domenica 10 febbraio 2019

Una bella giornata

Preambolo, per rompere il ghiaccio.

Troia: è la città immortalata da Omero, con le sue passioni, il suo coraggio e le sue ingenuità. Riportarne qui la sua storia sarebbe fare sfoggio di una cultura che è ormai, dalle elementari, entrata nel sapere comune. Vuoi per il cavallo, vuoi per il nome della città, entrato di forza nell'intercalare quotidiano. Raramente in tono scherzoso, sovente come presa d'atto di una genitorialità quantomeno ambigua.
Troia è anche una ridente cittadina del foggiano (‘ridente’, poiché si usa definire così ogni paesotto che non sia più borgo e non ancora città). Con un nome così, il ‘ridente’ stride un po’, ma contenti i paesani, contenti tutti.
Tra l’altro, nella sua storia c’è un fatto curioso che non sono riuscito a spiegarmi: nel suo stemma originario era raffigurata una scrofa allattante dei maialini e il nome della città era diverso; nel 1500 la scrofa era stata sostituita da un’anfora con dei serpenti in essa inzuppati, e il nome era stato cambiato in quello attuale, che dà l’idea del nobile animale senza mostrarne l’onusta figura.
Per addolcire l'impatto negativo che questo sostantivo potrebbe suscitare, esistono un paio di modifiche in uso comune: una mette una j al posto della i corrente (Troja), ma la lettura vocale appare soggettiva; l'altra versione è Troìa, con la ì accentata che invita a una cadenza vocale più accettabile.
Fine del preambolo storico-geografico.

Nel seguito di questo "racconto" compare una figura che, sia per rispetto della privacy sia per il fatto che non ne ricordo il nome, dovrò citare con un titolo di fantasia. Casualmente ho pensato a Tròia come pseudonimo, nella cadenza attribuitale dalla storia e, sempre casualmente, nel senso del dire comune poi  attribuito a quel termine.

Otto anni fa, dodici giorni dopo il ricovero nel reparto di neurologia chirurgica, nove dopo il primo intervento.
L'oggi di allora cadeva di giovedì.
Il mercoledì precedente, in mattinata c'era stata la canonica processione di visita in vista delle dimissioni prossime future, primario alla guida seguito da tutto lo staff  di turno in forza al reparto.
Dalle otto alle dodici l'imperativo del "tutti fuori" era rispettato, senza eccezioni di alcun genere. I parenti in assistenza notturna venivano allontanati per fare luogo alle pulizie, alle visite mediche, alle medicazioni. Fino alle dodici spaccate il divieto di accesso era fatto rispettare da un addetto che apriva la porta d'entrata esclusivamente a conosciuti coinvolti nelle cure.

Angela, il martedì successivo al ricovero, era stata operata, le era stato applicato un drenaggio esterno ed era alimentata con fleboclisi; applicati al petto i sensori e ad un dito un aggeggio per la rilevazione costante della pressione arteriosa; un monitor nella testata del letto trasmetteva i dati relativi al decorso post-operatorio; e catetere urinario, a completare quella che avrebbe dovuto essere una specie di robotizzazione della persona.
Già dalla partenza dal primo pronto soccorso era agitatissima, tanto che per fare la TAC avevano dovuto ‘sedarla’.
Quell’agitazione era riemersa, amplificata, al risveglio dall’anestesia somministrata per l’intervento.
Le avevano fermato le mani con dei bendaggi alle sponde laterali del letto, ma, nonostante queste legature, riusciva a strapparsi dal corpo tutto quello che non faceva parte ormai del suo corpo stesso.
Dopo tre giorni di tentativi, che eravamo riusciti a bloccare standole addosso con gli occhi e le mani in continuo movimento, era riuscita a strapparsi anche il drenaggio esterno, che era posizionato alla sommità del capo. Era stato necessario un ulteriore intervento per applicarne uno nuovo, stavolta all’interno, che convogliasse l’uscita di siero in dispersione verso l’addome.
A causa di questa agitazione, più selvaggia di quanto sia possibile immaginare, le avevano bloccato anche le caviglie, con fasce contenitive legate al cancelletto para-cadute lungo le fiancate.
Avevamo chiesto qualcosa per calmarla; ci avevano risposto che non era possibile, a causa di possibili interferenze con l’assestamento post-operatorio della zona cerebrale interessata.

(L’ignoranza è la madre di tutte le cazzate, e, da ignorante, a posteriori rivedo il corso della vicenda Sposini, capitata a sproposito circa tre mesi dopo, verso fine di aprile, e di cui in questi giorni si torna a parlare, con riferimento a miglioramenti lenti ma costanti che fanno ben sperare e che mi vedono al suo fianco con tutta la simpatia e gli auguri possibili. A sproposito, poiché la sua disgrazia ha portato a comparazioni che, seppure antipatiche, sono spontanee quando a due persone diverse capita lo stesso accidente in un lasso di tempo così ravvicinato. Sorvolo sulle polemiche per i tempi dei soccorsi e dell'intervento vero e proprio relativi a una identica situazione, che meriterebbero un "racconto" specifico... Sposini per alcuni giorni è stato tenuto in coma indotto, detto farmacologico, per consentire al corpo una reazione spontanea propiziata da una calma assoluta, che ne consentisse il recupero graduale, seppure lento. Ribadisco la mia ignoranza, ma trovo strano che, a fronte di un intervento delicato e di una agitazione parossistica che ne metteva a rischio l’esito, non fosse stato possibile un passaggio farmacologico perlomeno calmante; ferme restando le possibili differenze tra i due casi).

Fatto sta che i dieci giorni successivi all'intervento erano stati un vero inferno sia per la sorella che per me. Ci davamo il cambio ogni mattina e stavamo accanto al letto fino al mattino successivo. Che ci trovava con gli occhi sbarrati per la veglia continua e il sistema nervoso a rischio di collasso.
Le oltre due ore di autobus per il ritorno a casa erano coperte da un sonno improvviso e traballante. Per fortuna il viaggio era da capolinea a fine linea, altrimenti chissà dove saremmo finiti.
D’altra parte era impensabile il ricorso a un mezzo nostro: sarebbe stato un sicuro suicidio, preterintenzionale.
Il primario, che l’aveva operata, lo avevamo visto qualche volta in transito nel corridoio del reparto.
E lo avevamo visto da vicino quel mercoledì pomeriggio, quando, accompagnato dalla dottoressa Tròia, mi aveva comunicato le inattese dimissioni di Angela, programmate per il giorno successivo.
Vale la pena di ricordare che lei era ancora vincolata al letto, sempre carica di accessori medici, ancora agitatissima e sempre non cosciente.
Non avessi saputo il significato della parola ‘panico’ l’avrei appreso dal vivo in quel momento.
Avevo pensato a un trasferimento dal reparto di neurochirurgia a quello di neurologia medica per un prosieguo delle cure; non pensavo alla possibilità di una rimessa in posizione verticale, era troppo malmessa per sperarci, ma contavo su un pur minimo ritorno al senno.
La dimissione nuda e cruda era una ennesima mazzata dopo il malanno che ci aveva colpito.
Aveva ipotizzato il ricovero in una clinica in una località raggiungibile con un bus che effettuava una sola corsa giornaliera di andata al mattino e altra di ritorno la sera. Persa la coincidenza, l'unica alternativa sarebbe stato un taxi. Andare con mezzo proprio avrebbe confermato il rischio di suicidio prima citato.
Senza una guida telefonica per cercare un ricovero adatto alle condizioni di Angela, senza neanche un nome da cercare che avesse le caratteristiche per una terapia adeguata, di cui tra l'altro non riuscivo a valutare il peso, parlare di panico è perfino eufemistico.
Avevo telefonato al nostro medico di famiglia, gli avevo spiegato l’accaduto e chiesto una dritta per l’immediato dopo ospedale. Mi aveva dato un nome, assicurandomi che avrebbe contattato lui stesso la struttura per tentare di fermare un posto.
Mi aveva dato il recapito telefonico di quella casa di cura. Purtroppo l’ufficio ricoveri era aperto solo fino alle due del pomeriggio, bisognava richiamare al mattino dopo, dalle 8 in poi.
Inoltre avevo chiamato un servizio ambulanze per il trasporto in autolettiga, rinviando all’indomani la comunicazione dell’orario della dimissione.
Nottata più infernale che mai.
Il giovedì mattina, appena scattata l'ora del "fuori tutti" alle 8, avevo chiamato la casa di cura; avevano chiesto un’oretta per vedere il loro programmato, avrebbero richiamato loro per la risposta positiva o negativa.
Positiva, dalle 14 in poi il posto c’era, disponibile fino alla sera; dopo quell’orario sarebbe stata annullata la prenotazione, per renderla disponibile per un altro eventuale ricovero.
Nel pomeriggio di mercoledì, impegnato in telefonate alla ricerca spasmodica di una soluzione, non avevo avuto modo di vedere alcun dottore; tanto meno la dottoressa Tròia (per abbreviare questo testo, che mi sembra leggermente prolisso, eliminerò il titolo accademico, limitandomi al cognome pseudonimo di questo personaggio).
Un paio di volte avevo tentato di mettermi in contatto con qualcuno per comunicare l’evoluzione della mia ricerca.
L’infermiera di guardia alla porta, mi aveva lasciato fuori:
Dopo le 12” era stata la sua sentenza, spazientita dopo l'ennesimo tentativo.
Una volta entrato, non vedendo movimenti riguardanti la dimissione avevo chiesto chi fosse delegato all’operazione.
Era la Tròia.
Ero andato nello studio, lei era davanti al computer, le avevo chiesto notizie in merito all’uscita di Angela.
“Non mi ha fatto sapere la destinazione, quindi non firmo la dimissione”.
Le avevo fatto presente che il pomeriggio precedente non l’avevo vista per dirle del procedere della ricerca.
A quel punto la Tròia era schizzata dalla sedia ed era uscita furibonda dallo studio, urlando come un’ossessa.
Camice spalancato sul davanti, poppe in poppa, si era lanciata nel corridoio, gridando a tutti l’offesa ricevuta, forse intendendo il mio ‘non averla vista’ come sinonimo di ‘assenteista’.
Dopo aver dato spettacolo davanti a infermieri, degenti e parenti di questi, era rientrata nello studio sbattendo con violenza la porta.
Tròia, secondo me, non era medico da neurochirurgia, bensì da neurodeliri.
Da paziente ricoverata.
A parte il fatto che le dimissioni non erano state concordate, ma decise unilateralmente, non mi risultava che fosse obbligatorio comunicare la destinazione una volta usciti dal nosocomio.E a parte il fatto che di fatto (cacofonico disperato) mi era stato impedito di comunicare con l'interno.
Avremmo potuto andare direttamente a casa nostra o in altra struttura, nel foglio di dimissione non era previsto risultasse la scelta.
Il suo comportamento indicava un'unica alternativa: buttarci da un ponte, Angela, sua sorella ed io.
Con i nervi che non erano corde di violino bensì filo spinato, avevo bussato ed ero entrato nello studio, implorando (in ginocchio e a mani giunte, che non lo faccio neanche con un padreterno) che facesse questo foglio di dimissione, altrimenti sarebbero saltati tutti gli accordi presi con la clinica e l’ambulanza.
Continuando a urlare, mi aveva intimato di uscire, alzando il telefono per chiamare il posto di polizia all'entrata dell'ospedale per denunciare un’aggressione da parte mia.
Si parla sovente di ‘istinti omicidi’ dell’essere umano.
Me li sono sentiti addosso: ero uno straccio che da tredici giorni assisteva uno straccio stracciato, ed essere trattati così da una miserabile, mi aveva portato a quei pensieri; forse solo l’assenza di un’arma aveva impedito il completamento dell’opera.
Inoltre mi era rimasto uno spicchio di fantasia per immaginare come sarebbe finita l'avventura: dottoressa aggredita da parente impazzito e prontamente immobilizzato dalle forze dell'ordine. Quella stessa fantasia che mi aveva consentito di vedere tutto il seguito, dall'identificazione al trasferimento in questura... e tutto il resto definibile di routine in questi casi.
D'altronde come mettere in dubbio la dichiarazione di una professionista notoriamente seria?
Ero tornato nella camera, avevo telefonato alla clinica per bloccare il posto per l’indomani: nessuna garanzia di poterlo tenere, c'erano persone in attesa che avrebbero benedetto la mia rinuncia.
Avevo bloccato l’ambulanza, in attesa degli sviluppi della vicenda.
Mi sarei messo a piangere, ma sarebbero uscite lacrime di sangue tanto ero furibondo.
Ero andato dalla caposala chiedendo il modulo per le dimissioni volontarie, e, grazieadio, mi aveva assicurato che avrebbe sistemato la cosa.
Poco dopo aveva dato disposizione agli infermieri per la dimissione: distacco delle flebo e di tutto l’apparato medico; era rimasto solo il catetere urinario.
Il foglio di dimissione ci era stato recapitato in busta chiusa da un portantino.
La legatura era rimasta.
L’abbiamo dovuta staccare noi, con l’aiuto dell’autista dell’ambulanza, al suo arrivo.
Il ‘travaso’ di Angela dal letto alla lettiga ce lo siamo dovuti fare noi; non un infermiere che ci desse una mano.
Nel passaggio lungo il corridoio, tutte le porte chiuse: nessun degente, nessun parente, nessun infermiere, nessun medico.
Deserto.
Avanzando verso l’uscita, spingendo la lettiga cigolante, mi sono sentito il monatto manzoniano mentre spingeva il carretto con sopra un’appestata, lungo le strade deserte della città.

A completare una giornata già abbondantemente infame di suo, ci si era messa anche l'ambulanza.
Dicono gli economisti che far lavorare la gente di casa propria, come dire del proprio paese, dà un impulso positivo a tutta la comunità. E io mi ero affidato a questa regola, non scritta ma con buone possibilità di validità.
Per fortuna non avevamo mai avuto bisogno di ricorrere a questi presidi mobili, per cui il ritenerli pronti e predisposti alla bisogna di un soccorso, era influenzato dalla giusta fama che circondava il loro operato.
La lettiga cigolante era stato un presagio, che avevo ignorato, preso com'ero dallo sconforto e dalla rabbia per il trattamento ricevuto. Comunque sarebbe stato ormai impossibile cambiare vettore; il tempo stringeva e non potevo permettermi di perderne altro.
All'addetto che aveva risposto in mattinata alla chiamata avevo richiesto anche la presenza sul mezzo di un'infermiera; che mi era stata garantita.
Il traballìo cigolante della lettiga nel corridoio del reparto era il riporto esatto di quello che si era rivelata l'autolettiga. Il rumore di ferraglia nel corso della marcia sarebbe stato allarmante se non fossimo stati impegnati a cercare di calmare l'agitazione furiosa di mia moglie. L'infermiera (che tempo dopo ho saputo essere una semplice operatrice sanitaria, quelle operanti nei ricoveri per anziani nei ricambi e nelle pulizie dei "clienti"; e colà operative con meriti sicuramente superiori ai loro stipendi)) si era accomodata a fianco dell'autista, e noi dietro a svolgere il ruolo che avrebbe dovuto essere suo.
Quanto all'autista: nell'uscire dalla città, a un certo punto era rimasto bloccato; avevano pensato (e maledetto) il traffico, un coro di clacson di protesta, e, forse per liberarsene, stava andando in retromarcia... Guardando dall'oblò posteriore ci eravamo resi conto che aveva infilato una strada in senso vietato e il clamore dei clacson era di segnalazione a invertire la marcia.
Non era finita: conoscevo benissimo la strada che dalla città portava alla marina, dove eravamo diretti. Non tanto dalla visuale, che non potevo permettermi intento com'ero a seguire la paziente, quanto il rilevare i troppi tornanti e la salita ripida (quando il tracciato avrebbe dovuto essere con curve ampie e in leggera costante discesa). Avevo chiesto il perché di un percorso così fuori da quello comune:
"Andiamo da qui, ché così scendiamo direttamente sulla località sede della struttura".
Dopo infiniti sballottamenti eravamo finiti sulla statale prima abbandonata, ed eravamo fermi all'unico semaforo segnaletico esistente in tutta la zona. Esattamente quello che avremmo trovato seguendo la strada normale.
Per finire la giornata, già radiosa di suo, ci eravamo ritrovati con un'ambulanza d'anteguerra tenuta insieme con lo spago, un autista imbranato e una non-infermiera che sul mezzo aveva fatto solo buon peso.

Appunto, come insinuato nel titolo, proprio una bella giornata.




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