveva sballato la serata.

Unica penalità, l'aut-aut a mai più occuparsi di una faccenda così delicata....
Dopo la cena, il caffè e il pussacaffè, le ore si facevano piccole, e ci si avviava, passin-passetto, come un branco di lupi sfamati verso l'albergo, solitamente lo stesso, in prossimità del pollaio. 

Gli stanziali accompagnavano i colleghi fino alla hall, sia per finire i commenti iniziati che per tenere compatto il gruppo.
Superfluo precisare che la camminata era utile anche a smaltire le conseguenze del bevuto.
Diciamo che come liquidi, senza arrivare all'essere brilli, si stava benino.


Tra le cene periodiche, una è rimasta impressa, nella testa e nel cuore del narrante, in modo particolare. 
Non per il cibo, non per il vino: più che altro per un breve scambio di battute, verso il termine del lento cammin facendo nel dopopasto, a nutrimento dello spirito dopo quello in via di smaltimento al corpo.
Quella volta eravamo, appunto, in cammino verso l'albergo.

Nel gruppo c'era un collega "A proposito".
Spiego: mettiamo che si parli di Egitto, piramidi, Il Cairo (la capitale, non il presidente di una gloriosa e infelice squadra), se uno saltasse su e dicesse: 

"A proposito, sapete che a Torino c'è il museo Egizio più fornito dopo quello del Cairo?".
L'a proposito ci sarebbe stato tutto.
Ma se, parlando magari, che so, di storia d'Italia (si fa per dire, vale solo come raffronto), un collega saltasse su sparando: 

"A proposito, sai qualcosa di quella bambina rapita?".
Buttato nel mucchio, ma mirato a un collega in particolare.
Che lo dico a fare: quel tapino, nell'occasione, ero stato io.

Sosta momentanea per un inciso, obbligatorio: poco più di un paio di mesi prima era stata rapita una bambina, di circa otto anni, a scopo dichiarato di estorsione. 
All'epoca la notizia aveva fatto un giusto scalpore; già il rapimento era, ed è, un crimine odioso, ancora di più se la vittima è una bambina o, come già successo, un bambino. 
Peraltro, alla luce di quello che è emerso negli anni successivi, con rapimenti a scopo pedofilo, sovente con l'uccisione delle piccole vittime dopo l'oltraggio, quel rapimento potrebbe essere visto come una normale transazione commerciale o finanziaria, un più o meno normale do ut des; sempre rispettando il dolore delle famiglie coinvolte emotivamente, colpite negli affetti più cari e preziosi, e, nello specifico, le paure della piccola rapita.
I giornali e le trasmissioni televisive più disparate avevano giustamente dato ampio spazio a quell'atto criminale, ipotizzando chi-come era stato commesso. 
Il perché si sapeva... e faceva temere per l'incolumità della piccola, al di là del pagamento o meno del riscatto.
Orbene, sul caso gli investigatori inizialmente brancolavano nel buoi, come si dice, e non rilasciavano dichiarazioni che andassero oltre la garanzia di una 'profonda indagine' in corso.
Che ai media non era sufficiente, cercavano di scavare nelle espressioni o nelle virgole alla ricerca di indicazioni atte a sfamare la voglia di sapere di lettori e tele-lettori.
Probabilmente su un input anonimo vagamente recepito, avevano, in prima battuta, indicato le ricerche verso una specifica Regione, in cui i rapimenti erano ormai una S.p.A., probabilmente con tanto di partita Iva e iscrizione alla Camera di Commercio, forse sotto la voce 'transazioni finanziarie senza limiti morali'.
Si dava il caso che quella Regione avesse avuto il mandato divino, in un tempo già lontano, di scodellarmi alla vita. E fin qui nulla di anomalo, una pugnata di milioni di corregionali avevano avuto questo privilegio, e a tutti si rizzava il pelo nel sentirsi accomunati a mascalzoni infami.
Esaurita questa pista, sempre per il solito pissi-pissi-bau-bau anonimo, le ricerche pareva si fossero dirette verso un'altra Regione, puntando i riflettori su questa che, a Dio piacendo, quanto a crimini di questo tipo aveva nulla da imparare.
La quale Regione, manco a farlo apposta, era tra quelle di mia competenza, e in cui, ormai da anni, avevo portato la mia residenza.
I giornalisti, non so in base a quali indizi, avevano anche accennato al luogo della possibile prigionia della bimba. Avevano parlato della zona di un monte, che più che leopardianamente ermo, era letteralmente aspro.
La strana coincidenza non aveva spinto gli investigatori ad aprire un fascicolo su di me e sul mio operato, né era venuto loro in mente di inserirmi nella lista dei possibili informati.
Nel periodo di questo racconto, da un paio di settimane era in atto un silenzio stampa, imposto dalle forze dell'ordine e accoratamente richiesto dalla famiglia della piccola.
Evidentemente il cerchio si stava stringendo, e non si voleva che da qualche gola profonda uscissero indicazioni che, allarmando i rapitori, ne avrebbero favorito la fuga, spingendoli ad azioni disperate, che sovente si risolvono in un esito tragico per le vittime innocenti.

Torniamo a noi e al ricordo di quel dopocena.
Gli inquirenti non mi avevano ritenuto degno di attenzioni, nonostante questi indizi potessero essere valutati. Forse la mia vita intemerata aveva fatto premio su valutazioni investigative che altrimenti sarebbero state per me perigliose.   
Non così per il collega A proposito, che da quelle coincidenze non aveva, ovviamente, tratto motivi di dubbio sulla mia probità, ma la provenienza natia della prima ipotesi sommata a quella del vivere nei luoghi indicati dai media come rifugio dei malfattori nella seconda, gli aveva dato lo spunto per porre quella domanda.
Essendo collega navigato, aveva pensato che il risiedere in quella zona fosse più che sufficiente per avere l'obbligo professionale di 'sapere'.
L'aveva posta, la domanda, con fare innocente, quasi casuale, direi giochereccio, in calce ad altri argomenti futili e ormai esauriti. Che, ovviamente, con la bimba nulla avevano a che vedere.
Appunto, a sproposito...
Era stata buttata nel mucchio, ma non era necessario essere particolarmente perspicaci per intuire a chi era rivolta.
Ora, le possibili risposte ad un 'a proposito' detto a sproposito, erano due:


a) "non ne so nulla, c'è pure il silenzio stampa"; che avrebbe provocato nell'astuto proponente una considerazione tipo: "ma come, sei in zona, ci vivi, e non sai quello che succede?", che come stupidità sarebbe stata pari al 'a proposito';


b) "siamo a buon punto, questione di poco e sarà liberata".


Se al posto di 'siamo' fosse uscito 'sono' sarebbe stato meno coinvolgente, ma avrebbe suscitato lo stesso qualche dubbio; sono/siamo poteva essere visto da due angolazioni diverse:  con la legge o contra legem?

Stesso verbo, stessa declinazione, plurale la prima, singolare la seconda: una differenza minima e nel contempo abissale con il semplice cambio di una sillaba.
Qualunque persona con un po' di buon senso avrebbe scelto la prima risposta (il 'non so nulla' è il modo più breve per sviare domande alle quali non si hanno risposte)  ma, per stare al gioco e nella certezza che la risposta a) non avrebbe dato soddisfazione agli uditori, avevo scelto quella b), ritenendola comunque innocua...
La risposta era stata accolta come giustamente meritava: una battuta e niente più.

" 'Notte", ormai piccola per noi, tutti a nanna, appuntamento all'indomani, che in realtà era già l'oggi di ieri.

Mattina successiva: barba, abluzioni rituali, paramenti adeguati alla riunione del giorno, e discesa verso la sala pranzo per la colazione di gruppo.
Pigro mattutino incallito, ero risultato buon ultimo della congrega.
L'entrata della saletta al piano, adibita all'uopo, era interdetta da porte scorrevoli, con vetri opacizzati, e con sensori di apertura automatica.
Avanzando con il passo tipicamente vispo di chi vuole mimetizzare le palpebre pendule, avevo superato l'ostacolo vetrato, oltre il quale si accedeva a un pianerottolo di breve sosta, da cui, scendendo pochi gradini, si arrivava alla meta.
I colleghi erano già tutti presenti, ma non avevo problemi, visto che per la colazione non era previsto un conclave ufficiale.

Il cicaleccio con cui alternavano i vari passaggi della colazione si era bruscamente interrotto.

Prima uno, poi con una specie di passaparola telematico, tutti i colleghi guardavano verso il nuovo entrato.

Ero solo, quindi non avevo alibi: dovevo essere io.
Il 'buongiorno' era offerto da un silenzio assoluto, assordante al confronto con  il parlottio appena interrotto.
Non soffrivo il complesso dell'incarnazione della Wanda nazionale (la Osiris, non la Nara, per chi sbocconcella i dintorni del calcio), quindi mi ero bloccato, cercando, come si dice, di fare mente locale, con un rapidissimo controllo mnemonico: pantaloni, c'erano; versare la quota della cena, fatto; odio le cravatte, poteva averla dimenticata, a posto anche quella...
A un silenzio si può rispondere solo col silenzio, supportato da un leggero scotimento della testa, destra-sinistra/alto-basso, completato dall'universale congiungimento delle dita rivolte verso l'alto, come quando si chiede, senza parlare, "che ca...volo succede?".
Nel frattempo avevo un piede rivolto in avanti per scendere, e l'altro rivolto all'indietro, pronto alla fuga: da un branco di colleghi silenti ci si poteva aspettare di tutto.
Sembravano tranquilli, e una volta sceso al piano, uno di essi aveva aperto il giornale, ancora profumato d'inchiostro, fresco di stampa. 

Prima pagina, titolo a nove colonne, il massimo consentito dalla larghezza del foglio:


"L I B E R A T A"

Troppo facile capire a chi fosse dedicato...
Uno sguardo all'occhiello e al sommario: 
"Wow! (leggere Uau!), meno male, è finita...".
Non avevo ancora memorizzato il discorso finale della notte precedente.
Io...
Loro sì!
Commenti da parte dei colleghi, tra ironia e sospetti, delicatamente repressi.
Riferiti alla frase della notte, vagamente insinuanti; per tutto il giorno mi avevano tenuto sotto osservazione, magari speranzosi di un blitz delle forze dell'ordine; non per altro, solo per vivacizzare un incontro che sarebbe potuto passare alla storia.
Galeotto fu quel "siamo", detto tra l'altro non in un perfetto stato di grazia, ovviamente innocente; ma il dilemma, sotto-sotto era rimasto: l'esimio collega, sempre io, sapeva o non sapeva?
Avevo giurato sulla testa di Giorgio* che non sapevo e non ero coinvolto, con la speranza di tacitare quelle jene, che un verbo sballato aveva spinto verso una convinzione errata.

Non per niente, nel cartoncino di saluto finale al pollaio tutto, era stato previsto un richiamo esplicito di allerta verso ipotetiche protezioni, che nel verde prato della libertà sarebbero venute a mancare. 

(Per non finire così tronco: se il collega "a proposito" avesse avuto un po' di fantasia, basandosi sulla convinzione iniziale, vista la situazione, avrebbe organizzato una processione, in fila indiana; il capofila avrebbe preso la mia mano, mormorando con rispetto "baciamo la mano a vossìa", come il protocollo specifico insegna. In risposta a questo segno di devozione, avrei pensato a un termine in codice, che manco i servizi segreti sarebbero stati in grado di interpretare, tipo un "vaffanculo". Ripetuto a corredo di ogni baciamano, in segno di fratellanza assoluta tra pollastri, comunque destinati alla pentola).

Fine.
Anzi no: nell'articolo, che supportava il titolone a nove colonne, venivano date informazioni dettagliate sull'operazione delle forze dell'ordine: i delinquenti rapitori non avevano nulla a che vedere con la mia terra natia e neanche con quella di domicilio.
A notte inoltrata l'Ansa aveva diramato la notizia della liberazione, recepita al volo da tutti i quotidiani che erano riusciti a stamparla come notizia principale.
All'epoca i cosiddetti social erano ancora a venire, per cui non l'avevano potuta twittare al mondo notturno di cellulari e personal ancora in lento itinere.  
Si era trattato di una treina di farabutti quasi locali, non alle prime armi, ma evidentemente senza una storia patria alle spalle. 
Oggi che questo racconto esce, probabilmente sono da tempo in libertà; con la speranza che i riflettori di quella infamante momentanea notorietà abbiano nel frattempo illuminato le loro menti, portandole su una strada più onorevole di quella della (pure detta 'onorata') società a delinquere che avevano intrapreso.
Questo per la cronaca.

* Giorgio era un  rospo che frequentava il nostro giardino. Per i suoi colleghi e per gli animalisti, all'epoca era vivo vegeto e apparentemente felice; se ne è poi andato di sua sponte, comunque con la testa sul collo (o sulla schiena, boh!?), a conferma che il giuramento era andato a buon fine. Il nome era nato dal ricordo di un periodo lavorativo precedente, in cui avevo 5-colleghi-5 che si chiamavano Giorgio, con cui lavoravo quasi gomito a gomito. Ogni volta chiamare 'Giorgio' significava che per parlare con l'interessato era d'uopo accettare almeno quattro "che c...osa vuoi?" di chiamata a vuoto. All'epoca dell'episodio raccontato c'erano ancora tutti; tempo dopo ho saputo che almeno un paio se n'erano andati. Un modo come un altro per ricordarli tutti, con immutata simpatia. Il giuramento sulla testa di un rospo era meno impegnativo che farlo su un personaggio umano... Non si sa mai come vanno a finire certe cose... L'inferno straripa di persone presunte innocenti, così come il paradiso non riesce più a contenere fior di mascalzoni, che la storia conferma essere stati tali. Anzi, molti di questi sono pure glorificati sugli altari.

domenica 1 dicembre 2019

Me lavadur (al lavatoio)

L'articolo su un quotidiano che raccontava di una donna 96enne, Maria Salti, ultima lavandaia di Milano ai Navigli, mi ha portato alla mente questa poesia di F. Gamberini, del 1979, pubblicata nel prezioso libretto "Garnël 'd guàzza", editato nell '84 dall'appassionato bibliofilo parmense R. Battaglini. La pubblico in omaggio a quella signora, non senza una considerazione fattuale: le lavandaie antiche sono scomparse, i lavatoi antichi pure; il Parlamento, per antico che sia, rimane, vivo e vegeto più che mai, sempre più astutamente vorace, con panni sporchi e manovre zozze che le lavatrici attuali non riuscirebbero mai a ripulire. Forse le strizzate e le sbattute sulle pietre dei lavatoi di quelle lavandaie raggiungerebbero lo scopo... Forse, ma la speranza che i membri di quel consesso possano 'ripulirsi' e cambiare, va scemando, scomparendo, come quelle lavandaie, le vere 'onorevoli' di fatto. Un altro piccolo grande mondo che se ne va.


Me lavadur
(Francesco Gamberini - 1979)



Am fermèva longh e fòs tott ch’al dòni a sbarlucè;
l’era un spas mo sèmpre gròs a sentili ciacarè.
M’al do fili d’lavandèri, ch’a gl’andèva sô e zô,
ui piaseva al cosi cèri da strizè ’na vòlta d’piô.
Al nutizi piò atuèli ch’al daseva turbameint,
seinza pel e puntuèli a gl’aveva i su cumèint.
Fra ‘na bota e ‘na risèda l’argumeint al dipanèva
E sl’ultima insavunèda enca e fat us risciarèva.
S’a fasèm un paragòun fra ti-vu e lavadur,
bsagna fèsne ‘na rasòun, l’era st’ultme piô sicur.
L’era cum’è in Parlameint sa ognun te su sètor,
cun mumeint ad smarimèint ch’i ‘era satur ad livor.
Snà che i què al lavurèva sal su brazi e cun sudor,
meintre lor i sla spasèva a la faza dl’eletor.
Ma sta gran lavanderia pina ad pan d’una zità,
tott e sporch che vniva via gnenca l’era la mità.
Ma un gnèra cativeria sol un pezgh d’malignità;
l’onich sfigh che la miseria la s’permett in quantità.

Al lavatoio


Lavatoio dei Navigli a Milano
Mi fermavo lungo il fosso tutte quelle donne a rimirare;
era veramente uno spasso sentirle chiacchierare.
Alle due file di lavandaie, che andavano su e giù,
piacevano le cose chiare da strizzare una volta in più.
Le notizie più attuali che davano turbamento,
senza peli e puntuali avevano il loro commento.
Fra una battuta e una risata l’argomento dipanavano
e con l’ultima insaponata anche il fatto rischiaravano.
Se facciamo un paragone fra televisione e lavatoio,
bisogna farsene una ragione, era quest’ultimo meno dubbio.
Era come in Parlamento con ognuna nel suo settore,
e momenti di smarrimento saturi di livore.
Solo che qui si lavorava a forza di braccia e tanto sudore,
mentre là se la spassavano alla faccia dell’elettore.
In questa grande lavanderia, piena di panni d’una città,
tutto lo sporco che veniva via non era neanche la metà.
Ma non c’era cattiveria, solo un pizzico di malignità;
l’unico sfogo che la miseria si può permettere in quantità.