domenica 15 settembre 2019

Dalle frasche a un palo

Parafrasando il noto "di palo in frasca", la cui definizione originaria è ancora sconosciuta, con una definizione inventata da un poeta che aveva notato il passaggio degli uccelli da un palo alle frasche, i ramoscelli ballerini delle piante, alternando queste alla solidità dei pali stessi... abitazioni a cielo aperto, con servizi sanitari a tutto campo. Questo per i piccoli volatili; i piccioni, per dire, si posteggiano di volta in volta sui pali elettrici, sui fili di collegamento tra i pali stessi, sulle antenne, costoro, per i loro bisogni solidi, preferiscono le auto parcheggiate... o la testa dei passanti. Tutta un'altra poesia.

Correva l'anno... non ha importanza, si tratta di un illo tempore talmente remoto che la data è ormai in un archivio, coperta dalla polvere del tempo.
Ci eravamo conosciuti quasi per caso, come spesso accade per disegni del cosiddetto destino che, nonostante tutte le scoperte tecnologiche e umanistiche, sono impossibili da decifrare e da prevedere.
Abitavo in una camera ammobiliata, poco più che una cella conventuale; un letto, un armadio (antesignano dell'arte povera, che anni e anni dopo avrebbe spopolato, passando prima dai rigattieri, poi dagli antiquari, che l'avrebbero prezzata al meglio per invogliare all'acquisto di pezzi cui l'etichetta di 'arte' sarebbe stato valore aggiunto), un lavandino (solo acqua fredda) nascosto in un armadietto a muro, un tavolo poeticamente azzoppato e un paio di sedie. Il bagno, in comune con altri locatari, in fondo a un corridoio su cui si affacciavano le porte delle varie stanze destinate al fitto, comprendeva il vaso e un lavandino; essendo tutti maschi, l'assenza del bidet era stata data quasi per scontata.
Il letto era, ovviamente, a una piazza scarsa; la lunghezza non era un problema, diciamo che avessi fatto domanda nei corazzieri avrei potuto essere una discreta controfigura del Rascel corazziere, nel film uscito nelle sale pochi anni prima. Alla visita di leva ero stato abilitato a servire il re per essere disponibile anche per la regina, ma essendo sia l'uno che l'altra emigrati in mari atlantici, sarei rimasto disoccupato, con non poca felicità e disappunto alcuno da parte mia.
Quanto alla larghezza, i canonici novanta centimetri, più che sufficienti per il giusto riposo di meno di sessanta chili pigiama compreso; anche il rischio di cadute in caso di incubo da sogni era ridotta: era una branda a quaranta centimetri dal piano pavimento, per cui anche un tracollo al più avrebbe massaggiato le natiche o la testa.
Le prime erano state tonificate da abbondanti percussioni calcerecce, ricevute sia nell'infanzia che nell'adolescenza; la seconda era talmente dura, per antonomasia regionale, che il pavimento avrebbe protestato per la botta...
(In seguito, col passare degli anni mi sono reso conto che la nota durezza si riferiva esclusivamente alla calotta cranica, scoprendo che altra cosa è la durezza del contenuto; ho avuto modo di conoscere persone, tante, le cui fontanelle cervicali evidentemente non si erano saldate a sufficienza, rendendo il contenuto cerebrale più accessibile e, col tempo, più coriaceo che una calotta regolarmente calcificata. Il che mi ha sollevato dal dubbio che una testa definita dura si riferisse precipuamente alla parte ossea esterna; non per niente in caso di frattura della crosta il pericolo di danni non riguarda tanto l'esterno quanto l'interno, e se questo è sano per saldare il contenitore basta un'officina per rimediare; se è danneggiato l'interno non ci sono santi, si resta bacati. Passaggio non previsto per demolire una fama chiaramente immeritata. Sorry, chiedo venia per la digressione). 
Lei stava presso una famiglia di compaesani, in un vecchio alloggio che non aveva nulla da invidiare alla mia modesta cameretta; piccolo, umido, quasi seminterrato, per una coppia con due figli piccoli era già contenitore cimiteriale e l'aggiunta di una quinta persona poteva essere quanto meno ingombrante. Ma la generosità è tipica di chi ha poco e non esita a dividere la propria povertà con chi appare più povero ancora. Lei rientrava da un'esperienza francese e si era appoggiata a loro in attesa di altro, che ci voleva poco per poter essere definito migliore.

Una volta conosciuti e assaggiati, il problema era trovare il tempo di stare un po' insieme, per una conoscenza più approfondita, per uno scambio di quanto fino ad allora vissuto... Al possibile futuro non avevamo mai accennato, forse lo affidavamo inconsciamente a quello stesso destino che ci aveva fatto incontrare.
Lei lavorava presso una ditta che produceva fanaleria stradale, doveva prendere un mezzo che la portasse alla zona industriale, poco oltre la periferia della città; per rispettare l'orario doveva prendere il bus poco dopo l'alba per rientrare con lo stesso mezzo in tarda serata.
Io ero impegnato in un altro campo; avevo già una macchinetta, comprata di seconda mano, ma la mia presenza al lavoro era fissata al pomeriggio, con rientro ogni sera, quando tutto andava bene, verso le nove e mezzo.
Quindi a parte le feste, che mi vedevano comunque impegnato ma con lei libera, non restavano che le notti, sia per raccontarci la giornata che per fare altro, anche solo per passare il tempo in modo divertente.
Dai suoi ospiti non era possibile, quindi sovente veniva da me; in casa diceva che si sarebbe fermata da amiche, ma era una scusa che era durata poco; anche a menti pure era difficile far credere che una ragazza giovane e belloccia passasse nottate intere a discorrere con amiche, per amiche che fossero. Non era malizia, era un dato di fatto difficile da smentire.
Un boccone, una volta qua, una volta là, giungeva sempre l'ora di andare a letto. Anche per dormire.
Delle misure del letto ho già parlato; giuste misure per una persona, per due diventavano leggermente scarse.
Così, una volta fatti i compiti serali, eravamo come patelle di mare incollate alla roccia.
Nelle notti invernali, il tepore dei due corpi era senza alcun dubbio piacevole; nelle notti primaverili andava ancora bene; in quelle estive un po' meno.
D'altra parte dovevamo fare di necessità virtù, a meno di fare una turnazione coricandoci un po' per uno, passando il tempo della veglia in adorazione del dormiente.
Come patelle di mare, lo staccarsi creava il fondato rischio di franare al suolo; che, pur non provocando danni fisici, avrebbe innescato una ridarella senza fine. Sperimentata.
Dopo un po' di tempo mi ero guardato intorno alla ricerca di qualcosa che rendesse più arioso e meno periglioso il riposo notturno.
La padrona di casa non voleva intromissioni esterne; ancora meno se notturne; ancora meno da parte di patelle femminili non regolarmente imparentate. Dovevamo entrare di soppiatto, in punta di piedi, a tarda notte; ripetendo lo stesso percorso, all'inverso, alle prime luci del giorno, con visite di avanscoperta per tutto il corridoio fino all'uscita. Ogni volta, in entrata e in uscita, un'avventura.
Non avevamo mobili, i nostri averi erano stipati in un paio di valige, una sua e una mia.
E non avevamo molti mezzi per trovare un alloggio e arredarlo al minimo sindacale.

Avevo trovato, in alternativa provvisoria, un sottotetto al sesto piano di un vecchio palazzo, in pieno centro città, senza ascensore, che (targa esterna diceva) aveva ospitato Cesare Pavese in un dato periodo della sua travagliata esistenza. Scoperto successivamente il fatto storico, il saperlo non alleggeriva l'arrampicata quotidiana, all'epoca baldanzosa e senza fiatoni. Con l'esperienza, comunque, non avevamo mai dimenticato le chiavi della macchina o l'ombrello o altro per cui fosse d'obbligo risalire quell'erto colle.
Ce lo aveva segnalato il figlio della mia ormai ex padrona di casa, che lo aveva arredato per uso garçonnière, col minimo indispensabile per soggiorni più a scadenza oraria che giornaliera o notturna. Un lettone a una piazza e mezzo, una cucina economica a cherosene con quattro fuochi, un tavolinetto ovviamente traballante e un paio di sedie, anch'esse con una stabilità da scommessa.
Era proprio sotto le tegole, più che due cuori in una capanna, eravamo finiti in una piccionaia.
E, in effetti, eravamo due giovani piccioni che il tubare permanente faceva ritenere d'essere sotto un tetto di stelle intervallato da cuoricini lampeggianti.
Avevamo anche l'acqua in casa, quella che un già noto cantante un paio d'anni prima aveva esaltato in una canzone di successo, acqua con cui lavarsi senza scendere giù nel cortile; che peraltro non c'era, in un palazzo a scala unica sboccante direttamente su una grande piazza.
Con l'animo pregno di poesia, quando pioveva era impossibile non pensare alla pioggerellina che picchia argentina su tegoli vecchi del tetto di una altrettanto nota, e pur sempre bella, poesia, inchiodata a forza in menti che di quella pioggerellina sentivano solo la costrizione al ricreatorio interno che, seppur ampio, limitava le scorrazzate che un cortile alberato invece offriva.
Solo che quella pioggerellina non terminava il suo percorso su bruscoli secchi e su mori, ma in un catino smaltato, opportunamente posizionato a salvare la cucina dal lacrimìo tintinnante, dovuto a un paio di tegole smosse o crepate, e che rendevano difficoltoso il già poco cucinare e il riscaldamento di quella cella da piombi veneziani.
Il bidone di cherosene da 20 litri pesava circa 20 chili e, ça va sans dire, portarlo lassù in cielo era diverso che portare venti chili di piume (lo so, nelle comparazioni sono sempre stato una frana...).
Un'incoscienza giovanile spinta all'accesso mi aveva portato ad uscire sul tetto (da un abbaino spiovente pari al tetto, senza corde di trattenuta o almeno un ombrello a far da eventuale paracadute) per rimettere a posto quelle tegole, riportandole alla giusta sovrapposizione che portasse le piogge verso il fondo valle, della grondaia prima e nella strada poi.
O, forse, più che incoscienza era il ritorno di sogni adolescenziali nei quali, in mancanza d'altro, guardavo il mio piccolo mondo sdraiato su una nuvola, da cui scendevo planando come un aliante sul suolo sottostante. Come un aliante... o come un piccione...
Era andata bene, tegole a posto, niente splash! che, forse, avrebbe reso problematico oggi questo racconto.
Era durata poco l'avventura in piccionaia, un periodo di transizione tra la camera ammobiliata e la ricerca di una abitazione a misura d'uomo. E, poiché eravamo già insieme, anche di donna; di coppia, anche se coppia non ancora ufficiale.
A misura di coppia e di portafoglio.
Io ero solo, lei era sola, i suoi genitori lontani, il metterci insieme non era stata una scelta da bohémienne, che allora era pure di moda, tra figli dei fiori e figli di papà che, con le tasche gonfie di quattrini, giocavano a fare i clochard per suivre le mode, apparire moderni e di idee progressiste.

Avevamo trovato un alloggetto, bene ammobiliato, carino nel suo insieme, ma proprio un minialloggio, con vista panoramica su un'officina di elettrauto, in una via del centro molto trafficata, con continue prove di clacson e sgommate musicali da parte di chi ripartiva con la vettura sistemata.
Con una sola aria, non era possibile dare un po' di corrente per rinfrescarlo nei periodi di maggior calore. E anche il ventilatore all'uopo acquistato faceva girare in casa solo aria calda.
Ma, a tutti questi pregi, faceva il controcanto un prezzo sopportabile solo per un breve transito.
Tra l'altro il tizio che ce lo aveva affidato con mille raccomandazioni, aveva chiesto due mesi di cauzione, per recuperare i quali, una volta deciso l'abbandono, avevamo dovuto sudare le classiche sette camice, che erano poi quasi il totale in nostro possesso.
Il figlio di buona donna, un filibustiere levantino, ce li aveva ridati dopo un assedio pressante durato oltre sei mesi.

Quasi per caso, il solito destino?, ci era stato indicato un alloggio vero, ancora in costruzione, in un paese limitrofo a una decina di chilometri dal centro città in cui in via provvisoria piccionavamo, appena fuori dalla periferia cittadina, della quale col tempo sarebbe diventato parte, pur mantenendo la sua individualità, come grosso centro abitato e come comune.
Avevamo contattato direttamente il costruttore, un personaggio che definire 'singolare' sarebbe riduttivo: aveva un'impresa di escavazioni, specializzata nella realizzazione di pozzi neri per ville e villette fuori mano, non servite dalle reti fognarie comunali.
Lui, Bartolomeo, e il fratello Enrico erano soci in quest'impresa e la conducevano alla grande, entrambi muniti di un diploma di quinta elementare (quinta mignin per chi sa il dialetto), un commercialista addottorato a seguire conti e fatture... ma con i clienti preferivano trattare di persona: volevano 'pesare' le persone prima di eseguire lavori che se non giustamente remunerati li avrebbero portati in breve al fallimento.
Ed erano lavori impegnativi, con mezzi meccanici e personale all'epoca all'avanguardia.
Impegnativi, ma giustamente redditizi...
Abitavano entrambi in due alloggi, in un palazzo quasi vecchio, abitazioni forse acquistate con i primi utili dell'impresa.
In cambio di alcuni lavori, anziché la vil moneta avevano accettato un'area edificabile, e lì stavano costruendo un palazzotto che rispecchiava il loro carattere, soprattutto quello di Bartolomeo che dei due era il più attivo, oserei dire il più sveglio.
Caratteri asciutti, forse da antichi contadini, scrutavano i visi delle persone, scavavano sulla loro affidabilità e quando davano fiducia non avevano bisogno di mettere nero su bianco per onorarla.
Sia nei lavori che, successivamente, nell'affidare in locazione il frutto di questi.
Il palazzo, come ho detto, era in costruzione. Situato in una zona in fase di sviluppo, era a ridosso, sul frontale, di una grande piazza, con alberi piantati quasi a casaccio, residuo forse di un ampio terreno agricolo ancora da 'civilizzare'; sul retro, la casa si sarebbe affacciata su un campo di mais, che la divideva da una linea ferroviaria (che moltissimi anni dopo sarebbe diventata motivo di scontri, tribali, politici, economici... gli ambientalisti, allora, erano illustri sconosciuti); sulla destra, guardando la piazza, c'erano i muri di un campo sportivo... oltre questo solo campagne e, ancora oltre, le montagne, con cime innevate fino a primavera inoltrata; a sinistra altri campi.
Sobria, con un'eleganza che, lungi dall'essere povera, atteneva al carattere già citato dei due fratelli, la costruzione aveva un'ampia entrata, dopo la quale si divideva in due scale, cinque piani, un ascensore ciascuna, due alloggi a ogni rampa; quelli verso il corpo centrale avevano due arie ed erano più ridotti di quelli verso l'esterno; questi avevano un terrazzo che correva tutt'intorno all'alloggio, con porte- finestra che da ogni camera collegavano alle altre.
I pavimenti in marmo, sia nelle scale che nelle abitazioni, davano l'idea di un lusso per noi sconosciuto, abituati a scale di palazzi vecchi, quasi antichi, in cui le lastre di pietra e le piastrelle sfidavano i secoli.
Una regola, imposta dai proprietari, non era da discutere; era possibile contrattare sul prezzo del comodato e su altre pinzellacchere, ma era assolutamente vietato stendere i panni verso l'esterno, verso le facce a vista, ci tenevano in maniera puntigliosa, veramente contadina.
Non è mai successo nel periodo in cui fummo colà locatari, ma credo che se uno sfratto fosse avvenuto non sarebbe stato per morosità o altre corbellerie: sicuramente la recidiva in questa vituperata stesura di panni a vista sarebbe stata motivo di troncatura del rapporto.
Forse anche per questo, per controllare il rispetto di questa regola, aveva destinato un piccolo alloggio di fronte all'entrata dall'esterno a una coppia, con la qualifica di custodi.
Povera gente, non pagavano affitto, in cambio tenevano pulito il palazzo e il giardinetto laterale, con qualche lira per mantenersi dignitosamente. Longa manu dei proprietari per una sorveglianza discreta ma ferma.
Maria e Gerardo... in seguito, più un bimbo prima e una bimba poi. Magari ne parlerò in un altro racconto, più avanti. Erano due sagome, meriterà ricordarle.
All'epoca non ero stato ancora contagiato dalla malattia della concisione, e nella parlantina me la cavavo piuttosto bene. Così avevo convinto Bartolomeo che eravamo personcine per bene, rispettose, affidabili nei pagamenti e in quant'altro richiesto in vista di un connubio che speravo a lungo termine. Che, peraltro, non era millanteria ma verità assoluta, senza false modestie.
Sfegatato per una squadra di calcio cittadina, non aveva pensato, allora, di chiedermi se e per chi eventualmente tifassi. Lo avesse fatto avrebbe tirato una riga sul mio nominativo, poiché appartenevo all'altra sponda. Il saperlo, in seguito, non avrebbe impedito una mia collaborazione a un'impresa che un tifoso fanatico avrebbe definito abominevole.
Anche di questa dirò in un futuro più o meno prossimo.
L'affitto proposto era un po' salato, ma ci aveva assicurato che finché fossimo stati lì non avrebbe subito aumenti di alcun genere.
Salato, ma sempre inferiore a quello dell'ultimo alloggio ammobiliato fronte officina.
Essendo tra i primi a concorrere, ci aveva dato la più ampia scelta dei locali più aderenti ai nostri sogni e alle nostre tasche.
Terzo piano, vista sul campo di mais e, in lontananza, della ferrovia.
Dopo le firme, a suggello dell'accordo raggiunto, aveva aperto la porta a una possibile amicizia con un dialettale "dumse del ti, ca fuma pi' 'npressa", diamoci del tu, che facciamo prima.
Per la cronaca, con il passare del tempo, con l'avvento del cosiddetto equo canone, il nostro affitto aveva finito per essere inferiore a questa novità: ma non era mai stato chiesto l'adeguamento.
Erano ancora tempi in cui potevi smarrire il contratto di carta, ma la stretta di mano di un accordo aveva il sapore dell'eternità.

Avevamo preso possesso dell'abitazione quando i gradini delle scale erano ancora ricoperti di calce e paglia a impedire danni al marmo degli stessi nelle attività di trasloco del mobilio.
L'alloggio era composto da una entrata squadrata, che dava accesso a un tinello, che a sua volta introduceva in un cucinotto con porta scorrevole; a un soggiorno, alla camera da letto, al bagno (con vasca), a un ripostiglio. Nel sottosuolo una cantinetta con porta in metallo, compresa nel canone mensile e un box per la macchina, con costo trattato a parte..
Per noi era una piazza d'armi, con muri e porte a disegnarne l'ampio spazio.
Per arredarla in ogni settore, avevamo dovuto fare bene i conti e centellinare le risorse in base a precedenze attentamente programmate,
La prima era la camera da letto, poi il cucinotto, poi il tinello... ultimo il soggiorno, che avrebbe compreso anche una libreria.
In attesa del lettone, mi era capitato di schiacciare il pisolino pomeridiano dentro la vasca da bagno, con una maglia per cuscino; esperienza ossea irripetibile.
Per il tinello era arrivato il tavolo ma senza sedie, e per i primi pasti ci eravamo seduti affiancati su un baule a suo tempo acquistato per il trasporto delle nostre poche masserizie.
Avevamo preso tutto il mobilio da un unico commerciante, e la cifra complessiva mi aveva di già imbiancato un po' i capelli.
Ho sempre odiato fare debiti; più dei debiti ho sempre odiato gli interessi che su questi, dicono giustamente, è prassi comune pagare. Piuttosto che fare il finanziamento proposto, avevamo concordato per il pagamento tramite "pagherò" diretti (altrimenti detti cambiali o, pudicamente, farfalle), limitati a una decina di mesi.
Avevamo finalmente una casa nostra, una casa vera, e il fatto di essere in affitto non sminuiva la soddisfazione in vista di un vivere finalmente a livello umano.

Prossimamente vedrò di mettere insieme qualche spicchio dell'esperienza là vissuta. Non per il vezzo di raccontare i fatti miei, bensì per rivivere in me quelle emozioni, magari dovute a innocenti banalità...
Teoricamente, ne scriverò a mio uso e consumo.

9 commenti:

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  2. Saltando di palo in frasca dal detto ‘saltare di palo in frasca’ è un modo di dire che risale almeno al 1549, inizialmente usato per indicare i passeri e poi gli uccelli in generale, derivato probabilmente dal loro modo di saltellare da un ramo ad un altro senza alcuna ragione apparente, diventando in seguito la rappresentazione da un titolo/ simbolo nobiliare ad uno plebeo come decaduta di una famiglia, cambiando quindi completamente contesto.
    Saltare di palo in frasca significa passare da un argomento all’altro senza ragione logica, parlare di cose totalmente diverse l’una dall’altra.
    Ho intitolato così la mia raccolta poetica perché scrivo di argomenti diversi l'uno dall'altro senza alcun motivo logico, seguendo soltanto la penna e le mie emozioni del momento ma anche passate, attraversando diversi sentimenti tra uno di gioia ed uno di tristezza proprio come farebbe un uccello da un ramo ad un altro. In questa mia opera, dunque, troverete diversi argomenti rappresentati/ descritti dal punto di vista di una persona sensibile all’arte ed alla vita in generale.

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  4. Perché si dice “di palo in frasca”
    Saltare di palo in frasca sta ad indicare chi, durante un discorso, passa da un argomento a un altro senza seguire un senso logico. Proverbio coniato nel 1549, il palo era un’insegna araldica e veniva posto vicino al ponte levatoio del castello, mentre la frasca indicava un’osteria. Quindi il palo indicava il nobile mentre la frasca il popolare.

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  5. Enciclopedia 'semovente'... È per me un piacere immenso quando riesco a conoscere cose e fatti finora ignoti. Per quanto riguarda questo testo, ho preso il riferimento per sposarlo al fatto che da una situazione di precariato abitativo (le frasche) alla fine ero approdato a un posto stabile. Come dire che da zingaro ero divenuto stanziale.
    Erto mi è sfuggito, non pensando alla poesia in sé ma ad una salita faticosa. Speriamo che Leo non se ne adombri.
    Grazie.

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