'Coming out' del gatto
Coming out: per fregare qualcuno che, in futuro, possa a sua volta fregarti con un outing a tradimento, magari in un momento di massima ascesa verso non so cosa. Ci sono un sacco di fatti, per cui un persona sente la necessità di confessare all'universo una sua pecca, di scoprire un suo scheletrino nel classico armadio (nel mio caso, un comodino basta e avanza); si potrebbe andare dalle pippe in gioventù alle dita nel naso per pulire, accuratamente, le canne fumarie. Ma sarebbero coming out scontati, a tal punto che dovrebbe fare coming out chi non ha mai messo in atto questi delitti. Procedo nella confessione. Abbiate pietà di me.
Non ho "fatto" il militare.
Non che il fatto di partire per il servizio di leva fosse tra le maggiori aspirazioni della mia (allora ancora breve) esistenza, ma quando arrivava una certa cartolina che ti comunicava la tua "vocazione", entusiasta o meno o per niente, bisognava rispondere.
Altrimenti erano guai.
La chiamavano "renitenza", e se non sapevi il significato del termine te lo facevano spiegare da chi, nei secoli fedele, a quella chiamata aveva risposto, e l'aveva pure sposata.
Per il lavaggio mentale era operativo un centro di recupero renitenti, a Gaeta, che manco sapevo dove fosse.
(Ci sono stato, venticinque anni dopo, e mi è sembrata una bella cittadina, civile e ordinata; all'epoca, Gaeta veniva illustrata come una fortezza in cui "perdete ogni speranza...").
Ero a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo anno di una vita che, se non proprio da caserma, era stata comunque vissuta tra quattro mura, che, per quanto simboliche, mi avevano costretto ad una esistenza limitata.
Assai.
Per cui non sarebbero stati altri diciotto mesi a schiacciarmi, o schiantarmi, o sfiancarmi.
Avrei solo dovuto abituarmi ai "signorsì" e ai "signornò", che, in effetti, non rientravano nei precedenti ordini del giorno.
Dunque: cartolina, "presente", visita medica...
Un po' umiliante, devo ammetterlo, per me che ero stato abituato a ritenere un corpo nudo a rischio e fonte di peccato. Peccati che, comunque, scontavo amaramente con trepateravegloria, qualunque fosse il numero dei delitti commessi.
Eravamo una cinquantina di vermi, nudi come neonati, in fila indiana, un tizio seduto a una scrivania, in camice bianco sovrapposto alla divisa, ritirava la cartolina, scriveva qualcosa in una specie di registro, ci squadrava dai capelli all'alluce e... "avanti un altro".
Gabinetto medico: denti, occhi, cuore, spalle, testicoli, gambe, braccia, udito... una vivisezione... dal vivo, appunto.
Molto sbrigativa: l'impressione era che si trattasse di un primo appello, la visita medica un atto burocratico da sbrigare alla svelta, più che altro per registrare la presenza fisica delle persone 'chiamate'. Chi c'era veniva protocollato, chi non c'era diventava ricercato, come renitente al servizio di leva.
"Avanti un altro".
Per cui non sarebbero stati altri diciotto mesi a schiacciarmi, o schiantarmi, o sfiancarmi.
Avrei solo dovuto abituarmi ai "signorsì" e ai "signornò", che, in effetti, non rientravano nei precedenti ordini del giorno.
Dunque: cartolina, "presente", visita medica...
Un po' umiliante, devo ammetterlo, per me che ero stato abituato a ritenere un corpo nudo a rischio e fonte di peccato. Peccati che, comunque, scontavo amaramente con trepateravegloria, qualunque fosse il numero dei delitti commessi.
Eravamo una cinquantina di vermi, nudi come neonati, in fila indiana, un tizio seduto a una scrivania, in camice bianco sovrapposto alla divisa, ritirava la cartolina, scriveva qualcosa in una specie di registro, ci squadrava dai capelli all'alluce e... "avanti un altro".
Gabinetto medico: denti, occhi, cuore, spalle, testicoli, gambe, braccia, udito... una vivisezione... dal vivo, appunto.
Molto sbrigativa: l'impressione era che si trattasse di un primo appello, la visita medica un atto burocratico da sbrigare alla svelta, più che altro per registrare la presenza fisica delle persone 'chiamate'. Chi c'era veniva protocollato, chi non c'era diventava ricercato, come renitente al servizio di leva.
"Avanti un altro".
Era un periodo che non buttavano niente, come nel maiale: damigiane, bottiglioni, bottiglie, andava tutto bene. Anche i tappi.
Infatti: abile, arrolato.
O, meglio, "abbile", arruolato.
Nell'insieme sembrava una catena di montaggio, tipo quelle di cui avevo sentito parlare, situate nel capoluogo, in cui un certo Valletta aveva visto nelle 'catene' il massimo dell'efficienza per la produzione di autoveicoli e, allora, pure di frigoriferi e carri armati.
E c'era pure un modulo in cui, noi candidati a servire la patria, potevamo indicare la scelta del corpo in cui svolgere tale servizio obbligatorio.
La scelta era limitata a tre: esercito, marina, aviazione.
Non sapevo, e non so, volare, aeronautica esclusa; non sapevo, e non so, sciare, esercito escluso per via degli alpini; sapevo, e so, nuotare, quindi marina come scelta obbligata..
Per dire dell'ignoranza: la marina, allora, prevedeva ventiquattro mesi di ferma contro i diciotto dell'esercito, per cui mi ero affibbiato sei mesi in più di gabbia.
Ma, tanto, lo sbaglio di scelta era stato subito dimensionato da voci di corridoio che avevano sussurrato: un altro branco di pista pauta (per i "civili": fanteria, ma non quella d'élite, quella che per diciotto mesi avrebbe pestato fango su e giù nei cortili di una caserma).
Ero preparato anche a quello: 'no-duè 'no-duè 'no-duè passo passo cadenza per fila sinist sinist alt at...tenti ri...poso avanti-marsh dietro fro...nt...
Ci avevo fatto colazioni pranzi e cene con quella musica...
Fino ad allora; diciotto mesi in più mi avrebbero fatto sorridere l'ombelico.
Per addolcire la situazione facevano girare la barzelletta che "chi non è buono per il re, non lo è per la regina".
Sapevo il significato vero, ma comunque trovavo quella 'pubblicità' fuorviante.
Intanto mi lasciava perplesso il fatto di "essere buono per il re": in teoria se fossi andato bene a lui, col cavolo che sarei arrivato alla regina.
Inoltre sapevo benissimo che il re, con regina al seguito, era partito da Brindisi per una crociera in Atlantico, e difficilmente sarebbe tornato in tempo sia per provare quanto "fossi buono", né se al suo rientro sarebbe stato ancora in grado di 'assaggiarmi'.
Nella "mia" caserma, avevo proseguito il mio addestramento lavorativo, e al servizio della patria non avevo avuto proprio tempo di pensare.
Era prossimo il momento di spiccare il volo, di assaggiare (assaporare era un pensiero troppo forte, già allora) la libertà, di vedere il mondo da una prospettiva diversa da quella chiesa-laboratorio-cortile.
Era arrivata una proposta di lavoro da una cittadina, capoluogo di provincia, ma tutt'altro che megacittà; una di quelle città "a misura d'uomo", come si dice, un paese divenuto città senza perdere le caratteristiche tipiche di un paesotto.
Non ne ero entusiasta, lo confesso.
Ma d'altra parte a un trampolino di lancio non è possibile andare a chiedere se è di frassino o di quercia: se tiene arrivi a fondo valle, se si rompe ti sfasci.
Per ignorante (nel senso di ignorare proprio tutto della vita, fuori) che fossi, mi ero fatto una specie di piano: resto là, vado militare, e mi trovo un posto nel capoluogo, quello grande, che oltre alle maggiori possibilità di lavoro, mi avrebbe consentito di aprire meglio gli occhi sul mondo.
Detto fatto, in attesa della seconda chiamata alle armi, mi ero sistemato in una camera ammobiliata (per gli studiosi di economia domestica: settemila lire al mese, comprensive della biancheria della camera , uso bagno-doccia; non c'era il riscaldamento, e in quella pur splendida cittadina d'inverno faceva un freddo boia, ma non per modo di dire. Mi era capitato di dormire con tre coperte e il cappotto addosso. Come mi era stato descritto l'inferno, lo avevo agognato...), al posto di lavoro andavo a piedi, sotto i portici, attento solo ad evitare le deiezioni canine disseminate generosamente lungo il percorso.
Un po' alla volta mi ero fatto un giro di compagni, alcuni solo tali, altri divenuti amici.
Pranzo e cena in una trattoria, manco a farlo apposta "Degli amici": 350 lire a pasto, primo secondo contorno frutta o formaggio o dolce, un quartino di vino o una birra.
Era di un ex partigiano, che nelle valli prossime alla città aveva passato una parte della sua vita, ne aveva viste di cotte e di crude, e le raccontava, evitando le rappresentazioni granguignolesche che non avrebbero giovato a chi le aveva subite e avrebbero potuto turbare gli animi sensibili, inducendoli alla rinuncia del pasto.
(A margine: eravamo a tre lustri circa da quegli avvenimenti, e chi li aveva vissuti già si limitava nel raccontarli "perché non tutti erano pronti a ricordarli". Adesso?).
Nel giro delle amicizie acquisite c'erano anche dei tenentini, ufficiali di complemento, che, in attesa dello sbroglio della formalità militare, svolgevano il servizio in una caserma CAR prossima alla città.
Anche loro in attesa di un "la" dalla vita.
Frequentandoli avevo fatto una specie di pre-addestramento militare.
Da loro avevo appreso alcuni "trucchi" della vita in divisa. Per esempio: un ufficiale in borghese non deve essere salutato militarmente dai soldati in divisa. Regolarmente, seduti fuori da un bar o a spasso sotto i portici, tutti i militari di passaggio, obbligatoriamente in divisa, scattavano nel saluto, cui gli amici rispondevano con un cenno della mano, che, più che un saluto, era un "al rientro ti scasso", cps e cpr in vista.
Non erano fanatici, il servizio militare era una rottura di piani anche per loro, e l'essere riconosciuti in abito civile li mandava in bestia. Si trattava di diplomati e laureati che dalla vita si aspettavano altro che insegnare ai fantaccini a marciare e dire signorsì.
Ritorno sull'ignoranza: fossi stato meno ignorante, avrei saputo che la seconda chiamata aveva dei tempi precisi, difficilmente prorogabili.
E questa chiamata non mi era arrivata.
La tromba della sveglia aveva suonato in occasione di elezioni comunali previste in quella città.
Avendo ricevuto un'educazione civica al midollo, sapevo che votare più che un diritto era un dovere.
Oltretutto sarebbe stato il mio primo voto.
Quasi paragonabile alla prima volta di una ragazza.
Imbecillinamente, non avendo ricevuto l'invito ad andare a votare, ero andato all'anagrafe del comune, per chiedere il documento.
Non risultavo nelle liste elettorali.
Cazzo! (lo dico oggi che si è abbondantemente sdoganato anche per indicare sconcerto, ma allora questo termine non era previsto nel parlare quotidiano).
Comunque, non risultavo iscritto in quell'anagrafe.
Vabbé, dov'era il problema: iscriviamo.
Provenienza?
Non c'erano i computer e neanche i piccioni, che avrebbero fatto prima, ma bisognava verificare al comune di provenienza la veridicità delle mie indicazioni.
Dopo qualche giorno era arrivata la risposta: negativa.
Là non risultavo residente (ma ci avevo fatto la visita militare, bicazzo!), qui non mi facevano la carta d'identità per poter votare...
Non che fossi disperato, visto che di quelle elezioni me ne fregava quanto, a questo punto, un tricazzo, però volevo, volevamo con l'anagrafe, capire cosa era successo.
Visto dopo, un fatto semplice: al momento della visita di leva risultavo residente nel comune "di provenienza".
Tra la visita di leva e le votazioni del comune sede del posto di lavoro, c'era stato il secondo censimento della popolazione italiana nel dopoguerra.
Al tempo della visita per l'arruolamento io ero residente in una (specie di) caserma, in cui, forse, più che i nomi contavano i numeri. Al momento dello spicco del volo, non mi era stato spiegato che avrei dovuto iscrivermi in un altro nido, e non lo avevo fatto.
I moduli del censimento mi avevano dato "assente" in quel comune.
I moduli del nuovo comune mi avevano ignorato, poiché per loro "inesistente".
Ero apolide.
Ero nessuno.
E, non fosse stato per il mio "senso civico" del quadricazzo, forse lo sarei ancora.
Ancora oggi, che non gioco a carte ma bevo vino, mi chiedo: ero a posto con il libretto di lavoro, incredibilmente per quei tempi al momento della pensione mi sono trovato tutti i contributi versati, ho avuto un problemino e sono stato ricoverato in ospedale qualche giorno senza intoppi burocratici, abitavo in una camera in affitto da una signora vecchio stampo, avevo trovato amici e compagni... ma chi, quinquicazzo!, mi aveva fatto uscire dallo stato apolideo?
L'ignoranza, poco che ci avessi ragionato allora, oggi i monti e i mari mi farebbero un baffo.
Ma, oltretutto, con questa fesseria, avevo anche smosso le acque del distretto.
Non ero renitente, poiché non ero esistito, ma una volta re-iscritto non potevo sfuggire al destino infame.
Ero risultato un caso un po' anomalo per il mini distretto locale, per cui ero stato "invitato" a recarmi al capoluogo grande.
Distretto, ospedale militare (forse per verificare che non fossi un alieno), ancora distretto: la mia leva era ormai fuori dal giro, quella in corso era troppo in soprannumero, ero stato mandato a casa in attesa del congedo (illimitato provvisorio, in caso di necessità sarei stato richiamato in servizio, con l'obbligo di presentarmi entro tot ore presso il distretto di).
Il congedo mi era arrivato dopo lo scadere del periodo di ferma in corso.
Nel frattempo mi ero trasferito nella grande città.
Della piccola ho tutt'ora un gran bel ricordo e ancora molti amici.
Potrei chiudere qui e beotamente godermi un "finalmente!" giusto e meritato, ma sono felinamente sadico e continuo col racconto di un episodio che mi ancora oggi mi diverte ricordare.
Al mio arrivo nella grande città ero andato a lavorare in una boita, una piccola ditta, sei, occasionalmente sette, dipendenti.
Uno di questi era il capoccia, amante sottobanco della titolare.
Era stato militare, nientepoppodimenoché, nei granatieri.
Di questa, pur lontana, esperienza, non perdeva occasione, nelle pause ma anche durante il lavoro, di raccontare gli episodi della vita di caserma, orgoglioso e quasi rimpiantoso di quell'esperienza.
Di solito lo ascoltavamo, divertiti più che interessati.
Un giorno, dopo l'ennesimo episodio raccontato, se ne era uscito con un:
"Ma ti, Pierin, t'las falu 'l suldà?".
Allora non avevo ancora la saggezza felina che oggi mi è propria, ero un pitu.
Mi stavo asciugando le mani per fine lavoro, e, passandogli sotto il naso, gli avevo sparato:
"Sun pà piciu!".
"Cuma saria a dì, che mi che l'hai falu sun 'n piciu?".
"Mi l'hai nen dì che TI t'ses 'n piciu, l'ai mac dì che MI sun nen piciu".
"Ah, menu mal, a mancaria 'd pieme del piciu da 'n rifurmà".
Non so se, poi, avesse rimuginato il bolo, fino alla chiara conclusione del discorso.
Forse sì, perché del suo servizio militare non aveva più parlato.
O forse no, sarà ancora in attesa che dal comando gli arrivino indicazioni sul quesito se fosse o non fosse piciu. E non sa che, seguendo la moda, anche la sua domanda è andata in prescrizione.
Per la parte dialettale, glossario: pauta = fango; pitu = tacchino (gli amici dicevano che ero come un tacchino, per come mi incazzavo con facilità); piciu = qui vale per scemo, ma è fratello di 'pirla' e 'belin', con quest'ultimo che è stato promosso a interiezione, mentre piciu e pirla sono rimasti solo membri, soppiantati dall'italiano 'cazzo', già citato. Il dialetto l'ho scritto, più o meno, come si parla, per semplificarne la comprensione.
Nell'insieme sembrava una catena di montaggio, tipo quelle di cui avevo sentito parlare, situate nel capoluogo, in cui un certo Valletta aveva visto nelle 'catene' il massimo dell'efficienza per la produzione di autoveicoli e, allora, pure di frigoriferi e carri armati.
E c'era pure un modulo in cui, noi candidati a servire la patria, potevamo indicare la scelta del corpo in cui svolgere tale servizio obbligatorio.
La scelta era limitata a tre: esercito, marina, aviazione.
Non sapevo, e non so, volare, aeronautica esclusa; non sapevo, e non so, sciare, esercito escluso per via degli alpini; sapevo, e so, nuotare, quindi marina come scelta obbligata..
Per dire dell'ignoranza: la marina, allora, prevedeva ventiquattro mesi di ferma contro i diciotto dell'esercito, per cui mi ero affibbiato sei mesi in più di gabbia.
Ma, tanto, lo sbaglio di scelta era stato subito dimensionato da voci di corridoio che avevano sussurrato: un altro branco di pista pauta (per i "civili": fanteria, ma non quella d'élite, quella che per diciotto mesi avrebbe pestato fango su e giù nei cortili di una caserma).
Ero preparato anche a quello: 'no-duè 'no-duè 'no-duè passo passo cadenza per fila sinist sinist alt at...tenti ri...poso avanti-marsh dietro fro...nt...
Ci avevo fatto colazioni pranzi e cene con quella musica...
Fino ad allora; diciotto mesi in più mi avrebbero fatto sorridere l'ombelico.
Per addolcire la situazione facevano girare la barzelletta che "chi non è buono per il re, non lo è per la regina".
Sapevo il significato vero, ma comunque trovavo quella 'pubblicità' fuorviante.
Intanto mi lasciava perplesso il fatto di "essere buono per il re": in teoria se fossi andato bene a lui, col cavolo che sarei arrivato alla regina.
Inoltre sapevo benissimo che il re, con regina al seguito, era partito da Brindisi per una crociera in Atlantico, e difficilmente sarebbe tornato in tempo sia per provare quanto "fossi buono", né se al suo rientro sarebbe stato ancora in grado di 'assaggiarmi'.
Nella "mia" caserma, avevo proseguito il mio addestramento lavorativo, e al servizio della patria non avevo avuto proprio tempo di pensare.
Era prossimo il momento di spiccare il volo, di assaggiare (assaporare era un pensiero troppo forte, già allora) la libertà, di vedere il mondo da una prospettiva diversa da quella chiesa-laboratorio-cortile.
Era arrivata una proposta di lavoro da una cittadina, capoluogo di provincia, ma tutt'altro che megacittà; una di quelle città "a misura d'uomo", come si dice, un paese divenuto città senza perdere le caratteristiche tipiche di un paesotto.
Non ne ero entusiasta, lo confesso.
Ma d'altra parte a un trampolino di lancio non è possibile andare a chiedere se è di frassino o di quercia: se tiene arrivi a fondo valle, se si rompe ti sfasci.
Per ignorante (nel senso di ignorare proprio tutto della vita, fuori) che fossi, mi ero fatto una specie di piano: resto là, vado militare, e mi trovo un posto nel capoluogo, quello grande, che oltre alle maggiori possibilità di lavoro, mi avrebbe consentito di aprire meglio gli occhi sul mondo.
Detto fatto, in attesa della seconda chiamata alle armi, mi ero sistemato in una camera ammobiliata (per gli studiosi di economia domestica: settemila lire al mese, comprensive della biancheria della camera , uso bagno-doccia; non c'era il riscaldamento, e in quella pur splendida cittadina d'inverno faceva un freddo boia, ma non per modo di dire. Mi era capitato di dormire con tre coperte e il cappotto addosso. Come mi era stato descritto l'inferno, lo avevo agognato...), al posto di lavoro andavo a piedi, sotto i portici, attento solo ad evitare le deiezioni canine disseminate generosamente lungo il percorso.
Un po' alla volta mi ero fatto un giro di compagni, alcuni solo tali, altri divenuti amici.
Pranzo e cena in una trattoria, manco a farlo apposta "Degli amici": 350 lire a pasto, primo secondo contorno frutta o formaggio o dolce, un quartino di vino o una birra.
Era di un ex partigiano, che nelle valli prossime alla città aveva passato una parte della sua vita, ne aveva viste di cotte e di crude, e le raccontava, evitando le rappresentazioni granguignolesche che non avrebbero giovato a chi le aveva subite e avrebbero potuto turbare gli animi sensibili, inducendoli alla rinuncia del pasto.
(A margine: eravamo a tre lustri circa da quegli avvenimenti, e chi li aveva vissuti già si limitava nel raccontarli "perché non tutti erano pronti a ricordarli". Adesso?).
Nel giro delle amicizie acquisite c'erano anche dei tenentini, ufficiali di complemento, che, in attesa dello sbroglio della formalità militare, svolgevano il servizio in una caserma CAR prossima alla città.
Anche loro in attesa di un "la" dalla vita.
Frequentandoli avevo fatto una specie di pre-addestramento militare.
Da loro avevo appreso alcuni "trucchi" della vita in divisa. Per esempio: un ufficiale in borghese non deve essere salutato militarmente dai soldati in divisa. Regolarmente, seduti fuori da un bar o a spasso sotto i portici, tutti i militari di passaggio, obbligatoriamente in divisa, scattavano nel saluto, cui gli amici rispondevano con un cenno della mano, che, più che un saluto, era un "al rientro ti scasso", cps e cpr in vista.
Non erano fanatici, il servizio militare era una rottura di piani anche per loro, e l'essere riconosciuti in abito civile li mandava in bestia. Si trattava di diplomati e laureati che dalla vita si aspettavano altro che insegnare ai fantaccini a marciare e dire signorsì.
Ritorno sull'ignoranza: fossi stato meno ignorante, avrei saputo che la seconda chiamata aveva dei tempi precisi, difficilmente prorogabili.
E questa chiamata non mi era arrivata.
La tromba della sveglia aveva suonato in occasione di elezioni comunali previste in quella città.
Avendo ricevuto un'educazione civica al midollo, sapevo che votare più che un diritto era un dovere.
Oltretutto sarebbe stato il mio primo voto.
Quasi paragonabile alla prima volta di una ragazza.
Imbecillinamente, non avendo ricevuto l'invito ad andare a votare, ero andato all'anagrafe del comune, per chiedere il documento.
Non risultavo nelle liste elettorali.
Cazzo! (lo dico oggi che si è abbondantemente sdoganato anche per indicare sconcerto, ma allora questo termine non era previsto nel parlare quotidiano).
Comunque, non risultavo iscritto in quell'anagrafe.
Vabbé, dov'era il problema: iscriviamo.
Provenienza?
Non c'erano i computer e neanche i piccioni, che avrebbero fatto prima, ma bisognava verificare al comune di provenienza la veridicità delle mie indicazioni.
Dopo qualche giorno era arrivata la risposta: negativa.
Là non risultavo residente (ma ci avevo fatto la visita militare, bicazzo!), qui non mi facevano la carta d'identità per poter votare...
Non che fossi disperato, visto che di quelle elezioni me ne fregava quanto, a questo punto, un tricazzo, però volevo, volevamo con l'anagrafe, capire cosa era successo.
Visto dopo, un fatto semplice: al momento della visita di leva risultavo residente nel comune "di provenienza".
Tra la visita di leva e le votazioni del comune sede del posto di lavoro, c'era stato il secondo censimento della popolazione italiana nel dopoguerra.
Al tempo della visita per l'arruolamento io ero residente in una (specie di) caserma, in cui, forse, più che i nomi contavano i numeri. Al momento dello spicco del volo, non mi era stato spiegato che avrei dovuto iscrivermi in un altro nido, e non lo avevo fatto.
I moduli del censimento mi avevano dato "assente" in quel comune.
I moduli del nuovo comune mi avevano ignorato, poiché per loro "inesistente".
Ero apolide.
Ero nessuno.
E, non fosse stato per il mio "senso civico" del quadricazzo, forse lo sarei ancora.
Ancora oggi, che non gioco a carte ma bevo vino, mi chiedo: ero a posto con il libretto di lavoro, incredibilmente per quei tempi al momento della pensione mi sono trovato tutti i contributi versati, ho avuto un problemino e sono stato ricoverato in ospedale qualche giorno senza intoppi burocratici, abitavo in una camera in affitto da una signora vecchio stampo, avevo trovato amici e compagni... ma chi, quinquicazzo!, mi aveva fatto uscire dallo stato apolideo?
L'ignoranza, poco che ci avessi ragionato allora, oggi i monti e i mari mi farebbero un baffo.
Ma, oltretutto, con questa fesseria, avevo anche smosso le acque del distretto.
Non ero renitente, poiché non ero esistito, ma una volta re-iscritto non potevo sfuggire al destino infame.
Ero risultato un caso un po' anomalo per il mini distretto locale, per cui ero stato "invitato" a recarmi al capoluogo grande.
Distretto, ospedale militare (forse per verificare che non fossi un alieno), ancora distretto: la mia leva era ormai fuori dal giro, quella in corso era troppo in soprannumero, ero stato mandato a casa in attesa del congedo (illimitato provvisorio, in caso di necessità sarei stato richiamato in servizio, con l'obbligo di presentarmi entro tot ore presso il distretto di).
Il congedo mi era arrivato dopo lo scadere del periodo di ferma in corso.
Nel frattempo mi ero trasferito nella grande città.
Della piccola ho tutt'ora un gran bel ricordo e ancora molti amici.
Potrei chiudere qui e beotamente godermi un "finalmente!" giusto e meritato, ma sono felinamente sadico e continuo col racconto di un episodio che mi ancora oggi mi diverte ricordare.
Al mio arrivo nella grande città ero andato a lavorare in una boita, una piccola ditta, sei, occasionalmente sette, dipendenti.
Uno di questi era il capoccia, amante sottobanco della titolare.
Era stato militare, nientepoppodimenoché, nei granatieri.
Di questa, pur lontana, esperienza, non perdeva occasione, nelle pause ma anche durante il lavoro, di raccontare gli episodi della vita di caserma, orgoglioso e quasi rimpiantoso di quell'esperienza.
Di solito lo ascoltavamo, divertiti più che interessati.
Un giorno, dopo l'ennesimo episodio raccontato, se ne era uscito con un:
"Ma ti, Pierin, t'las falu 'l suldà?".
Allora non avevo ancora la saggezza felina che oggi mi è propria, ero un pitu.
Mi stavo asciugando le mani per fine lavoro, e, passandogli sotto il naso, gli avevo sparato:
"Sun pà piciu!".
"Cuma saria a dì, che mi che l'hai falu sun 'n piciu?".
"Mi l'hai nen dì che TI t'ses 'n piciu, l'ai mac dì che MI sun nen piciu".
"Ah, menu mal, a mancaria 'd pieme del piciu da 'n rifurmà".
Non so se, poi, avesse rimuginato il bolo, fino alla chiara conclusione del discorso.
Forse sì, perché del suo servizio militare non aveva più parlato.
O forse no, sarà ancora in attesa che dal comando gli arrivino indicazioni sul quesito se fosse o non fosse piciu. E non sa che, seguendo la moda, anche la sua domanda è andata in prescrizione.
Per la parte dialettale, glossario: pauta = fango; pitu = tacchino (gli amici dicevano che ero come un tacchino, per come mi incazzavo con facilità); piciu = qui vale per scemo, ma è fratello di 'pirla' e 'belin', con quest'ultimo che è stato promosso a interiezione, mentre piciu e pirla sono rimasti solo membri, soppiantati dall'italiano 'cazzo', già citato. Il dialetto l'ho scritto, più o meno, come si parla, per semplificarne la comprensione.
eh eh faccio outing anche io... non l'ho fatto
RispondiEliminaMi sembra non ci sia tutto questo outing da fare, nel senso: questo non è neanche uno scheletro in un comodino, mica è stata colpa tua l'aver evitato quella buffonata - perché tale è a 360° e provate a criticare questa mia affermazione ché vi smonto una a una qualsiasi argomentazione...
RispondiEliminaInvidio il tuo stato di apolide, io sto informandomi per richiederlo, ma i tempi sono lunghi e la giustificazione "questo stato e le sue istituzioni mi disgustano al punto tale che non voglio essere più neanche vagamente identificabile come originaria dell'Italia" pare non venga accettato (il che è un'ulteriore violenza/sopruso da parte dello stato).
Un abbraccione, mio caro.
Ecco perchè l'Italia perde sempre la guerra! Io sono stato riformato per grave stato di denutrizione. Ora dovrei dimagrire di 10 chili e non ci riesco.
RispondiEliminaIl il militare l'ho fatta,tanti anni fa
RispondiEliminaHo ancora amici tra i commilitoni di allora.
E conservo un bellissimo ricordo di Trento.
Le cose negative,se ce n'era,le ho dimenticate.
Non credo che alla fine tu ti sia perso molto, ma essendo io una donna forse non capisco queste segrete gioie del militare...grande stile di racconto cmq come al solito! :)
RispondiEliminaAmico gattonero, i miei 12 mesi di battaglione corazzato coi gloriosi M47 ex-USA vs. NordCorea non hanno fatto di me un tecnico della difesa. Un qualsiasi russo imbottito di vodka mi si sarebbe fatto con tutti i calzoni e le giberne. Tuttavia quei 12 mesi scaraventato a 1400 km di distanza (l'Italia può essere molto lunga) mi hanno insegnato al momento giusto come arrangiarmi fuori dal nido e trovo che questo manchi parecchio ai ragazzi odierni.
RispondiEliminaSono stato buono per il Re e per la (mia) Regina anche se il mio compito in difesa di questa patria matrigna (tipo quella di Cenerentola) sarebbe stato farmi macellare per 24 ore in attesa degli americani.
Tuttavia non mi sento "piciu".
Anzi.
Bacioni.
Stefano, con questo post ho voluto raccontare un'esperienza che va oltre il servizio di leva saltato. Il piciu era chiaramente soggettivo, e non voleva essere denigratorio per chiunque abbia "fatto il suo dovere".
RispondiEliminaDa chiunque sia toccato l'argomento, Costantino in primis e poi tu, quel periodo è ricordato con simpatia, così come il ricordo dei commilitoni.
Del mio periodo di "caserme" bei ricordi non ne ho, forse perché è stata troppo lunga la cattività, o forse perché in quelle caserme ho lasciato tutta l'infanzia, tutta l'adolescenza e buona parte dell'inizio della mia maturità. Che è iniziata dal giorno stesso in cui ho preso il volo. Dei compagni di allora, "militari" come me, ho ricordi precisi di parecchi, ma il cameratismo di allora non ha avuto seguito. Non erano prigioni in cui si tessono rapporti che poi durano nei secoli, erano "caserme" da cui non si vedeva l'ora di spiccare il volo e tagliare il cordone ombelicale che dava nutrimento, ma senza un filo d'affetto, tanto meno d'amore. Alla tua Regina penso sempre con affettuoso rimpianto.
Abbaccio+bacio.
Apolide? Io lo sono solo nell'animo. Meno male che sono nato alla fine degli '80 almeno mi son risparmiato la leva!
RispondiEliminaHo capito due o tre cose, tra cui che non siamo lontani geograficamente (io il dialetto di qui non lo parlo ma ormai lo capisco).
RispondiEliminaNon so se a te faccia venire un senso di vergogna ricordare che hai saltato la leva, ma quantomeno per farlo non ti sei provocato un attacco d'asma respirando nel sacchetto dell'aspirapolvere... Ne ho conosciuti.
Il mio fidanzato storico ha fatto corso ufficiali a Livorno e poi è stato messo in ufficio a Milano (sì, alla famosissima Marina Militare di Milano) per un totale di 14 lunghissimi mesi. E' lì che abbiamo smesso di funzionare, perchè a un certo punto a lui la mentalità militare PIACEVA. Infatti oggi sono sposata con un obiettore che i suoi mesi di servizio civile li ha passati a fare l'educatore. Ciò nonostante, concordo con chi dice che i dodici mesi da dare allo Stato dovrebbero ancora essere obbligatori, e per tutti, maschi e femmine, solo che io li organizzerei per dare a tutti la possibilità di imparare un ruolo nella società (e onestamente non quello di sparacchiare nelle esercitazioni che, tra l'altro, insegnano pochino di quel che davvero c'è da fare in guerra) e anche di stare dodici mesi lontano da casa. Sarebbe un'ottima esperienza per chi non ha bisogno o mezzi di allontanarsi da casa per motivi di studio e insegnerebbe il valore del lavoro per la comunità, il valore dei soldi a fine mese, il valore dell'indipendenza e, non ultimo, ai genitori a fare a meno dei diletti pargoli per un anno, il che, mi scoccia dirlo ma è tragicamente vero, è al giorno d'oggi quasi più utile che insegnare ai ragazzi a uscire dal nido, perchè le famiglie italiane sono vischiose, soffocanti ed estremamente resistenti al cambiamento.
Prof, concordo su quasi tutto.
EliminaLa lontananza geografica, purtroppo, c'è, abbreviabile solo con un volo aereo. In quel "purtroppo" è chiaro un certo rimpianto, che riguarda un po' tutto il nord-ovest della penisola, ivi compreso un buon Barbera.
Non ho assolutamente rimpianti per la leva saltata, sarebbe stato un "di più" di cui non sentivo proprio il bisogno.
E' fuor di dubbio che un periodo di leva obbligatoria sarebbe utile, come dici tu, a tagliare il cordone ombelicale dei giovani dalle famiglie, intanto aprendo nuovi orizzonti, conoscendo altre persone che non siano solo i paesani, guardando altre realtà diverse dalla parrocchietta in cui sono cresciuti... Allora gli spostamenti erano più possibili e i giovani avevano meno paure nell'affrontare il cosiddetto ignoto. Oggi, ma già da un bel po', l'uscita dai nidi è diventata un'avventura che pochi si sentono di affrontare. E buona parte della colpa di questa situazione è proprio delle famiglie: hanno avviluppato i pargoli nella bambagia, non dicono più "no" a niente, siano abiti o mezzi di locomozione o sistemi sofisticati (e costosi) di comunicazione... Per i ragazzi è diventato difficile abbandonare l'alcova famigliare. La situazione economica, in particolare del lavoro, sta facendo il resto. Mala tempora currunt, per tutti, per i giovani di più.
Salutissimi.
un tizio, colonnello in pensione e proprietario di un locale dove suonai, mi disse che lui amava l'italia, perche' era il paese piu' bello del mondo. era, si, disse era. e aggiunse che poteva ben affermarlo lui che aveva girato il mondo e confrontato (arruolatevi e girerete il mondo, altro slogan fuorviante). infatti era stato oin iraq, kossovo, somalia, e afganistan. quando si dice, ti piace vincere facile (ennesimo slogan). la cosa che mi lascio' maggiormente perplesso della conversazione con quel tale fu l'affermazione seconda in base alla quale sosteneva essere l'italia il meglio paese al mondo. il meglio, si, disse il meglio. qui da noi, disse, c'e' la liberta' garantita dalla costituzione firmata dal buon re carlo alberto. ahi ahi ahi.
RispondiEliminaTVb perchè non hai fatto il militare :)
RispondiEliminaMa...lo avresti fatto a Cuneo?
Strabacio
@ELISENA: molti anni dopo Totò, in effetti quella sarebbe stata la mia destinazione iniziale. Non ridere.
RispondiEliminaAbbraccio anche da qui.
:)))))) Accidenti...io l'avevo detto per scherzo!
EliminaCiao, non mai censito!
Io (classe 71) il militare non l'ho fatto grazie ad una legge per la quale i figli di profughi (nel mio caso di famiglia italiana) potevano evitarlo. Oggi le cose vanno diversamente: all'obbligo, si è sostituita una necessità, "grazie" al clima di disoccupazione che hanno creato. Non fate il lavoro, fate la guerra. Morite e uccidete, se volete vivere... Così i "loro" pasciuti figlioli sono automaticamente esonerati, a danno dei nostri. Non c'è patriottismo che tenga, in questa logica. C'è tutta la mia solidarietà per i disagi che hai dovuto subire tu, figuriamoci per situazioni peggiori a cui "cercano" di abituarci. Anche questa è evoluzione, purtroppo. Grazie della tua testimonianza, gattonero.
RispondiEliminaIo ho fatto il servizio civile a Gaeta :)
RispondiEliminadirei che sei stato super fortunato a scansarti questo fosso!
RispondiEliminaBuon fine settimana
lu
AUGURISSIMISSIMI Pietro! Porta un mio bacio ad Angela!
RispondiEliminaTVB